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Oggi tutti parlano di quello che sta accadendo a Gaza, eppure la questione della liberazione della Palestina è passata in secondo piano. Anche all’interno del movimento di massa a sostegno della Global Sumud Flotilla, tutta l’attenzione è concentrata sugli aspetti umanitari (porre fine al genocidio, cessate il fuoco, aprire corridoi sicuri per far arrivare gli aiuti…), ma si parla poco di una soluzione complessiva alla questione nazionale palestinese.
È comprensibile che, di fronte alla situazione di barbarie quotidiana a Gaza, la priorità sia considerata quella di fermare il massacro e certamente anche una semplice tregua darebbe sollievo a un popolo martoriato. Tuttavia la lotta non può limitarsi a questo. Il genocidio deve fermarsi, certo, ma deve avere fine anche l’oppressione nazionale del popolo palestinese che dura ininterrottamente dal 1948. Dobbiamo difendere non solo il diritto dei palestinesi a non essere sterminati, ma anche il loro diritto all’autodeterminazione e cioè a vivere una vita degna di questo nome nelle loro terre.
Una politica meramente pacifista del tipo “prima facciamo tacere le armi e poi si vedrà” sarebbe miope e sbagliata. Dopotutto anche Trump sta organizzando la sua pace, una pace sulla pelle dei palestinesi. Finché la questione palestinese non verrà risolta, non potrà mai esserci una vera pace. Un cessate il fuoco, per quanto desiderabile, non eliminerebbe il fatto che nella Cisgiordania e a Gerusalemme Est si trovano 700mila coloni israeliani, armati fino ai denti, che possiedono le terre migliori, le strade principali, le risorse idriche. Non eliminerebbe nemmeno una situazione di dominazione di fatto, in cui Israele mantiene il pieno controllo su tutto (confini, comunicazioni, infrastrutture, risorse economiche…) e in qualsiasi momento avrebbe la possibilità di lanciare una nuova invasione. Dal 7 ottobre 2023 a oggi, sono state già siglate due tregue tra Hamas e Israele, che però hanno avuto vita molto breve e in pratica non sono state altro che una pausa operativa tra un’offensiva dell’IDF e l’altra.
Rivendicare quindi una pace generica, che nei fatti farebbe proseguire l’oppressione e la violenza in forme diverse, è un modo per aggirare il problema, non per risolverlo. La battaglia per il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese deve invece tornare al centro delle mobilitazioni. Ma questo vuol dire anche discutere su come questo diritto può essere effettivamente conquistato.
Post-colonialismo
Secondo le forze politiche che aderiscono alle concezioni del post-colonialismo, noi occidentali non dovremmo occuparci di questa questione. La tesi è che solo i palestinesi possono parlare della loro oppressione e di come affrontarla, gli altri non devono intromettersi. La ricaduta pratica di questa teoria è la subordinazione totale alle formazioni politiche palestinesi esistenti e in particolare ad Hamas. In quest’ottica il 7 ottobre è “l’inizio della rivoluzione” e non bisogna far altro che appoggiare la “resistenza” militare di Hamas contro l’esercito israeliano. L’obiettivo è sconfiggere militarmente gli israeliani e cacciarli via, “dal fiume al mare”.
Apparentemente si tratta di una politica molto radicale e combattiva, ma è totalmente slegata dai reali rapporti di forza in campo. Se tutto viene ridotto a un puro scontro militare tra le milizie di Hamas e l’IDF, l’esito non può essere altro che quello cui stiamo assistendo oggi: un massacro unilaterale da parte delle forze armate israeliane, che possono contare su una netta superiorità militare grazie agli armamenti e ai finanziamenti che ricevono dagli USA e dagli altri paesi occidentali. Non ci uniamo certo al coro dei perbenisti che denunciano scandalizzati la natura anti-semita dello slogan “from the river to the sea”, ma la verità è che oggi la pulizia etnica dal fiume al mare la stanno facendo gli israeliani.
Due popoli, due Stati
Tra le soluzioni avanzate, quella più gettonata (da parte dell’ONU, dell’UE e di tutte le forze riformiste-pacifiste) è quella “due popoli, due Stati”. Va detto che questa proposta è stata utilizzata da molti governi europei in maniera del tutto strumentale: i vari Starmer e Macron, dopo che per due anni hanno appoggiato in tutto e per tutto i crimini di Netanyahu e continuano a farlo ancora oggi, cercano di salvarsi la faccia di fronte all’opinione pubblica attraverso il riconoscimento dello Stato palestinese. Si tratta di una mossa totalmente ipocrita, senza alcun effetto pratico. L’Unione Europea è, assieme agli USA, uno dei principali partner commerciali di Israele e le armi per l’IDF continuano a transitare dai porti europei. Sono ben 157 i paesi che nel mondo riconoscono la Palestina, ma questo non ha certo impedito a Netanyahu di radere al suolo Gaza City o di progettare l’annessione della Cisgiordania. Oramai c’è rimasto ben poco da “riconoscere” e il popolo palestinese non è mai stato tanto lontano dalla possibilità di ottenere l’indipendenza.
Ciò detto, molte persone continuano a sostenere la posizione “due popoli, due Stati” in buona fede, come l’unico modo per garantire i diritti dei palestinesi. Il problema è che questa soluzione è del tutto irrealizzabile sotto il capitalismo, nel contesto del Medio Oriente dominato dall’imperialismo. La classe dominante sionista non accetterà mai la creazione di uno Stato palestinese davvero indipendente: la minaccia esterna dei palestinesi è il collante con cui tengono insieme la società, con cui mantengono sottomessa la classe lavoratrice israeliana in nome dell’unità nazionale e della sicurezza degli ebrei. Allo stesso modo gli USA non accetteranno mai di rompere con Israele, che è il loro principale alleato in tutto il Medio Oriente.
È proprio per questo che nel corso degli anni tutti i tentativi della diplomazia internazionale di portare alla nascita di uno Stato palestinese sono falliti miseramente: gli Accordi di Oslo del 1993, la “road map for peace” del 2002, la Conferenza di Annapolis del 2007, così come qualche centinaio di risoluzioni dell’ONU… L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), nata nel 1993 e che nelle intenzioni avrebbe dovuto rappresentare l’entità statale autonoma dei palestinesi, nella realtà si è trasformata in uno Stato fantoccio collaborazionista di Israele, all’interno del quale le condizioni delle masse palestinesi sono diventate sempre più insostenibili. Basti pensare che dalla nascita dell’ANP il numero di coloni israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est è più che quadruplicato.
Va da sé che le condizioni per la soluzione a due Stati oggi, dopo trent’anni di strangolamento dei territori palestinesi e dopo due anni di genocidio a Gaza, sono infinitamente peggiori rispetto a quelle del 1993. Se la creazione di uno Stato palestinese, sotto l’egida dell’imperialismo e sulla base dello status quo, non ha funzionato allora, non si capisce perché mai dovrebbe avere maggiori possibilità di successo nel 2025.
Una prospettiva rivoluzionaria
Dal nostro punto di vista, la Palestina non potrà mai liberarsi se non sulla base di un processo rivoluzionario, che vada ben al di là dei confini palestinesi e interessi l’intero Medio Oriente.
Con la situazione drammatica che è venuta a crearsi a Gaza e in Cisgiordania, pretendere che il peso della lotta ricada esclusivamente sulle spalle dei palestinesi è un controsenso. La causa palestinese potrà avere successo solo se sarà parte di un più vasto movimento delle masse arabe.
Nei paesi arabi la grande maggioranza della popolazione ha manifestato più volte una solidarietà straordinaria con la Palestina, mentre lo stesso non si può dire dei governi. Il regime militare di Al-Sisi in Egitto, re Abdallah in Giordania, le monarchie del Golfo sono legati a doppio filo all’imperialismo americano, fanno affari con Israele e non hanno alzato un dito per aiutare i palestinesi. Mentre a parole esprimono preoccupazione per la situazione a Gaza, questi governi sono più impegnati a scontrarsi tra loro che a fronteggiare la minaccia sionista.
Questo si è visto nelle settimane scorse: quando Israele ha bombardato il Qatar, ben 50 paesi arabi e islamici si sono riuniti per decidere una forte risposta. Ebbene, dopo due giorni di parole sdegnate se ne sono tornati tutti a casa senza fare assolutamente niente. E poco dopo Qatar, Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno tutti appoggiato il “piano per la pace” di Trump, che prevede di far governare Gaza da Tony Blair!
Finché questi regimi reazionari, corrotti e filo-americani resteranno al potere, i palestinesi rimarranno isolati come lo sono oggi. Se invece la catena si spezzasse in almeno uno dei suoi anelli, se almeno in uno di questi paesi la classe dominante venisse rovesciata e arrivasse al potere un governo della classe lavoratrice con un programma autenticamente rivoluzionario, allora tutto lo scenario del Medio Oriente potrebbe trasformarsi radicalmente.
Le basi materiali per questa prospettiva sono le mobilitazioni di massa a favore di Gaza che abbiamo visto in Giordania, in Egitto e negli altri paesi arabi. Mobilitazioni che non si sono limitate a condannare i crimini di Netanyahu, ma hanno contestato apertamente la connivenza dei rispettivi regimi con Israele e si sono scontrate con la repressione statale. Con l’oppressione dei palestinesi che prosegue imperterrita, queste proteste potrebbero fare un ulteriore salto di qualità e provocare la caduta di re, generali ed emiri.
Per una federazione socialista del Medio Oriente
Nelle manifestazioni, come Partito Comunista Rivoluzionario, abbiamo avanzato lo slogan “Palestina libera, Palestina rossa”. Anche a sinistra c’è chi ci ha criticato per questo: “Prima pensiamo a liberare la Palestina, poi in un secondo momento penseremo alla questione del socialismo”.
Questa critica si basa però su un fraintendimento. Per noi la lotta per il socialismo non è un optional aggiuntivo, un lusso desiderabile ma di cui si può fare anche a meno. È invece indispensabile perché rappresenta l’unico terreno unificante in grado di superare le divisioni nazionali e religiose, alimentate dalle potenze imperialiste e dai regimi reazionari loro alleati per mantenere il controllo sulla regione. Invece di mettere ebrei contro arabi, sciiti contro sunniti, drusi contro cristiani, un programma socialista porrebbe al centro la vera divisione fondamentale, quella di classe, che vede contrapposte da una parte le larghe masse di lavoratori, giovani e poveri e dall’altra le cricche al potere.
Questo discorso vale anche per Israele. Finché la classe lavoratrice israeliana continuerà a stringersi attorno ai suoi governanti sionisti e a giustificare il massacro dei palestinesi, non ci saranno né pace né sicurezza nemmeno per gli ebrei.
In passato le principali organizzazioni del movimento palestinese, come Al Fatah e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, erano laiche, progressiste e avevano un orientamento filo-socialista. Questo ha consentito negli anni ’60 e ’70 di creare un ponte tra i palestinesi in lotta e la classe lavoratrice araba della Giordania, del Libano, dell’Egitto, ecc. Negli anni ’80 ci furono manifestazioni con centinaia di migliaia di persone in solidarietà con la Palestina persino in Israele! Oggi tutto questo è scomparso, ma è una tradizione che deve essere recuperata per il bene della causa palestinese.
Anche l’aspetto economico è centrale. È impossibile che i diversi popoli mediorientali possano convivere pacificamente tra loro in una condizione di povertà diffusa, di mancanza di infrastrutture, di saccheggio delle risorse naturali nell’esclusivo interesse delle grandi potenze (e delle ristrette minoranze locali ad esse collegate). Solo espropriando le ricchezze delle classi dominanti, i mezzi di produzione e le risorse energetiche della regione, solo ponendoli sotto il controllo dei lavoratori e a disposizione della collettività, si potranno creare le basi economiche per lasciarsi alle spalle l’odio nazionale, il fondamentalismo religioso, i conflitti etnici e i pregiudizi reazionari.
In questo modo sarebbe effettivamente possibile costruire una federazione di tutti i paesi del Medio Oriente, in cui israeliani, palestinesi e tutti gli altri popoli avrebbero la possibilità di vivere con pari dignità e piena autonomia, nelle forme che riterranno più opportune. Per questo motivo l’Internazionale Comunista Rivoluzionaria porta avanti la rivendicazione di una Federazione socialista del Medio Oriente.
Siamo consapevoli che la battaglia per ottenerla non sarà né semplice, né breve, ma non ci sono scorciatoie. Senza un rovesciamento rivoluzionario, senza la presa del potere da parte delle masse lavoratrici, senza la cacciata dell’imperialismo, in Medio Oriente continueranno a ripresentarsi i vecchi orrori che conosciamo fin troppo bene: guerre sanguinose, dittature reazionarie, massacri religiosi, deportazioni di massa…
Per questo la lotta per la Palestina e la lotta per il socialismo sono strettamente collegate tra loro. Per questo continueremo a rivendicare con orgoglio “Palestina libera, Palestina rossa”!
9 ottobre 2025
