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Il popolo palestinese ha attraversato molte vicissitudini dal 1948, anno della nascita di Israele, a oggi. Ma probabilmente quello attuale è il momento più tragico della storia recente.
Israele, dopo avere ucciso quasi 45 mila persone e aver distrutto l’80% degli edifici nella Striscia di Gaza, ora è passato alla pulizia etnica della parte settentrionale della stessa.
Con la costruzione del corridoio di Netzarim, una strada lunga 7 chilometri che si estende dal confine israeliano al Mar Mediterraneo, l’esercito con la stella di David ha tagliato in due parti la Striscia di Gaza.
Netzarim era un insediamento dei coloni costruito negli anni ’70 e poi abbandonato nel 2005, nell’ambito del disimpegno unilaterale israeliano dell’epoca. Dopo il 7 ottobre è stato occupato di nuovo ed “è diventato una enorme base militare di 56 km quadrati. Comprende centri di detenzione, strutture per gli interrogatori, depositi di armi e alloggi per i soldati” (il Manifesto, 12 novembre).
La nuova base militare fa parte del “piano dei generali” o “piano Eiland” dal nome del suo ideatore, che prevede l’evacuazione totale dei 300mila residenti palestinesi che ancora vivono nel nord di Gaza, per fare spazio a nuove colonie. Allo scopo, dal primo ottobre Israele sta bloccando completamente l’ingresso degli aiuti, intimando ai palestinesi di “arrendersi o morire di fame”. I territori da “purgare e ripulire” comprendono Gaza City, ormai ridotta a un cumulo di macerie, e il campo profughi di Jabalya, da dove era partita la prima Intifada nel 1987.
Sono stati diffusi video che riprendono gruppi di ragazzi e uomini palestinesi, bendati, spogliati e con le mani legate, condotti via sotto la minaccia delle armi per essere interrogati. Tutti gli uomini e i ragazzi di età superiore ai 13 anni vengono trattati come sospetti combattenti. Donne e bambini, una volta separati dagli uomini e dai ragazzi più grandi, vengono costretti a marciare verso sud.
Le atrocità commesse dall’IDF sono tali da aver costretto il quotidiano “progressista” israeliano Haaretz a intitolare un suo editoriale “Se sembra una pulizia etnica, probabilmente lo è”, e l’ONU a denunciarle come “un genocidio nel genocidio”.
Verso l’annessione di Gaza e Cisgiordania?
Tali critiche non hanno alcun effetto sul governo israeliano, che nel frattempo sta portando avanti l’annessione de facto anche della Cisgiordania, dove vivono già 500mila coloni. Smotrich, un altro fanatico religioso che siede al ministero delle Finanze, è riuscito nel giugno scorso a trasferire gran parte delle responsabilità amministrative della Cisgiordania dall’esercito a un’autorità civile. Ciò rende più facile la costruzione di nuove colonie e infrastrutture; e infatti il 3 luglio scorso il governo ha approvato la confisca di 13 chilometri quadrati nella valle del Giordano, il più grande sequestro effettuato dal 1993 in questo territorio occupato.
Anche in Cisgiordania, uno dei “sette fronti” della guerra di Israele, abbiamo assistito a un’escalation di violenze. In un anno, dal 7 ottobre, sono stati uccisi da militari o coloni 728 palestinesi. Erano 154 nel 2022 e 83 nel 2021.
Netanuyahu non ha alcuna intenzione di fermarsi, ringalluzzito dalla vittoria di Trump che, nel ribadire il suo appoggio alla causa israeliana, ha nominato Mike Huckabee nuovo ambasciatore a Gerusalemme. E l’ex governatore del Kansas, nonché reverendo, Huckabee ha subito dichiarato di essere a favore dell’annessione della Cisgiordania da parte di Israele. Durante il primo mandato di Trump si è già verificato un precedente: nel 2019, gli USA hanno riconosciuto la sovranità di Israele sulle Alture del Golan occupate nel 1967, in barba a numerose risoluzioni ONU.
L’appoggio degli USA non è mai venuto meno anche da parte dei democratici, che hanno fornito tra l’ottobre del 2023 e il settembre 2024 aiuti militari per 22,76 miliardi di dollari e pongono sistematicamente il veto all’ONU su ogni risoluzione di cessate il fuoco. Certo, il sostegno è condito da preoccupazioni ipocrite sulle “sorti dei civili”. Un’ipocrisia ribadita anche rispetto alla pulizia etnica in atto. Il 15 ottobre il segretario alla Difesa Austin ha inviato una lettera in cui chiedeva a Israele di intraprendere passi urgenti per migliorare la situazione nel nord di Gaza “entro 30 giorni”. Una mossa sicuramente “risolutiva” per soccorrere le migliaia di donne a bambini che quotidianamente muoiono di fame!
La tregua tra Israele e Libano
Il 26 novembre è stata stipulata, su proposta franco-americana, una tregua di 60 giorni tra Hezbollah e Israele. Le pressioni degli Stati Uniti (così come quelle dell’Iran), che non desiderano una guerra che investa tutto il Medio oriente, hanno giocato un ruolo nell’accordo. È una tregua molto fragile: Netanyahu non ha stabilito una tempistica per il ritiro delle truppe e si riserva il diritto di tornare a colpire in Libano in qualunque momento, “se aggredito”. Il primo ministro è stato sottoposto a una critica serrata in patria, in primis dall’opposizione (quella “moderata” secondo molti media!), per non “aver finito il lavoro”, vale a dire per non aver distrutto Hezbollah.
Due obiettivi sono stati tuttavia raggiunti dall’IDF: aver separato il Libano da Gaza e avere a disposizione un periodo in cui poter rifornire di nuovo i propri arsenali di armi e munizioni.
I palestinesi sono dunque sempre più soli. Anche il Qatar ha rinunciato al suo ruolo di mediatore tra Israele e Hamas, forse per sintonizzarsi meglio con la nuova amministrazione americana.
I benpensanti ripongono la loro fiducia nel mandato d’arresto spiccato dalla Corte Penale Internazionale (CPI) contro Netanyahu e l’ex ministro della difesa Gallant. Peccato che né gli USA né Israele (tra gli altri) riconoscano la CPI e che anche i paesi che l’hanno istituita, qualora non eseguissero la sentenza (come l’Italia, ad esempio), non subirebbero alcuna conseguenza.
I crimini contro l’umanità commessi a Gaza, in Cisgiordania e in Libano non sono opera di qualche mente malata, ma sono connaturati all’imperialismo. Solo cacciando i guerrafondai in Occidente e nel Medio Oriente si potrà vedere la fine della barbarie in Palestina.