
L’Internazionale Comunista (1919-1943) – Storia, battaglie, dibattiti – Seminario nazionale, Milano 24-25 maggio
22 Maggio 2025
La Calabria alza la testa – La sanità pubblica si difende nelle piazze, non nei palazzi
26 Maggio 2025di Victor Murray Vedsø (da www.marxist.com)
Due mesi dopo la rottura dell’effimero cessate il fuoco da parte di Benjamin Netanyahu, la situazione a Gaza è giunta a livelli catastrofici. Gli aiuti umanitari, le medicine e i beni di prima necessità sono terminati a causa del blocco totale imposto da Israele, e sono ricominciati i bombardamenti senza sosta dell’esercito israeliano. Innumerevoli organizzazioni umanitarie hanno avvertito che il blocco è sul punto di uccidere decine di migliaia di persone per mezzo di una carestia generalizzata.
Al momento, la mobilitazione di 70mila riservisti per una nuova offensiva a Gaza, l’operazione Carri di Gedeone, è già decisa. L’obiettivo dichiarato di Netanyahu è l’occupazione permanente di gran parte della Striscia di Gaza e la deportazione di due milioni di palestinesi, prima nella parte più meridionale di Gaza e, poi, via dalla loro terra natia. Si tratta di niente meno che una nuova Nakba.
Con questa escalation, Netanyahu sta apertamente rinunciando all’idea di liberare gli ostaggi, firmando a tutti gli effetti la loro condanna a morte. Questo sta alimentando una rabbia furiosa contro di lui all’interno della società israeliana, dove il 70% della popolazione preferirebbe porre fine alla guerra, se ciò significasse il rilascio degli ostaggi. Inoltre, l’87% degli israeliani credono che Netanyahu dovrebbe assumersi la responsabilità dell’attacco del 7 ottobre e il 72,5% crede che dovrebbe dimettersi. Mentre il tessuto sociale israeliano si disgrega sotto il peso della guerra, Netanyahu sta cercando disperatamente di aggrapparsi al potere, legandosi agli elementi più estremisti nel parlamento, la Knesset.
L’inasprimento delle operazioni militari si sta svolgendo in un contesto di deterioramento nelle relazioni tra Israele e gli Stati Uniti.
Donald Trump continua a riproporre l’idea di trasformare Gaza nella “Costa Azzurra del Medio Oriente” – un’idea che ha adesso rinominato “zona di libertà” – mediante l’espulsione del palestinesi da Gaza in Egitto e in Giordania. Tuttavia, sta anche dicendo che vuole porre “fine a questo conflitto brutale”, una presa di posizione che contrasta apertamente con l’insistenza di Netanyahu nel combattere la guerra fino alla fine. Nel frattempo, ha negoziato direttamente con Hamas per il rilascio dell’ultimo ostaggio americano rimasto, Edan Alexander, scavalcando totalmente Israele. In un momento in cui Netanyahu sta lasciando morire i rimanenti ostaggi, ciò equivale ad un’umiliazione politica.
La situazione è arrivata ad un punto così deteriorato che si vocifera come Trump abbia rotto tutte le relazioni con Netanyahu. Per Netanyahu, che sta conducendo operazioni militari su cinque fronti a partire dal 7 ottobre 2023, la piena agibilità che è stato in grado di farsi concedere dagli Stati Uniti è stata al centro di tutta la sua politica, permettendogli di rimanere al potere.
Ma Trump sta facendo capire che non metterà a rischio tutti gli interessi dell’imperialismo americano nella regione per Israele e sta firmando adesso una miriade di accordi con altri regimi, escludendo completamente Israele. Si tratta di una brusca svolta nella politica estera americana, che prima dell’arrivo di Trump era di un appoggio quasi incondizionato nei confronti di Netanyahu.
Trump taglia fuori Netanyahu
Nel corso di una settimana in cui Donald J. Trump ha fatto il giro dei paesi del Golfo firmando grossi accordi da prima pagina con Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi, su commercio, petrolio e investimenti, sembra che Netanyahu sia stato completamente relegato ai margini.
Trump ha firmato un accordo da mille miliardi di dollari con l’Arabia Saudita, che affronta anche la questione dell’arricchimento dell’uranio all’interno di un programma nucleare civile in Arabia Saudita e che sicuramente allarmerà Gerusalemme. Simili accordi, e in particolare gli accordi su un possibile programma nucleare saudita, sono sempre stati collegati alla normalizzazione delle relazioni con Israele. Questa clausola non era più presente in nessuno degli accordi della scorsa settimana.
Trump ha anche accettato di levare tutte le sanzioni al nuovo regime fondamentalista islamico in Siria. Per Israele, questo rappresenta un altro duro colpo. L’esercito israeliano ha bombardato sistematicamente le installazioni militari siriane fin dalla caduta di Assad, espandendo la propria area operativa oltre le Alture del Golan, inoltrandosi nel territorio siriano. Minando la strategia di Israele di mantenere il regime di al-Jolani fragile, questa mossa rafforza la Turchia, che è un rivale di Israele nonché principale sostenitore del nuovo governo di Damasco.
Tutti questi accordi clamorosi sono stati firmati completamente alle spalle di Netanyahu. Ad essi, è seguito un accordo con gli Houthi del quale, di nuovo, Israele è stato tenuto all’oscuro. In cambio dell’interruzione degli attacchi americani contro lo Yemen, gli Houthi hanno concordato di porre fine ai loro attacchi contro le rotte commerciali nel Mar Rosso. Ma ciò che è più significativo è che l’accordo non ha imposto nessuna restrizione agli attacchi Houthi contro Israele, lasciando a tutti gli effetti Israele ad affrontare questa minaccia da solo. Questo accordo è arrivato esattamente un giorno dopo che gli Houthi avevano colpito con successo l’aeroporto Ben Gurion vicino a Tel Aviv, portando alla sospensione di numerosi voli internazionali verso Israele per settimane.
Ma forse la cosa peggiore per Netanyahu è che Trump ha intrapreso negoziati per un accordo sul nucleare con l’Iran e sta preparando la quinta fase dei colloqui in Oman. La tregua con gli Houthi serve a fare un altro gesto di buona volontà nei confronti di Teheran, dimostrando l’impegno di Trump a portare a termine un accordo.
Come al solito, i messaggi di Trump sull’Iran rimangono deliberatamente ambigui. Tuttavia, il trattamento duro riservato al suo ex consigliere per la sicurezza Mike Waltz parla chiaro. Waltz, a quanto pare, perseguiva una sua personale agenda da “falco”, facendo pressioni sull’amministrazione Trump per conto di Netanyahu e dei funzionari israeliani per colpire le istallazioni nucleari iraniane, ma è repentinamente caduto in disgrazia. Sebbene Netanyahu affermi di aver parlato con Waltz solo una volta, Trump chiaramente non ha prestato fede a questa versione dei fatti.
Le cose si sono deteriorate al punto che Netanyahu ormai sta pensando all’impensabile: che potrebbe arrivare il giorno in cui l’assistenza militare americana finirà. Ha detto al suo governo: “Penso che arriveremo ad un punto in cui dovremo disintossicarci [dall’assistenza militare americana”.
Tutto ciò rappresenta una brusca svolta nella politica estera americana. Dall’appoggio incondizionato a Israele, come aveva fatto Biden e come sembrava che stesse facendo Trump quando promuoveva il suo piano di pulizia etnica di Gaza, Trump sta ora cercando di fare accordi e di trovare altri punti di appoggio nella regione, a scapito di Israele.
L’obiettivo di Trump
Quando il piano di Trump venne annunciato per la prima volta nello Studio Ovale, questa prospettiva aveva fatto gongolare Netanyahu e il suo governo di estrema destra. Ma, sebbene Trump non nutra alcuna contrarietà di principio nei confronti di Israele e della continuazione della sua espansione, egli ha i suoi propri obiettivi regionali che non corripondono ad un appoggio incondizionato a Netanyahu.
In sostanza, l’appoggio di Trump è condizionale e dipende dal fatto che egli debba poter perseguire una politica più vasta in Medio Oriente, in particolare rispetto all’Iran. Trump crede fermamente che debba essere l’America ad avere il coltello dalla parte del manico e non Israele.
È in questo contesto che dobbiamo collocare il repentino inasprimento delle relazioni tra Netanyahu e Trump. Lungi dall’essere un semplice attrito personale, questo sviluppo rivela interessi strategici divergenti rispetto al ruolo che Israele e l’America vogliono avere in futuro in Medio Oriente.
Donald Trump non è un pacifista. Tuttavia, il Medio Oriente occupa un posto di importanza secondaria nei suoi calcoli. I suoi obiettivi regionali si concentrano principalmente nello stringere accordi che evitino un’ulteriore destabilizzazione e, al contempo, favoriscano gli interessi economici americani, permettendogli di concentrarsi sulle priorità della politica interna, oltre che sulla Cina. Vuole ritirare le truppe americane dal Medio Oriente, ma intende farlo senza destabilizzare ulteriormente la situazione. Questo è più facile a dirsi che a farsi. Trump è anche profondamente consapevole del fatto che la continuazione della guerra a Gaza è foriera di implicazioni rivoluzionarie in paesi come la Giordania, gli Stati del Golfo, l’Egitto, ecc.
La posizione di Trump non deriva, ovviamente, da una qualche simpatia per i palestinesi, bensì dal riconoscimento del fatto che un appoggio illimitato ad un alleato sempre più spregiudicato e genocida rischia di trascinare gli Stati Uniti in un’altra avventura militare come le guerre in Afghanistan e in Iraq.
Furono Trump e Steven Witkoff a costringere inizialmente Netanyahu a firmare un cessate il fuoco a più fasi, per mezzo del quale mettere fine alla guerra di Israele. Sebbene i dettagli di ciò che sarebbe dovuto succedere dopo era tutt’altro che chiaro, non si può negare che Trump vedesse la fine della guerra a Gaza come una priorità.
Tuttavia, Netanyahu non poteva fermare la guerra, poiché la fine della guerra avrebbe comportato la fine della sua carriera politica e la conseguente rovina. Così, colse la prima occasione per rompere il cessate il fuoco dopo la prima fase.
Questo mandò all’aria il piano di Trump. Per Trump, questa fu una chiara indicazione del fatto che Netanyahu era disposto a mettergli i bastoni tra le ruote per la propria sopravvivenza politica.
Il “piano per Gaza” di Trump, annunciato durante il cessate il fuoco, era essenzialmente un gesto diretto a Netanyahu, volto a fare capire che, sebbene avrebbe appoggiato gli obiettivi sionisti di Israele, egli l’avrebbe fatto nei termini stabiliti dagli americani. Quando Netanyahu ha rotto questa pace imperialista per mantenere la propria alleanza con gli alleati della coalizione di estrema destra, ha detto indirettamente a Trump che la sopravvivenza del proprio governo e la continuazione della guerra sono più importanti degli interessi americani.
Un simile atteggiamento non va a genio a Trump, in particolare quando arriva da qualcuno che dichiara di essere il più stretto alleato dell’America. Pare che un vecchio alleato di Trump abbia detto a Ron Dermer, il più stretto collaboratore di Netanyahu, che ciò che più irrita il presidente è l’essere percepito come ingenuo o manipolabile e che Netanyahu stava facendo esattamente questo.
Quando Trump dice “America First”, lo dice sul serio. Questo rende inevitabilmente la politica intransigente “Israel First” (o meglio “Netanyahu First”) di Netanyahu un motivo di attrito, che potrebbe potenzialmente provocare una crisi conclamata tra gli Stati Uniti e Israele riguardo a Gaza e all’Iran.
Amici e nemici
Il vecchio adagio dice che le nazioni non hanno amici o nemici permanenti, solo interessi permanenti. Trump ha dimostrato questa verità prima in Europa e ora anche nella “relazione speciale” tra gli Stati Uniti e Israele.
La tregua con gli Houthi fa emergere come Trump implicitamente riconosca che l’imperialismo americano non possa più permettersi di fare il poliziotto in ogni conflitto globale. Con il debito nazionale americano alle stelle e il deficit federale in aumento, Trump reputa il coinvolgimento indefinito su fronti secondari fondamentalmente insostenibile.
Ciò illustra bene l’approccio di Trump volto a limitare i danni. In precedenza, l’idea di arrestare da un momento all’altro le operazioni militari (ammettendo a tutti gli effetti la sconfitta) per negoziare con uno dei principali avversari di Israele finanziati dall’Iran sarebbe stata impensabile. Ora non più.
In sostanza, Trump considerava questa campagna militare come un pessimo investimento, che non riusciva a dare risultati, drenava le finanze e sperperava risorse militari che avrebbero potuto essere meglio impiegate per mettere in sicurezza il proprio cortile di casa e scoraggiare la Cina.
Molto è stato detto di come Trump stia smantellando il vecchio ordine mondiale in Europa, ma anche il Medio Oriente sta vivendo spostamenti tellurici per quanto riguarda il ruolo degli Stati Uniti. La politica di Trump è il riconoscimento del fatto che gli Stati Uniti non sono più una potenza egemone onnipotente. Sono stati costretti a riconoscere questo fatto e a fare accordi a spese del principale alleato americano: con i sauditi, con i turchi e soprattutto con l’Iran, come fu costretto a fare Obama prima di lui, con l’accordo sul nucleare iraniano del 2015.
Ma i suoi tentativi di districare l’imperialismo americano dalle contraddizioni in cui è avviluppato non porteranno ad una maggiore stabilità. Tutto il contrario.
Opponendosi apertamente a questa svolta, Israele, che è stato per lungo tempo una risorsa strategica cruciale, rischia di trasformarsi in un ostacolo per Washington.
Il tentativo disperato di Netanyahu
Ma Netanyahu non si arrenderà facilmente. Il suo piano è, da un lato, di tenersi ad una distanza di sicurezza da qualsiasi processo legale che possa riprendere durante una pausa nella campagna genocida. Già prima del 7 ottobre, il “Qatargate” e numerosi altri casi di corruzione erano stati una fonte costante di preoccupazione, con il rischio di dimissioni, e Israele aveva visto una serie di mobilitazioni in cui un settore potente della classe dominante israeliana si era rivolta contro di lui.
A cosa sia disposto Netanyahu pur di evitare i processi è stato inequivocabilmente dimostrato quando ha rotto il cessate il fuoco poche ore prima di un’importante udienza in tribunale, creando una giustificazione per rimandarla a un futuro indefinito.
Inoltre, negli ultimi mesi abbiamo visto Netanyahu entrare in un conflitto aperto con Ronen Bar, il capo del servizio di sicurezza israeliano, lo Shin Bet. Bar ha accusato pubblicamente Netanyahu di infrangere la legge ordinando ai servizi di sicurezza di spiare e reprimere le proteste antigovernative, nonché di aver ordinato a Bar di ubbidire agli ordini di Netanyahu in persona scavalcando la Corte suprema israeliana.
Si tratta di un’accusa di non poco conto e mostra come la guerra a Gaza, lungi dall’unire le istituzioni dello Stato, stia mettendo i diversi settori della classe dominante gli uni contro gli altri. Ciò nuoce allo stesso regime israeliano e pone le basi per grandi crisi politiche e sociali nel prossimo periodo.
Netanyahu ha percepito chiaramente il pericolo che le accuse di Bar diventassero il centro di un processo importante e ha contrattaccato con ferocia. Alla fine, queste pressioni hanno costretto Bar a fare un passo indietro, annullando gli effetti immediati delle sue accuse, prima che si giungesse a un formale procedimento legale.
Allo stesso tempo, la coalizione politica di Netanyahu si sta reggendo sull’appoggio degli elementi di estrema destra, nello specifico del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir. Questi fanatici considerano il completamento del progetto sionista – la pulizia etnica dei palestinesi e l’occupazione permanente di Gaza e della Cisgiordania – come l’unico scopo di Israele.
Sebbene Netanyahu non possa del tutto ignorare Trump, sta legando il proprio destino politico sempre più a Ben-Gvir e a Smotrich. La ripresa della guerra a marzo non serviva solo a tirarlo fuori dai suoi problemi giudiziari, ma era anche l’unico modo per far approvare il nuovo bilancio allo Knesset. Se non avesse riconquistato l’appoggio di Ben-Gvir e Smotrich con la ripresa della guerra, il bilancio non sarebbe stato approvato e il parlamento sarebbe stato automaticamente sciolto, portando a nuove elezioni. Questa sarebbe stata la fine di Netanyahu.
Così, Ben-Gvir e Smotrich sono diventati imprescindibili per Netanyahu e ne sono consapevoli. Adesso dichiarano apertamente nei media israeliani che l’obiettivo della guerra non sia mai stato quello di liberare gli ostaggi israeliani, bensì di conquistare Gaza. “Nel giro di pochi mesi… Gaza verrà totalmente distrutta”, ha detto recentemente Smotrich. Riguardo al piano originale di Trump di evacuare Gaza ed effettuare un esodo forzato di milioni di persone, Smotrich ha detto che il governo “non ha diritto di esistere” se non porta a termine questo piano.
Netanyahu farà naufragare qualsiasi possibile accordo sugli ostaggi che possa emergere dalla visita di Trump nei Paesi del Golfo. Ribadendo questa posizione prima di inviare controvoglia una delegazione israeliana a Doha su ordine di Trump, Netanyahu ha dichiarato che Israele non accetterà niente di meno che il completo disarmo di Hamas, che dovrà poi lasciare il governo di Gaza.
Lunedì, in un incontro con dei soldati israeliani feriti, secondo quanto è stato riportato, Netanyahu avrebbe detto che “nel giro di qualche giorno, succederanno delle cose a Gaza… che non avete mai visto finora”, e che Israele avrebbe occupato Gaza “per sempre”.
La traiettoria del regime israeliano è chiara. Netanyahu vuole andare fino in fondo a Gaza, costi quel che costi. Questo non solo approfondirà le fratture che si stanno aprendo tra Israele e gli Stati Uniti, ma alimenterà anche le fiamme della crisi proprio all’interno di Israele.
Già adesso, personaggi di spicco dell’esercito israeliano stanno pubblicamente ventilando seri dubbi sulla capacità di Israele di sostenere un ulteriore prolungamento della guerra. Secondo l’esercito israeliano, “si considererà fortunato se il 60-70% di coloro [tra i riservisti] che sono stati convocati si presenterà effettivamente in servizio”. Si tratta di un ulteriore crollo a partire dal 120% delle risposte alla chiamata alle armi all’inizio della guerra (cioè erano più i riservisti che si offrivano volontari per combattere di quanti fossero stati convocati), che era poi sceso all’80% all’inizio di quest’anno, percentuale che da allora ha continuato a diminuire.
La guerra sta ormai lacerando il tessuto del capitalismo israeliano. Le tensioni politiche, militari, economiche e sociali stanno tutte aumentando. Finché Netanyahu protrae il genocidio, le implicazioni a lungo termine per Israele si aggravano. Il fatto è che la guerra non ha risolto niente dal punto di vista della classe dominante sionista.
Distruggere Hamas è un obiettivo illusorio e Netanyahu è del tutto consapevole di questo, ma lo usa per mantenere il proprio potere. Sebbene Hamas abbia perso molti dei suoi dirigenti, la guerra ha radicalizzato enormemente la gioventù palestinese, che è pronta a rimpinguare le fila dell’organizzazione.
Persino le stesse richieste di Netanyahu tradiscono l’impossibilità di sconfiggere Hamas. Tra le condizioni che ha posto per un qualsiasi cessate il fuoco da parte di Israele, c’è la richiesta che Hamas riveli chi ne siano i capi. Il che vale a dire che Hamas è stato decapitato e in una certa misura ciò lo ha trasformato in un movimento di resistenza senza capi, senza alcun obiettivo chiaro da colpire.
Israele sta diventando più esposto e fragile sia internamente sia sull’arena mondiale. Il genocidio, alla fine dei conti, non ha rafforzato Israele, ma lo ha indebolito. La classe dominante sionista ha sempre fondato il proprio consenso sociale sul mito della propria capacità di “proteggere” la popolazione israeliana. Lungi dal garantirne la sicurezza, essa sta gettando le vite degli israeliani nel caos. Si stima che 100mila israeliani abbiano sviluppato malattie mentali come effetto della guerra.
Mentre Trump trama perchè i propri interessi siano garantiti altrove, Netanyahu sta portando avanti in maniera disperata l’idea che Israele può sopravvivere e prosperare solo come uno Stato estremamente militarizzato in una guerra senza fine. Ma la realtà sta dimostrando che è vero il contrario, dal momento che l’aggressione e la violenza aprono la porta alla rottura turbolenta della stabilità all’interno di Israele stesso.
Persino alcuni dei vertici dell’esercito israeliano inizano a temere per le conseguenze della situazione riguardo Israele. Come ha detto un esperto analista dei temi della sicurezza, Amos Harel, parlando al podcast di Haaretz, “molti israeliani e, soprattutto gli alti ranghi dell’esercito israeliano, stanno in realtà sperando che il presidente Trump intervenga e raggiunga un qualche tipo di accordo”.
La crisi all’orizzonte
Trump lascerà i Paesi del Golfo dopo aver firmato accordi del valore di centinaia di miliardi di dollari con i sauditi, gli emiratini e i qatarioti. Ma l’accordo più grande di tutti, la pace in Medio Oriente, non sarà raggiunto.
Netanyahu ha messo gli occhi sulla conquista completa di Gaza. Una simile operazione, nelle condizioni di una carestia dilagante, metterebbe di nuovo il genocidio da parte di Israele al centro della situazione mondiale. Nuove immagini scioccanti di una pulizia etnica condotta, ad un ritmo incalzante, sotto i proiettili dell’esercito israeliano non solo eserciterà una pressione su Trump, am potrebbe anche riaccendere il movimento per la Palestina in tutto il mondo.
I mutamenti nelle relazioni mondiali e negli equilibri regionali non apriranno un periodo di stabilità in Medio Oriente. La logica da affarista di Trump, la guerra disperata di Netanyahu e i tentativi dei governi capitalisti di tutto il mondo di difendere lo status quo non riusciranno a risolvere i problemi del capitalismo. A Gaza, le promesse di Trump di pace e “libertà” non possono portare indietro le lancette degli eventi. Sebbene egli possa cercare di forzare la mano a Netanyahu o persino di spingersi a minacciare di tagliare gli aiuti a Israele, non c’è alcuna soluzione sotto il capitalismo alla matassa delle contraddizioni in Medio Oriente.