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Perché siamo comunisti

Viviamo in un sistema economico e sociale profondamente ingiusto ed oppressivo. Questa consapevolezza è ormai parte integrante del senso comune, anche nei paesi più ricchi. Tutti gli eventi epocali degli ultimi quindici anni, dal crollo dell’economia del 2008 alla pandemia, hanno contribuito a smascherare l’irrazionalità e le distorsioni criminali del cosiddetto “libero mercato”. In un mondo di guerre e catastrofi ambientali, cresce la voragine che divide la larga maggioranza della popolazione da una minoranza privilegiata. Secondo le stime più recenti, il 10% più ricco della popolazione mondiale si appropria del 52% del reddito globale, mentre alla metà più povera rimane l’8,5%. Le diseguaglianze economiche e l’oppressione di classe proprie del capitalismo si riflettono nelle mille forme di oppressione vecchie e nuove che questo sistema mantiene e alimenta: oppressione di genere, razzismo, colonialismo, oppressione dei popoli e dei paesi più poveri…

All’aggravarsi generalizzato delle condizioni di vita è corrisposta una nuova stagione di lotte e rivolte, diversissime tra loro e allo stesso tempo simili per la radicalità e la rabbia espresse, dalle strade di Colombo, in Sri Lanka, alle banlieue di Parigi.

In questo scenario, le idee comuniste assumono una nuova rilevanza. La favola di un mondo libero da conflitti di classe e guerre imperialiste, trasmessa a reti unificate dopo la caduta del Muro di Berlino, è stata clamorosamente smentita. Con buona pace dei liberali, l’instabilità sociale e politica è la cifra distintiva del nostro tempo.

 

Miseria della sinistra riformista

In questo quadro emerge impietosamente la bancarotta politica della sinistra riformista. È una crisi che ha radici profonde. I riformisti sono convinti che sia possibile trasformare o addirittura superare il capitalismo attraverso una battaglia puramente elettorale, puntando a conquistare una maggioranza in parlamento per promuovere riforme audaci. Da un certo punto di vista sembrerebbe una posizione di buon senso. Non vale la pena impegnarsi per miglioramenti concreti e immediati? In effetti qualunque passo avanti verso una società più giusta, per quanto parziale, è estremamente importante. Chiunque si ritenga comunista dovrebbe porsi in prima fila nella battaglia per riforme significative. Ma limitarsi a questo aspetto risulterebbe fatale.

A volte, ascoltando i discorsi dei riformisti (e i più “radicali” tra di essi non fanno eccezione), si ha l’impressione che tutti i problemi della società si riducano al fatto che la ricchezza è distribuita in modo ingiusto. Se solo i padroni acconsentissero a lasciare qualche briciola anche agli altri…! In realtà la distribuzione oscenamente diseguale della ricchezza rappresenta solo il riflesso di una contraddizione più profonda, relativa alla produzione di quelle merci che compriamo e scambiamo quotidianamente. Nell’economia di mercato è la sete di profitto a determinare cosa viene prodotto e in che quantità, senza riguardo per i reali bisogni sociali. Da qui derivano le distorsioni più tragiche: case vuote e persone senza una casa; magazzini di prodotti alimentari invenduti e miliardi di affamati; orari massacranti per chi lavora e nessuna possibilità di impiego per sterminati eserciti di disoccupati.

Ovviamente la classe dominante ha tutto l’interesse nel mantenere lo status quo. Ha il controllo dello Stato, dei mezzi di informazione e delle forze di repressione, e non c’è motivo per cui dovrebbe cederlo senza opporre una feroce resistenza. Pensare che questo conflitto si possa risolvere sul piano parlamentare è una pericolosa illusione, come ha mostrato in anni recenti la parabola ingloriosa di organizzazioni come Syriza, o di sedicenti socialisti come Jeremy Corbin. Il capitalismo non può essere riformato, serve una vera e propria rivoluzione.

 

Rivoluzione, classe lavoratrice e anti-stalinismo

L’idea di rivoluzione è spesso associata a cospirazioni e colpi di Stato. Ma la storia insegna che le rivoluzioni sono in primo luogo momenti di formidabile mobilitazione collettiva. Nel pieno di un processo rivoluzionario anche chi solitamente si disinteressa di politica si attiva, discute, cerca di giocare un ruolo nello svolgersi frenetico degli avvenimenti. La parte da protagonista è svolta dalle lavoratrici e dai lavoratori, le persone che creano in prima persona la ricchezza della società. Non ci riferiamo solo agli operai di fabbrica, che pure mantengono un ruolo centrale nell’economia. Chiunque per potersi sostentare debba vendere la sua capacità di svolgere un lavoro rientra nella categoria (ampiamente maggioritaria) degli sfruttati. Si può riconoscere una rivoluzione dal fatto che queste “persone comuni” arrivano a comprendere, nel fuoco degli eventi, l’enorme potere di cui dispongono collettivamente. Non si accende una lampadina e non si muove una ruota senza il permesso della classe operaia. Sono i lavoratori a far funzionare la società, anche se rimangono in buona parte esclusi dalla sua gestione. Attraverso la rivoluzione, prendono finalmente la parola.

Per quanto fondamentale, la mobilitazione spontanea di massa non è sufficiente per la vittoria di un movimento rivoluzionario. C’è bisogno di una organizzazione politica, con un programma coerentemente anticapitalista, in grado di orientare la lotta. Nel 1917, è stata proprio la presenza di una forza comunista organizzata e militante, il Partito bolscevico di Lenin e Trotskij, a garantire il successo della Rivoluzione d’Ottobre. L’abbattimento del capitalismo ha generato colossali conquiste sociali e ha trasformato in pochi anni la Russia, un paese semifeudale, in una potenza globale. Oggi la memoria di quegli eventi è in larga parte falsificata. La Rivoluzione d’Ottobre viene fatta coincidere con il regime di Stalin, il comunismo con una dittatura sanguinaria. Ma Stalin e i suoi successori non hanno incarnato un’idea estrema di comunismo, come piace pensare ai liberali (e a qualche stalinista nostalgico). Piuttosto ne hanno rappresentato la negazione. Lo stalinismo ha soffocato qualunque reale processo democratico, nelle fabbriche così come nella società. Ha inasprito le diseguaglianze, elevando le condizioni di una burocrazia corrotta e parassitaria a spese delle classi popolari. Ha sacrificato gli interessi della classe lavoratrice a livello internazionale, promuovendo una propaganda nazionalista e reazionaria. Ha distrutto le tradizioni organizzative del bolscevismo, bandendo ogni dissenso o reale discussione politica all’interno del Partito Comunista. Questo modello poliziesco non ha nulla a che vedere con l’organizzazione che ci serve, o il mondo per il quale vogliamo batterci.

 

Futura umanità

Qual è, allora, la nostra idea di comunismo? La domanda può sembrare poco concreta, ma è di grande importanza. Per quanto sarebbe velleitario provare a immaginare nel dettaglio le caratteristiche di una società ancora inesistente, è fondamentale presentare un’alternativa credibile a questo sistema senza limitarsi a denunciarne gli orrori.

Il marxismo si è distinto come la tendenza teorica più rigorosa negli anni di sviluppo del movimento comunista. Karl Marx e Friedrich Engels, a differenza di molti rivoluzionari dell’epoca, non si cimentarono in elaborate e fantasiose descrizioni di future utopie. Partirono da un’analisi della realtà materiale che li circondava, rilevando che le condizioni per la costruzione di una società socialista erano già presenti, in embrione, all’interno del capitalismo stesso. Questa intuizione è più valida oggi di allora. Il capitalismo ha unificato l’economia globale, permettendo uno sviluppo senza precedenti in termini produttivi e tecnici. Oggi disponiamo di capacità largamente sufficienti a soddisfare i bisogni essenziali della popolazione umana. Ma questo gigantesco potenziale rimane inespresso, sacrificato nel nome del profitto di pochi individui. Il capitalismo vive dello sfruttamento del lavoro collettivo, ma trova fondamento nella proprietà privata dei mezzi di produzione; estende le logiche di mercato a1i quattro angoli del pianeta, mentre si appoggia su anacronistiche barriere nazionali.

Protesta organizzata dalla sezione pakistana della TMI a Karachi, agosto 2023

Per la borghesia ogni idea di pianificare l’economia è un sacrilegio contro la “libera impresa”. Eppure, ad ogni crisi, i padroni sono i primi a invocare l’intervento dello Stato per finanziare i loro investimenti, garantire un mercato sicuro, ripianare le perdite e tutelare i profitti. Ma se l’economia deve basarsi sul denaro pubblico, allora è giusto che a decidere come impiegarlo sia la maggioranza della popolazione e non un pugno di capitalisti.

Un’economia pianificata democraticamente sotto il controllo dei lavoratori è la vera risposta a queste contraddizioni. In un’economia socialista la produzione sarebbe finalizzata al soddisfacimento di bisogni sociali. Ma una pianificazione efficace, tanto più se complessa e articolata, ha bisogno di informazioni e dati numerosi, accurati e rapidi. Nemmeno la burocrazia più preparata può gestire un compito tanto complesso chiusa nelle stanze di qualche amministrazione centrale. Ancora una volta sono i lavoratori a dover prendere la parola, discutendo democraticamente che cosa e quanto produrre e centralizzando quelle informazioni per permettere lo sviluppo di una pianificazione armonica e senza sprechi.

A partire da queste basi, sarebbe finalmente possibile fornire ad ogni individuo un tetto, un’alimentazione adeguata, sanità e istruzione. Ma una società comunista dovrebbe garantire ben più di questi diritti fondamentali. La riduzione drastica degli orari di lavoro accrescerebbe enormemente il tempo libero disponibile al soddisfacimento di aspirazioni e necessità personali, una condizione in questo momento accessibile solamente a una ristretta minoranza. La liberazione della creatività dalla gabbia della concorrenza e del libero mercato permetterebbe sviluppi entusiasmanti in termini di innovazione, ricerca e dinamismo culturale.

L’obiettivo di un rapporto equilibrato tra il genere umano e gli ecosistemi naturali di cui è parte integrante potrebbe essere perseguito senza l’ostacolo di interessi privati e nazionali.

Per poter rappresentare una credibile alternativa, questo modello dovrebbe essere esteso ben oltre i confini di un singolo paese, ponendosi all’altezza delle sfide poste da un sistema globalizzato e interconnesso. Il mercato mondiale non solo integra l’economia, ma generalizza e approfondisce le divisioni di classe che generano due campi internazionali oggettivamente contrapposti, quelli degli oppressi e degli oppressori. Le donne e gli uomini che lavorano per Amazon negli Stati Uniti hanno molto più in comune con i loro colleghi in Italia o in India che con Jeff Bezos.

Da questo punto di vista, l’internazionalismo non è un principio astratto, ma una necessità concreta. Come Marx ed Engels hanno scritto molto tempo fa nel Manifesto del Partito Comunista, gli operai non hanno patria. La classe lavoratrice è parte dello stesso meccanismo di sfruttamento globale e può essere protagonista di uno stesso processo di emancipazione collettiva.

8 settembre 2023

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