Rivoluzione n°89
30 Giugno 2022Congresso CGIL – Il nostro sostegno al documento alternativo
4 Luglio 2022L’editoriale del nuovo numero di Rivoluzione
La questione dei salari è tornata al centro del dibattito pubblico. L’Unione Europea ha emanato una direttiva sul “salario minimo”, che dovrebbe attestarsi attorno a 9 euro (lordi) all’ora, che significano circa 1.000 euro netti al mese: una cifra che non consente certo di far quadrare i conti alla fine del mese. Si tratta peraltro di una direttiva “non vincolante”, per cui ogni paese europeo può fare come crede e quindi continuare a pagare i lavoratori meno del “minimo”. In Italia il ministro del Lavoro Orlando ha proposto una legge non per introdurre il salario minimo, ma per individuare il contratto nazionale di riferimento per ogni settore, all’interno del quale ricavare i minimi applicabili.
Anche questa proposta, che definire minima è poco, ha suscitato la levata di scudi di Confindustria, mentre a favore si sono espressi gli apparati sindacali, da sempre contrari all’idea di un salario minimo uguale per tutti, che secondo loro rappresenterebbe un passo indietro rispetto agli inquadramenti previsti dai contratti nazionali. Senza dubbio i contratti nazionali sono un importante strumento di tutela per i lavoratori in generale, ma qui dobbiamo guardare alla realtà concreta. E con buona pace dei dirigenti sindacali, siamo ben lontani da una realtà in cui i contratti nazionali firmati da CGIL, CISL e UIL garantiscono a tutti retribuzioni superiori al salario minimo europeo. Secondo i dati INPS, ben 4,5 milioni di lavoratori in Italia guadagnano meno di 9 euro (lordi) all’ora.
La verità è che un salario minimo intercategoriale vero – che dovrebbe essere almeno di 1.400 euro al mese per consentire ad un lavoratore di vivere dignitosamente – sarebbe uno strumento estremamente utile per spingere verso l’alto la contrattazione collettiva. Ma il problema non riguarda solo i salari “minimi”: di fronte a questo livello di inflazione, tutti i salari reali stanno calando. E a salvare il potere d’acquisto dei lavoratori non saranno i contratti nazionali di categoria, che o sono scaduti o sono stati rinnovati con aumenti ben inferiori al tasso di inflazione. L’unica via d’uscita è una nuova Scala Mobile, che adegui automaticamente i salari al tasso d’inflazione. Solo così si può garantire che i salari reali non calino e, una volta ottenuto questo, si potrà poi andare a rivendicare dei veri aumenti (cioè aumenti al netto dell’inflazione) con la contrattazione collettiva.
Eppure ad oggi la Scala Mobile rimane un tabù. Ferruccio De Bortoli ha scritto sul Corriere della sera che “la scala mobile e i meccanismi di indicizzazione non proteggevano dall’inflazione ma la creavano”. Davvero sono gli aumenti salariali a “creare” l’inflazione? Forse il prezzo della benzina è aumentato perché prima sono aumentati gli stipendi dei lavoratori delle raffinerie? Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.
Del dibattito parlamentare è meglio non parlarne neanche. Se qualcuno pensa che una soluzione ai nostri problemi possa arrivare per via istituzionale, farebbe bene a riflettere sulla triste parabola dei 5 Stelle: nel 2018 avevano ottenuto una valanga di voti e garantivano che avrebbero “abolito la povertà”; dopo aver fatto parte di tutti i governi possibili, con tutte le maggioranze immaginabili, oggi stanno andando letteralmente in pezzi, mentre l’impoverimento in Italia raggiunge livelli record.
Quanto al sindacato, Landini ha dichiarato – giustamente – che il bonus del governo non è sufficiente e “servirebbero 200 euro al mese”, ma si propone di raggiungere questo obiettivo esclusivamente con la riduzione del carico fiscale sui lavoratori e le detrazioni in busta paga. Che i lavoratori dipendenti paghino troppe tasse non ci piove, ma se vogliamo aumentare davvero i salari bisogna andare ad intaccare i profitti. Bisogna costringere i padroni a rinunciare ad una parte dei loro profitti per pagare salari più alti ai loro dipendenti. è l’ABC della lotta di classe e invece sembra che esista una legge non scritta per cui non si possono chiedere soldi ai padroni, ma solo allo Stato. Così alla lotta di classe si sostituisce la lotta fiscale. Ma un sindacato che rinuncia a priori a chiedere soldi alle imprese (o meglio chiedere più delle briciole che sono disposte a concedere) non va lontano.
Invece dopo trent’anni di arretramenti continui, una campagna in tutti i posti di lavoro attorno alla Scala Mobile, una rivendicazione chiara, comprensibile e che risponde ad un’esigenza sentita da tutti i lavoratori, rappresenterebbe per il sindacato la grande occasione per aprire una nuova stagione di riscossa del movimento operaio italiano.
Se non ora, quando?
28 giugno 2022