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30 Settembre 2015Operaismo. La disfatta di un’utopia letale
2 Ottobre 2015Nota a margine: questa è una versione più estesa di un testo che scrissi nel lontano 1991. L’Italia non era più un paese di emigrazioni di massa come lo era stato in passato, e nel paese iniziava a nascere un nuovo fenomeno: l’arrivo degli immigrati dall’Africa, dall’Asia e dall’America Latina. Fino ad allora il razzismo non era mai stato un grande problema, ma man mano che l’affluenza aumentava e le condizioni socio-economiche dei lavoratori italiani peggioravano, i partiti di destra iniziavano a utilizzare il razzismo come strumento di divisione tra i lavoratori. Decisi così di scrivere questo articolo come promemoria di quello che gli italiani avevano sofferto in passato quando, squattrinati, arrivavano in un paese straniero a cercare lavoro. L’ironia, adesso, sta nel fatto che per colpa della enorme crisi che sta colpendo l’Italia, gli italiani stanno ricominciando ad emigrare.
“Gli immigrati si prendono il lavoro e le case, mentre gli italiani non hanno nulla! Il governo dovrebbe pensare prima agli italiani.”
Quante volte sentiamo queste frasi, sbandierate da televisione e stampa, soprattutto da quella più bieca, e dai demagoghi di destra?
Quelli che diffondono queste idee però non spiegano che, immigrati o no, il governo non aiuterà gli italiani, e che l’innalzamento dell’età pensionabile e i tagli al welfare non avvengono per colpa degli immigrati. La disoccupazione e la povertà non sono un prodotto dell’immigrazione; la verità è che la borghesia italiana ha per anni “importato” nel paese la forza lavoro a buon mercato per trarne vantaggio, allo stesso modo in cui, in passato, la esportava, creando grande fonte di reddito per lo Stato italiano.
Nel 1952 mio padre emigrò in Inghilterra. Conservo ancora il libricino che il “suo” governo gli diede: era firmato dal Ministro degli Affari Esteri, e ricordava agli emigranti che erano “ambasciatori che andavano a rappresentare l’Italia all’estero”. Ancora oggi, quando rileggo quel documento, mi assale la stessa rabbia. Lo Stato italiano non aveva fatto nulla per lo sviluppo del Sud, ma era ben pronto a sfruttare i suoi emigranti che poi mandavano i soldi a casa.
Crescere negli anni ’30
L’infanzia di mio padre non era di quelle che si leggono nelle favole: era cresciuto tra gli anni ’20 e ’30 sotto il regime fascista, durante un periodo di grande crisi economica. Ricordava la crisi del ’29, quando era ancora un ragazzo, perché molti italiani che erano emigrati in America stavano cominciando a tornare a casa dopo aver perso il lavoro.
Aveva iniziato a lavorare a undici anni; a dire il vero aveva già lavorato quando era alle elementari: ogni giorno, all’uscita di scuola, mia nonna gli portava le pecore, gli dava un pezzo di pane e lo spediva a vegliare su di loro mentre pascolavano nei campi.
Mio padre andava bene a scuola, ma la sua famiglia era in uno stato di povertà tale da non potersi permettere di mandarlo alla scuola secondaria. Nella sua classe c’era un ragazzino che non era sveglio come lui, ma era il figlio di una famiglia facoltosa e quindi poté non solo frequentare il liceo, ma addirittura laurearsi e diventare un ingegnere. Le generazioni passate hanno lottato per porre fine a quest’ingiustizia, ma la classe dominante di oggi sta tentando di rispedirci a quei tempi passati, quando l’educazione era un lusso.
Negli anni ’30 passò sei anni senza mai avere un paio di scarpe nuove; non dimenticherò mai come mi raccontava del giorno in cui mia nonna gli comprò un nuovo paio. Era così felice che quella notte non riuscì a dormire: dal suo letto lanciava continuamente lo sguardo alle scarpe, e continuava ad alzarsi ed ad infilarsele, camminando su e giù per la stanza per sentire come scricchiolavano.
Mi raccontava sempre di come a 14 anni iniziò la sua prima stagione a zappare la terra; lui, i suoi fratelli e genitori passavano un mese intero, ogni anno, a lavorare la terra, unico mezzo di sussistenza visto che producevano la maggior parte del cibo che mangiavano. Con la vendita di qualche uovo o pollo qui e là mia nonna riusciva a mettere da parte il giusto per comprare le altre cose necessarie, come ad esempio i vestiti.
La strada per casa era una sterrata, che buttava fuori polvere d’estate e fango d’inverno, un fango che arrivava alle ginocchia nei periodi più umidi; mio padre mi raccontava che quando da giovane riuscì ad avere una bicicletta, d’inverno si toglieva scarpe e calzini, si arrotolava i pantaloni e portava la bicicletta a spalla per tutto il tragitto fino alla strada principale, dove poteva finalmente utilizzarla, dopo essersi ripulito ed infilato le scarpe.
La Seconda Guerra Mondiale
Questa era la vita fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale; mio padre venne chiamato alle armi, ma si ammalò e venne rimandato a casa per molti mesi in convalescenza. Nel frattempo Mussolini venne deposto tramite un colpo di stato e poco dopo il nuovo regime firmò l’armistizio. L’esercito italiano crollava, e i soldati disertavano in massa. Il fratello maggiore di mio padre stava combattendo in Jugoslavia, e quando l’Italia si arrese i tedeschi iniziarono ad arrestare gli italiani, e così mio zio finì in un campo di concentramento. Mi raccontava sempre quanto fossero affamati, tanto da cercare il cibo nei secchi dell’immondizia e di come si mangiavano perfino le bucce di patata buttate dai tedeschi.
Un altro zio venne preso dai tedeschi e lo stavano portando in Germania a lavorare nelle fabbriche; sarebbe stato molto probabilmente un viaggio di sola andata se non avesse deciso di rischiare la vita insieme ad un amico, saltando dal treno poco prima di raggiungere il confine austriaco. Sulla coda del treno i tedeschi avevano montato una mitragliatrice che ogni tanto sparava dei colpi di avvertimento nei campi: l’amico di mio zio venne ucciso, ma lui ce la fece, e si fece 800 chilometri a piedi per tornare a casa.
Nel novembre del 1943 mio padre avrebbe dovuto tornare in caserma, e i fascisti avevano riempito la città di manifesti che richiamavano al dovere. Mi diceva sempre “Non avevo nessuna intenzione di tornare a combattere per quei bastardi!”, così rimase a casa; con due fratelli lontani doveva tra l’altro restare a casa per prendersi cura della terra e dei genitori anziani.
Poi ci fu la battaglia di Montecassino, una delle più lunghe e sanguinose battaglie della Seconda Guerra Mondiale: iniziò il 12 Gennaio del 1944 quando le truppe della Quinta Armata Americana tentarono di attraversare il fiume Garigliano. Montecassino è una montagna di 520 metri di altezza che si protende dalla catena principale degli Appennini e si affaccia sulla Valle del Liri; sulla cima si trova l’Abbazia di Montecassino, un monastero di benedettini fondato nel 529 da San Benedetto, che domina la vallata: è per questo che l’esercito tedesco, mentre si ritirava dall’avanzata delle forze alleate, decise di stabilirsi lì. Da quel punto si poteva osservare l’intera vallata, e qualsiasi esercito che volesse muoversi a nord per raggiungere Roma avrebbe dovuto passare di lì.
Era considerato un luogo sacro, e si pensava che non l’avrebbero mai bombardato, motivo per cui centinaia di civili (non si è mai saputo il numero esatto) vi cercarono rifugio. La mattina del 15 Febbraio 1944 iniziarono i primi bombardamenti con 142 bombardieri pesanti e 114 bombardieri a medio raggio; nell’arco di due giorni gli aeroplani rilasciarono 1200 tonnellate di bombe sull’abbazia, riducendola in macerie e uccidendo la maggior parte dei civili.
Mia madre mi parlava spesso del panico che si diffondeva tra la gente quando sentiva il rumore dei motori dei bombardieri che si avvicinavano: gli aerei apparivano improvvisamente, in folti gruppi, sorvolando in formazione sulle montagne al sud; mi diceva sempre “il cielo si riempiva di aeroplani, e ci chiedevamo terrorizzati dove sarebbero cadute le bombe”.
Una valle della morte
La battaglia giunse ad una conclusione il 18 di maggio, quando i tedeschi si arresero. Il giorno dopo un reporter della CBC [Canadian Broadcasting Corporation] si arrampicò per la montagna, e descrisse così il carnaio che trovò: “Non ho mai visto nulla di così cruento. C’erano i corpi di chi solo il giorno prima aveva preso d’assalto la fortezza, e i corpi di quelli che avevano tentato di prenderla nei mesi precedenti. Inciampai in una testa che era quasi mummificata. La cosa più terrificante dei campi di battaglia sopra Cassino era che le persone che vi avevano combattuto avevano vissuto circondati da morti”.
Se visitate la città troverete un cimitero militare britannico con più di 4000 tombe di soldati inglesi, sudafricani, neozelandesi, canadesi, australiani, indiani e Gurkha [nepalesi], un cimitero militare polacco con più di mille sepolture, uno tedesco che ne contiene circa 20000. Lì vicino, a Venafro, sono sepolti 60.000 soldati coloniali francesi, e a Monte Lungo, ad una quindicina di chilometri da Cassino, sono sepolte centinaia di truppe italiane, che formavano parte dell’esercito italiano ricostruito per combattere a fianco degli alleati nell’ultimo periodo della guerra. Nella piccola città di Nettuno, sulla costa, ci sono i corpi dei quasi 8000 americani uccisi nelle varie battaglie del Sud Italia, compresa quella di Montecassino, che vide un numero di perdite pari a quasi 55.000 soldati, mentre la Germania ne ebbe circa 20.000 tra uccisi e feriti.
Ho visitato il cimitero britannico, tedesco e polacco; ho camminato per le infinite file di tombe di soldati britannici, molti dei quali erano giovani di 20, 25 o 30 anni. Gli epitaffi sono commoventi, spesso di poche semplici parole come “Moglie e figlio con affetto non scorderanno mai” o “Mamma e papà ti ricorderanno sempre”; sono parole che dimostrano perfettamente la barbarie che è stata la Seconda Guerra Mondiale.
Mio padre assistette alla prima parte della battaglia e vide i bombardamenti della montagna, ma poi dovette lasciare la zona. I civili che vivevano nella linea che divideva le forze tedesche e alleate (conosciuta come la Linea Gustav) dovevano allontanarsi dalla zona di combattimento. Mio padre costruì un rudimentale carretto usando le ruote di una vecchia bici, ci caricò sopra i suoi genitori e qualche sacco di grano, che avrebbe sostituito il denaro, e insieme al suo fratello minore spinse quel carretto verso Roma. Quando quel carretto si ruppe dovettero lasciarlo per strada, portandosi a spalla tutto ciò che avevano, compresi i sacchi di grano. Dormivano dove potevano, a volte sotto i ponti, fino a raggiungere un campo rifugiati a sud di Roma.
Rimasero in quel campo per tutta la durata della battaglia, durante la quale vennero distrutte quasi tutte le case della zona, compresa l’umile dimora di mio padre. Un giorno scoprì che gli americani stavano organizzando i trasporti per portare i rifugiati a casa: camminò per quindici chilometri fino ad una base statunitense per sapere se avrebbero potuto tornare a casa. Un soldato gli chiese di dove fosse, e quando mio padre rispose che era di Cassino, il soldato gli disse che non avrebbe ancora potuto tornare, perché la zona era ancora pericolosa, e gli suggerì di non dire di dove fosse se ci teneva ad andare a casa. Quindi mio padre mentì, dicendo di essere di un paesino a circa 30 km da Cassino, e una volta giunto in quel villaggio pagò un contadino con mezzo sacco di grano per far portare la sua famiglia a Cassino a bordo di un carro trainato da cavalli.
Quando entrarono nella vallata papà capì perché non era permesso rientrare a casa; l’odore di morte era dappertutto: i corpi in putrefazione di uomini ed animali riempivano i campi, l’acqua era contaminata e tutte le strutture erano crollate. Quando raggiunsero la loro casa era ridotta ad un cumulo di macerie. A due metri da lì due tedeschi erano stai seppelliti frettolosamente in una tomba molto superficiale. In queste condizioni mio padre contrasse la malaria, ma cercò insieme alla sua famiglia di iniziare comunque il processo di ricostruzione delle loro vite. Alcune famiglie furono più fortunate, dato che le loro case non erano state completamente distrutte. La famiglia di mio padre venne ospitata da un vicino; la casa aveva un enorme buco di cannone nel muro, ma almeno si reggeva in piedi. In queste condizioni la solidarietà regnava sovrana tra i poveri.
A piedi nudi tra i morti
Nel frattempo, a pochi chilometri di distanza, la giovane donna che poi sarebbe stata sua moglie lasciava la sua casa a piedi, insieme a sua madre, sua sorella e dei vicini.
Trovandosi dietro la linea tedesca, volevano raggiungere il territorio controllato dagli americani a sud; nella notte attraversarono a piedi nudi il fronte, rischiando la vita. Mamma mi raccontava come dovettero camminare sopra i corpi dei soldati morti, fino a raggiungere gli americani che li portarono ad un campo di rifugiati in Calabria, dove stettero un anno.
Mia madre passava il tempo spidocchiando le donne più anziane, mentre i soldati americani cucinavano la pasta in enormi pentoloni e lei rideva di come riuscissero sempre a scuocerla. Ma almeno era cibo. Mi parlava con affetto anche dei contadini calabresi, del loro supporto e della loro gentilezza che le riempivano il cuore.
Mentre era al campo ricevette la notizia che suo padre, mio nonno, insieme ad una cognata ed altre 20 persone tra cui alcuni bambini, erano stati uccisi poco dopo la loro fuga, quando una bomba incendiaria colpì il rifugio di fortuna che avevano costruito sul retro della casa. La bomba aveva bloccato le uscite, ed erano morti soffocati. Mio nonno era rimasto indietro per poter mettere al sicuro il raccolto, così avrebbero avuto qualcosa da mangiare una volta finita la battaglia.
Ho visitato quella casa, e mia madre mi ha mostrato dov’era quel rifugio, nel retro della stalla, mentre mi raccontava gli eventi; io stavo lì impalato, cercando di immaginare vagamente come ci si fosse sentiti il giorno che quella bomba arrivò, come quelle persone abbiano vissuto i loro ultimi minuti e secondi.
Uno dei fratelli di mia madre, che tornò a casa in licenza durante i combattimenti, aprì il rifugio e trovò i 22 corpi. Mio nonno giaceva su un lato, con il suo bastone e una bottiglia di vino al fianco; altri avevano cercato di scavarsi a mani nude una via di fuga. Era troppo rischioso per organizzare una sepoltura o un funerale mentre lì fuori impazzavano i bombardamenti, così mio zio chiuse di nuovo il rifugio, e la celebrazione avvenne più tardi, quando gli eserciti si erano spostati a nord. Quei 22 corpi entrarono in sole quattro bare, perché oramai ne erano rimaste solo le ossa. La fossa comune con i nomi delle 22 persone morte quel giorno è nella parte centrale del cimitero locale; ci ho portato i miei bambini, perché non voglio che dimentichino questa storia.
Un altro fratello, che aveva perso la moglie in quel rifugio a sole due settimane dal matrimonio, era disperso da qualche parte al nord. Era uno dei tanti soldati che si diedero alla fuga dopo la firma dell’armistizio. Quando tornò a casa, la scoperta di quella terribile tragedia e più tardi la crisi economica lo spinsero sull’orlo del suicidio. Fu mia madre a trovarlo nel campo con una corda, e lo fermò. Un altro fratello ancora fu più fortunato, in un certo senso: era morto di tubercolosi poco prima dell’inizio della battaglia, ma non trovò pace neanche nella morte, dato che la sua tomba venne fatta a pezzi durante un bombardamento, lasciando la famiglia senza neanche un luogo dove poterlo piangere.
Quando i tedeschi occuparono l’Italia dopo la resa del settembre del 1943, ogni uomo in buono stato di salute era in pericolo di venire arruolato e portato in Germania. Un giorno un gruppo di soldati era nella zona, e un ragazzino stava correndo ad avvisare il padre e gli zii; un ufficiale delle SS sfoderò la pistola e lo colpì alla schiena. I soldati semplici fecero il possibile per salvarlo, ma non c’era nulla da fare, e il ragazzo morì. Mia madre vide tutta la scena, e me la raccontava spesso. Ogni volta che mi raccontava queste storie mi faceva rabbrividire.
Una cosa che saltava sempre fuori nei racconti di guerra dei miei genitori era la distinzione netta che facevano tra i soldati ordinari e gli ufficiali, soprattutto gli ufficiali delle SS, nelle fila tedesche. Mio padre mi diceva sempre che quando si trovava in presenza di soldati semplici le cose erano molto più rilassate, ma non appena arrivavano gli ufficiali delle SS le cose cambiavano radicalmente. Poteva sentire la paura che aleggiava nei soldati, e il fatto è che gli ufficiali erano una minaccia innanzitutto per i soldati stessi. La fraternizzazione con i civili era fuori discussione.
Mia madre mi raccontava come, mentre stavano scappando dai campi di battaglia, mia nonna decise di tornare indietro per vedere come stava mio nonno; mamma si intromise, impedendole di fare una cosa tanto pericolosa, e decise di andare lei con un’amica. Sulla strada si imbatterono in un soldato tedesco che puntó la mitragliatrice. Si inginocchiarono e lo scongiurarono di essere risparmiate, e il soldato fu molto toccato da quella scena. Disse loro che quella era una zona molto pericolosa, e indicò una strada più sicura, quando avrebbe potuto ucciderle sul posto. Mamma ricordava inoltre quei giovanissimi soldati richiamati da Hitler verso la fine della guerra; alcuni di loro avevano appena 16 anni. Uno di loro, ricordava, gettò disperato il suo elmetto in terra, urlando “Cassino sarà il nostro cimitero!”
Anche in quelle condizioni di barbarie, si poteva notare una istintiva solidarietà di classe tra i poveri contadini italiani e la miriade di semplici lavoratori tedeschi che riempivano le fila dell’esercito tedesco.
Condizioni di vita semi-feudali
La famiglia di mia madre viveva in condizioni di vita al limite del feudalesimo. Era una famiglia di mezzadri, e quindi avevano ricevuto una casa e della terra in cambio di metà di cio’ che producevano, dalle uova ai polli e, ovviamente, il raccolto.
Mi raccontò di come una volta il padrone si presentò a casa loro e gli tolse la porta di casa per sostituirla con un sacco, perché aveva bisogno della porta per un altro affittuario; di come si presentava improvvisamente a casa loro, e se mia madre era magari al pozzo a lavare i panni o a fare qualche faccenda doveva mollare tutto e cucinare per lui, e se magari era stanco si metteva a dormire in uno dei loro letti.
Dopo la guerra la famiglia di mia madre venne sfrattata, perché il padrone di casa li aveva accusati di avergli rubato un maiale. Dovevano cercare un’altra casa con della terra da lavorare, quindi caricarono le loro poche cose, piatti, stoviglie e lenzuola sul carro e si diressero dall’altra parte della città per iniziare una nuova vita.
Mia madre aveva iniziato a lavorare a sette anni; essendo una ragazza si riteneva inutile farla studiare, visto che il suo compito sarebbe stato mettere su famiglia; è per questo che frequentò solo il primo anno delle elementari, dopodiché venne messa a lavorare nella fattoria, prima ad occuparsi degli animali e poi più in là a lavorare la terra, cucinare e lavare i panni al pozzo o al fiume; la sera cuciva alla luce di una candela, visto che ai tempi non c’era la corrente elettrica nelle zone rurali.
La guerra però portò almeno qualche piccola soddisfazione per i contadini poveri: la media borghesia benestante che viveva in città li guardava dall’alto in basso, chiamandoli cafoni; ma con lo scoppio della guerra e con il regime fascista di Mussolini schieratosi a fianco della Germania nazista negli anni ’40, le classi medie urbane soffrivano della scarsità di prodotti alimentari ed altri beni di prima necessità, mentre i contadini potevano contare sul cibo che loro stessi coltivavano, e i “signori e signore” andavano da loro a cercare i loro prodotti. Mia madre mi diceva sempre con soddisfazione “Quelle signore impellicciate adesso avevano bisogno dei cafoni!”
La vita in una capanna di legno
Nel frattempo, tra il 1945 e il 1952, mio padre non aveva un lavoro fisso; lavorava come taglialegna sul Montecassino, dove gli alberi erano stati bruciati dai bombardamenti e c’era bisogno di un gran lavoro di rimboschimento, tagliando i vecchi alberi e piantandone di nuovi. Poi lavorò in una cava spaccando pietre, e poi come bracciante agricolo nei campi. Nel frattempo lavorava nella piccola fattoria di casa: dato che la casa era stata distrutta nei bombardamenti del ’44, mio padre dormiva in una capanna di legno. Mi raccontava sempre ridendo di come divideva il letto con la madre ed il fratello minore, e nelle notti più ventose dovevano aggrapparsi alle lenzuola per non farle volare via. Ci vollero molti anni per ricostruire la casa, vista la scarsità di fondi.
Poco dopo la guerra suo padre morì di tubercolosi, un male comune a quei tempi, mentre tutti i suoi fratelli erano disoccupati o si arrangiavano con lavori occasionali in campagna o nell’edilizia.
Forse è difficile per chi oggi vive in luoghi come l’Europa Occidentale o il Nord America immaginare una vita del genere, ma non è affatto difficile capire per chi vive in Iraq o in Siria; sta di fatto che questo tipo di vita ha creato una generazione di persone temprate, di grandi lavoratori decisi a superare ogni difficoltà.
Sperando nella rivoluzione
Nel caso di mio padre questa vita portò anche ad una forte radicalizzazione politica; il periodo 1943-48 fu ricco di intense lotte di classe. Nell’Italia del Nord e del Centro emersero i movimenti partigiani in opposizione alle forze occupanti naziste, e allo stesso tempo ci furono molti scioperi nelle città e occupazioni di terre nelle campagne, con una crescita esponenziale delle organizzazioni di massa tra la classe lavoratrice; il Partito Comunista passò da 2000 membri del 1935 a due milioni nel 1945, e la CGIL raggiunse i cinque milioni
In queste condizioni mio padre, nel 1946, si iscrisse al PCI e con altri compagni formò una sezione nel suo paese, con 11 iscritti, e vendeva il giornale del partito come parte delle sue attività politiche. Mi raccontò come una volta stesse leggendo l’Unità nella piazza del paese, e il prete che passava di lì gli urlò “Verrai scomunicato!!!” e mio padre rispose “E dopo che mi avrai scomunicato, che farai?”
Nel 1948, mi diceva, erano certi di poter vincere le elezioni; in sezione già facevano piani su come avrebbero rastrellati tutti i padroni dopo la vittoria. Credevano che i leader del partito volessero una rivoluzione, ma non capivano gli effetti che le politiche di partito avevano avuto sull’elettorato più ampio. Tra il 1944 ed il 1947 il PCI faceva parte di un governo di unità nazionale insieme alla Democrazia Cristiana, cosa che gli fece perdere credibilità, insieme al Partito Socialista con il quale collaborava, e nel 1948 persero molti voti. “Quindi dovemmo mettere via la lista di padroni da rastrellare e iniziare a cercare di sopravvivere”, mi diceva, eppure aveva fatto le sue analisi: quando nel 1976 il PCI ebbe la sua più grande vittoria elettorale mi scrisse “faranno gli stessi errori degli anni ’40; gli interessa solo la carriera”.
L’emigrazione come unica soluzione
Le condizioni di estrema povertà e la perdita di ogni speranza in un cambiamento radicale portarono mio padre ad emigrare. Fece domanda per lavorare negli USA e in Gran Bretagna e gli venne offerto un lavoro in una società siderurgica nel Galles del Sud. Doveva però sottoporsi prima ad un esame medico a Frosinone, dato che i padroni volevano uomini forti e in salute. “Quando andai al controllo c’era un dottore inglese che dapprima misurò tutto: altezza, circonferenza toracica, il polso, pressione… Ma solo quando mi guardò le mani indurite dai calli lo vidi realmente soddisfatto: ero proprio quello che serviva nelle acciaierie”.
Il giorno della partenza si incontrò con gli altri paesani a cui era stato offerto un lavoro: alcuni andavano a lavorare in miniera, altri nelle fornaci, altri come lui nelle acciaierie. Dovettero dapprima viaggiare fino a Milano. Poi fu trasferito ad un treno pieno di migranti provenienti da Calabria, Sicilia, Puglia… e gli appiccicarono sulla giacca un’etichetta con nome, cognome e destinazione. “Ci trattavano come mandrie di animali da trasportare”, mi diceva sempre.
All’arrivo al porto di Dover c’erano dei funzionari dell’acciaieria a “raccogliere” i loro lavoratori; quando arrivarono in Galles mio padre fu portato agli “alloggi”: degli ostelli per immigrati consistenti in costruzioni di legno col tetto di amianto, dove alloggiavano due lavoratori per camera. Il giorno dopo fu messo subito a lavorare all’alto forno ; mi raccontava del calore, delle fiamme, delle enormi lamiere incandescenti che doveva tirare giù con le pinze, dei turni di notte, mentre lo assaliva la nostalgia di casa, dove aveva lasciato i suoi campi, il sole, i suoi amici e la sua promessa sposa. Avendo fatto le scuole elementari, però, era tra quelli che sapevano leggere e scrivere; alcuni dei suoi colleghi erano analfabeti, e lui scriveva per loro le lettere da mandare a casa. Alcuni di loro non volevano ammettere di non saper leggere, e con la scusa di aver lasciato gli occhiali in camera gli chiedevano di controllare sulla bacheca se ci fosse posta per loro.
Fu in queste condizioni che mio padre si rese conto che i lavoratori avevano un disperato bisogno di organizzarsi sindacalmente, e il sindacato diventò per lui una costante di vita. Mi raccontava come fosse forte il sindacato tra i siderurgici, e di quanto solida fosse la forza dei lavoratori dietro ai delegati sindacali.
A quei tempi la Gran Bretagna non faceva parte dell’Unione Europea; mio padre dovette lavorare per quattro anni prima di essere “libero”, ovvero potesse scegliersi un lavoro diverso. Aveva un “libretto di immigrazione” che doveva essere timbrato in commissariato ogni anno.
Vite separate
Dopo il primo anno di lavoro era riuscito a mettere da parte abbastanza soldi per comprarsi un completo e tornare a casa per sposarsi. Dopo il matrimonio tornò in Galles, ma lasciò sua moglie in Italia; i miei genitori si vedevano una volta l’anno, in estate, quando mio padre aveva le ferie. Non c’era internet ai tempi, non c’erano i cellulari, e i paeselli non avevano neanche la linea telefonica; le comunicazioni avvenivano via posta, e mia madre era praticamente analfabeta. Fu allora che si diede da fare per imparare almeno le basi della lettura e della scrittura; conservo ancora alcune delle lettere che inviava a papà: lui gliele rimandava indietro con le correzioni in inchiostro verde, per farle imparare la grammatica e l’ortografia. In una delle lettere che mio padre le mandò prima di tornare per le vacanze estive le diceva: “sarò sullo stesso treno dell’anno scorso, puoi venire alla stazione?”. Lei andò a prenderlo con mio zio ed un carretto trainato da un asino.
Ho avuto il privilegio di avere un assaggio di cosa fosse quella vita: negli anni ’60, quando andavo a trovare mia nonna, non c’era acqua corrente a casa sua; le donne andavano alla fontana a riempire grandi vasi di terracotta, che trasportavano in testa; quelle abbastanza fortunate avevano accesso ad un pozzo vicno casa. Non c’erano bagni o water, e la gente si lavava in vasche all’aria aperta, e faceva i suoi bisogni nelle latrine nel bosco. La strada era poco più di uno sterrato, dove i miei cugini d’estate correvano a piedi nudi, e i contadini lavoravano ancora la terra con aratri trainati da buoi.
E’ per questo che mio padre, nonostante la nostalgia, non rimpatriò; quando finì i suoi quattro anni di contratto nel 1956 fece venire in Galles mia madre; non viveva più all’ostello, ma in una camera in affitto in una casa condivisa con altri immigrati italiani. Andò al porto di Dover a prendere mia madre, che veniva dalla primavera italiana, calda e soleggiata, mentre in Inghilterra fu accolta dalla nebbia; la prima cosa che disse a mio padre, appena scesa dalla nave, fu; “quando torniamo in Italia?”. Ma cosa li aspettava in Italia? In Gran Bretagna per lo meno avevano la speranza di poter costruire un futuro.
Quando mia madre andò a visitare il posto di lavoro di papà disse che le sembrava di visitare l’inferno. Era incinta di otto mesi e aveva lavorato nei campi fino al giorno prima di partire, e poi si era imbarcata in quel lungo viaggio in treno; il bambino nacque morto.
Era in un paese di cui non conosceva la lingua, dove aveva pochi amici ed era lontana dalla famiglia; dopo la perdita del bambino passava le sue giornate a pregare. Alla fine arrivai io; nacqui mentre mio padre lavorava al turno di notte. Quando mi portarono dall’ospedale alla camera dove vivevano, usarono una valigia aperta come culla; è un aneddoto che mia madre, donna molto orgogliosa, non ama che io racconti, ma per me è un ottimo esempio di come vivevano gli immigrati a quei tempi.
Gli uomini e le donne sono nati liberi?
Si dice spesso che gli uomini e le donne siano nati liberi; questi migranti non lo erano. Erano stati costretti ad emigrare dalla povertà, pronti a qualsiasi sacrificio ed umiliazione pur di costruire un futuro migliore per se stessi e, soprattutto, per i loro figli. In una lettera che mio padre scrisse al suo fratello maggiore nel 1965 gli diceva: “anche se io ho dovuto vagare per il mondo come uno zingaro, come un somaro senza meta, non voglio che mio figlio faccia la stessa fine”.
Mio padre ha pagato con la vita, morendo giovane, a una cinquantina d’anni; la prima a cedere era stata la vista: mi ha raccontato di come la ruggine nell’aria gli si posasse sulla fronte e di come poi il sudore la facesse andare negli occhi. Poi vennero i danni al fegato, e una rara forma di leucemia; ricordo che quando i dottori gli chiesero se avesse mai lavorato il metallo mi resi conto dei danni che avevano fatto tutti quegli anni all’acciaieria sulla sua salute. Ricordo gli ultimi anni della sua vita, piegato in due dai dolori: non era più quel giovane forte del giorno della visita medica in Italia.
Mio padre fu spesso vittima di razzismo, e non tollerava tutti quegli insulti e quell’ignoranza, ma scoprì anche il significato della solidarietà tra lavoratori. Nell’acciaieria, e più tardi in fabbrica, lavorava con scozzesi, gallesi, irlandesi, pachistani, caraibici, polacchi, jugoslavi, insieme ovviamente agli inglesi. Solo quando restavano uniti vincevano le loro battaglie; papà fu iscritto al sindacato dal 1952 fino al giorno della sua morte.
Mi ricordo i suoi racconti di uno sciopero a cui partecipò, che durò sette settimane! Era uno sciopero per i salari e per le condizioni lavorative, e per la parità di retribuzione per uomini e donne, le quali ai tempi venivano pagate molto meno degli uomini che facevano il loro stesso lavoro.
Quando tornavo da scuola ogni giorno mio padre mi raccontava dell’assemblea in fabbrica, di come stava andando lo sciopero. Un giorno era particolarmente orgoglioso perché era riuscito a convincere, con un intervento, alcuni colleghi che stavano iniziando a cedere sotto la morsa di tanti giorni senza salario. Il delegato sindacale di reparto usò il suo discorso per convincere tutti gli altri.
Alla fine dello sciopero era furioso con il sindacato, perché non era andato fino in fondo con tutte le richieste dei lavoratori, ma questa è un’altra storia. Era perfettamente cosciente del fatto che gli scioperi fossero necessari non tanto quando le cose in fabbrica andavano male, ma soprattutto quando andavano bene. Diceva: “che senso ha scioperare quando ci sono pochi ordini? Dobbiamo scioperare quando ci chiedono lo straordinario, quando sono sotto pressione con gli ordini. Così li colpiremmo seriamente!” Quando più tardi lessi le parole di Trotskij, per cui a volte la lotta di classe prende piede nei momenti di ripresa dopo una recessione, fu un concetto semplice da capire per me.
Mi ricordo che ai tempi i giornali come il Sun parlassero di “lavoratori avidi”. Ci fu uno sciopero alla fabbrica della Ford, dove i lavoratori chiedevano un aumento di una sterlina a settimana. La propaganda borghese non aveva effetto su di me: ero con gli operai della Ford, che mi ricordavano le lotte di mio padre, il quale contribuiva regolarmente alle collette nella sua fabbrica in sostegno di altri scioperanti. Conservo ancora il volantino dello sciopero dei lavoratori della Jaguar, per i quali aveva contribuito.
Solidarietà tra lavoratori
Mio padre non avrebbe mai accettato il razzismo che oggi vediamo in Italia, ma avrebbe diretto la sua rabbia contro i padroni, come ha sempre fatto. Insisteva sempre sul fatto che uomini e donne di tutte le razze e religioni potessero vivere l’uno accanto all’altro; un giorno lo sentii dire al presidente del consiglio di fabbrica di un’azienda vicno a casa nostra che per lui non esisteva differenza tra inglesi, italiani, indiani o caraibici: “siamo tutti lavoratori, e ci siamo dentro insieme!” Il nemico era il padrone che sfruttava i lavoratori di tutte le razze. Quest’idea veniva dalla sua esperienza in fabbrica. Allo stesso tempo era orgoglioso delle sue origini italiane, e citava spesso Dante e ascoltava l’opera.
Quando ero un ragazzo mio padre mi diceva che un giorno avremo dei grandi magazzini dove troveremo tutto quello di cui avremo bisogno; chiunque avrà bisogno di qualcosa non dovrà far altro che presentare un certificato che conferma che abbia lavorato. Mi parlava di un mondo senza ingiustizia, mi diceva che il denaro in sé e per sé era inutile, che ciò che contava era la forza lavoro. A quei tempi non capivo molto cosa stesse dicendo, ma quando lessi il Manifesto del Partito Comunista finalmente ci arrivai da solo. Quando era vicino alla morte mi parlava di questo mondo pieno di ingiustizie, con un manipolo di miliardari da una parte e miliardi di persone che morivano di fame dall’altro. Ho imparato molto a scuola, ma il mio miglior maestro di vita è stato mio padre. Mentre riposava nella sua bara gli strinsi forte la mano e gli promisi che avremmo continuato a lottare per il mondo che lui credeva possibile.
Viviamo le stesse condizioni
Quindi, la prossima volta che incontrate un immigrato per le strade d’Italia pensate a queste cose. Per noi sarà pur il nostro passato, ma è il presente per molti paesi del mondo. Ho visitato paesi come il Pakistan e la Nigeria: in Pakistan ho visitato una zona di Lahore con piccoli laboratori di ferro e acciaio, dove uomini trascinavano sudando carichi pesanti come fossero animali da soma, lavorando in condizioni simili a quelle che avevano vissuto i miei genitori. In Nigeria ho visitato Ajegunle, un quartiere di Lagos, una zona così povera che è difficile da descrivere; sono stato invitato a casa di un lavoratore, ma in realtà si trattava di una stanza con pochissimi mobili, ed un tappetino di paglia in un angolo del pavimento, con un cuscino accanto: quello era il letto. Sul muro erano appesi un paio di pantaloni ed una camicia pulita, gli unici abiti di ricambio. Non c’era acqua corrente, bisognava andare a prenderla alla fontana comune del quartiere; le strade erano polverose, con fogne aperte ai lati e bambini che ci giocavano dentro. Ho visto la zona di Makoko dove le persone vivono su palafitte costruite sulla laguna. E’ una povertà inimmaginabile.
E se queste condizioni di povertà non fossero abbastanza, ci sono le guerre civili che imbarbariscono la vita, in Nigeria come in Pakistan. Ci sono circa 4 milioni di rifugiati siriani che vivono nei campi in Turchia, Giordania, Libano, Iraq ed Egitto. Alcune migliaia di loro attraversano il Mediterraneo verso l’Italia o la Grecia su imbarcazioni di fortuna, cercano di attraversare la Turchia e raggiungere i paesi dell’Europa, come l’Ungheria, che gli possano permettere di arrivare in Germania, Austria, Svezia e altri paesi dell’Europa del Nord. Anche loro scappano dalla povertà in cerca di una vita migliore; molti fuggono dalla devastazione prodotta dalla guerra, come molti italiani fecero in passato.
Un giorno mia madre stava guardando in televisione le terribili scene dei rifugiati accampati sulle montagne durante i bombardamenti in Iraq, e mi disse: “so come si sentono, so come stanno soffrendo. Non voglio che queste cose si ripetano qui in Italia. Tu non puoi capire cosa vuol dire, e ringrazio Dio che tu non lo possa capire!”
Quindi ricordate: quei migranti che vedete arrivare non sono i vostri nemici, non sono venuti a rubarvi il lavoro o le case. Sono vittime della barbarie e delle ingiustizie del sistema capitalista che ci circonda. I responsabili delle loro difficoltà sono gli stessi che vi tagliano le pensioni, che aumentano i costi dell’istruzione, che fanno tagli alla sanità. Quegli immigrati sono i vostri alleati contro i padroni di tutti i paesi, e solo unendo i lavoratori di tutte le etnie possiamo vincere.
Divisi si perde, uniti si vince!
Fernando D’Aliesio