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27 Novembre 2017La rivoluzione araba. Dalla nascita d’Israele alla prima Intifada (1948-1988)
30 Novembre 2017A dieci anni dalla guerra civile che consegnò ai fondamentalisti sunniti di Hamas il controllo sulla Striscia di Gaza, sulla Palestina spira un vento di ‘riconciliazione’ nazionale. Infatti, Hamas e l’Autorità nazionale palestinese (Anp), guidata da Abu Mazen e dal partito Fatah, hanno firmato al Cairo, sotto il patrocinio del generale egiziano al-Sisi, un accordo di collaborazione che prevede la formazione di un governo di coalizione, elezioni da convocare (forse) al più presto, la revoca delle sanzioni approvate da Abu Mazen contro il Governo di Gaza ed il trasferimento all’Anp del potere amministrativo sulla Striscia di Gaza e su tutti i valichi di frontiera.
Tremila poliziotti dell’Anp metteranno piede a Gaza per la prima volta dopo dieci anni, ma Hamas è rimasta ferma nel rifiuto di disarmare la propria ala militare, le brigate Ezzedin al-Qassam, e di rompere i legami con l’Iran retto dal clero sciita come gli chiedono Fatah, gli Usa e Israele.
Quali sono le ragioni di questa svolta? Quali saranno le conseguenze dell’accordo nei Territori occupati e a livello internazionale?
Le ragioni dell’accordo
Logorata da 10 anni di governo su Gaza, dall’embargo – israeliano, egiziano e dell’Anp – e dalla pressione di gruppi salafiti presenti a Gaza, Hamas ha tutto l’interesse a condividere le responsabilità di governo coi rivali dell’Anp. Si tratta, in effetti, di un’alleanza tra due movimenti politici entrambi in crisi di consenso. Hamas, tuttavia, non può disarmare le proprie milizie settarie, pena il suicidio politico e non solo, nonostante Abu Mazen tuoni contro l’eventualità di una replica della situazione libanese nella quale l’esercito regolare, nelle zone sciite, è affiancato dalle milizie degli Hezbollah. Anche sulla richiesta di troncare i propri rapporti diplomatici con l’Iran sciita, Hamas non ha compiuto passi indietro; dovesse farlo, le petromonarchie del Golfo sarebbero pronte a sostituire l’Iran come fornitrici di armi e denaro al movimento.
L’Anp, d’altra parte, può vantare il rientro delle sue strutture governative e di polizia a Gaza. Il controllo delle frontiere, peraltro, consentirà all’Anp di allargare i suoi traffici – le tasse sulle merci importate a Gaza ammonterebbero a circa 100 milioni di dollari al mese – e sarà una garanzia per Israele e l’Egitto; in particolare, al-Sisi e i servizi di sicurezza egiziani potranno più facilmente stroncare linee di rifornimento e di aiuto tra la Striscia di Gaza ed il Sinai, zona dell’Egitto nella quale operano gruppi terroristi di matrice sunnita. L’accordo, peraltro, è stato reso possibile anche dalla parziale presa di distanza di Hamas dalla Fratellanza musulmana egiziana, al momento principale rivale del presidente-generale al-Sisi.
Imperialismo e liberazione nazionale
Per parte sua, il primo ministro israeliano, Netanyahu, ringhia contro l’accordo, invoca il disarmo delle brigate Ezzedin al-Qassam e il riconoscimento da parte di Hamas dello stato di Israele come prerequisiti di ogni negoziato. Tuttavia, lo stesso Netanyahu – in campo estero anti-iraniano come le monarchie sunnite che appoggiano l’Anp – apprezza senz’altro che il confine tra Gaza e Israele passi sotto il controllo dell’Anp, invischiata in una collaborazione con l’apparato militare israeliano sin dagli accordi di Oslo del 1993. L’accordo, peraltro, incorona implicitamente Mohamed Dahlan come successore di Abu Mazen alla testa dell’Anp. Dahlan, autoesiliato da 10 anni negli Emirati arabi uniti, è l’esponente dell’Anp più vicino alle monarchie del Golfo, a Israele e tra i più spietati nel reprimere ogni protesta nei Territori occupati. Insomma, il governo sionista di Israele brontola e vuole di di più ma, comunque, trarrà vantaggio per la propria politica di colonizzazione dei Territori Occupati. In più, l’amministrazione Trump, anch’essa in virata anti-iraniana in politica estera, ha sostenuto la posizione israeliana, accentuando la linea assunta fin dal proprio insediamento con la nomina del “falco” sionista Friedman come ambasciatore Usa a Tel Aviv.
Ancora una volta, purtroppo, il futuro del popolo palestinese è ipotecato da accordi frutto delle pressioni sui principali movimenti politici nazionali delle potenze imperialiste mondiali e regionali.
Naturalmente, l’accordo detto di riconciliazione nazionale non si basa su alcuna strategia per la liberazione nazionale della Palestina – né potrebbe essere così, data la natura reazionaria di Hamas e la corruzione politica abissale nella quale si sono inabissate da tempo l’Anp e Fatah. L’unità nazionale precariamente sancita dall’accordo Fatah-Hamas servirà ad erigere un muro ancora più spesso davanti a qualsiasi autentica protesta di massa, tanto in Cisgiordania quanto a Gaza. Giova, però, tenersi a mente che accordi di questo genere possono certo ritardare un’esplosione politica e sociale delle masse palestinesi ma al prezzo di renderla ancora più profonda ed incontrollabile.