
La guerra contro l’Iran e il ruolo di Trump – Fuori l’imperialismo dal Medio Oriente!
26 Giugno 2025di Vittorio Saldutti
Cinquecento anni fa, il 15 maggio del 1525, alle porte della città di Frankenhausen, nel cuore della Germania, un esercito di contadini, minatori e cittadini poveri si scontrò con gli eserciti riuniti dei principi tedeschi. La sconfitta e il massacro dei ribelli che seguirono segnarono allo stesso tempo il culmine e la repentina fine di un ultradecennale movimento di rivolta che aveva attraversato le contrade dell’Europa settentrionale e aveva preso il nome di guerra contadina. Le dimensioni del fenomeno, la sua radicalità, ma anche la sua maturità programmatica ne fecero il più importante movimento di massa dell’età moderna fino a quel momento. Bisognerà attendere la rivoluzione inglese e, poi, quella francese, per vedere processi storici altrettanto importanti nel vecchio continente.
Dalla lega dello scarpone alla battaglia di Frankenhausen
Il progressivo sgretolamento dell’Impero nei decenni finali del XV secolo e in quelli inziali del secolo seguente aveva portato enormi sconvolgimenti nei territori di lingua tedesca. La crisi dello Stato centrale aveva rafforzato i principati regionali, che sempre di più basavano la propria ricchezza e potenza sullo sfruttamento delle classi inferiori. I contadini erano costretti a pagare tasse insostenibili e offrire gratuitamente il proprio lavoro a principi e conventi. Nei fatti, vista anche la crisi dei prezzi che colpì la regione in quegli anni, i contadini liberi erano gradualmente scivolati in una condizione sempre più simile a quella dei servi della gleba. Un impoverimento a cui faceva da contraltare l’arricchimento dei nobili e del clero. Questi si appropriavano di ogni ricchezza per aumentare il lusso della corte e pagare i propri eserciti. Anche la valvola di sfogo rappresentata dalle libere città, in cui ricoveravano numerose persone che volevano sfuggire alle condizioni tremende della campagna, venne meno. I principi iniziarono infatti a esercitare un crescente potere anche su queste e sempre di più fecero lega con i ricchi borghesi che si stavano allora imponendo al governo dei centri cittadini.
Questa polarizzazione sociale portò all’affermazione di endemiche rivolte che coinvolgevano i diversi ceti oppressi in tutte le regioni di lingua tedesca. Le prime avvisaglie si erano avute già nel XIV secolo con la guerra contro gli eretici Hussiti e, alla fine del secolo, con le rivolte del Bundschuh, la “lega dello scarpone”, dall’immagine che campeggiava sullo stemma dei ribelli, simbolo del duro lavoro nei campi. In entrambi i casi le rivolte fecero proprie confuse rivendicazioni sociali e politiche, ammantate di toni religiosi. I rivoltosi rivendicavano la restituzione delle proprietà pubbliche di cui si erano appropriati la chiesa e i principi; la fine degli obblighi feudali e dei diritti ecclesiastici; la restituzione del potere all’imperatore. La contestazione delle vessazioni presenti veniva nei fatti condotta con un utopistico desiderio di ritorno al passato. Lo scontro con la realtà non poté essere più duro: tutte le insurrezioni vennero rapidamente sconfitte dagli eserciti dei principi, con un lungo strascico di violenze, esecuzioni sommarie, ulteriore appropriazione di beni pubblici e privati, tasse più gravose.
L’ultima rivolta del Bundschuh era terminata nel 1517, lo stesso anno in cui ebbe inizio la riforma luterana. L’ambito delle rivendicazioni di Lutero era sostanzialmente religioso, con minori ricadute moderate di tipo politico, ma proprio la loro natura moderata fece sì che attorno ad esse si coagulasse un ampio consenso che tenne insieme diversi strati sociali. Engels sintetizza questo processo affermando che:
“Le tesi dell’agostiniano della Turingia appiccarono il fuoco come un fulmine in una polveriera. Le molteplici aspirazioni che si intrecciavano tra di loro, dei cavalieri e dei borghesi, dei contadini e dei plebei, dei principi che aspiravano alla sovranità e del basso clero, delle sette clandestine misticheggianti e degli scrittori dotti o burlesco-satirici dell’opposizione trovarono in esse un’espressione generale, provvisoriamente comune, intorno alla quale si raggrupparono con sorprendente rapidità.” (1)
La forza del movimento gli permise di ottenere in breve tempo successo, che si concretizzò, però, in una maggiore autonomia dei principi dall’imperatore, una minore esosità del clero, un più saldo controllo dei borghesi sugli organi cittadini. Una volta ottenuto ciò, Lutero si schierò saldamente dalla parte dei principi contro ogni minaccia al nuovo ordine costituito, una posizione che mantenne durante le rivolte degli anni seguenti. Involontariamente, però, egli, con la sua traduzione della Bibbia, aveva favorito l’idea che chiunque poteva accedere agli strumenti del potere e discutere alla pari con i più alti gradi della società. Lutero aveva in questo modo contribuito all’idea che anche gli ultimi potessero ribellarsi all’ordine costituito.
L’azione intellettuale di Lutero, attorno alla quale si erano saldate tutte le classi sociali, si era risolta solo a vantaggio dei principi e dei ricchi borghesi, mentre le condizioni di vita degli altri strati sociali non videro alcun miglioramento sostanziale. Ciò fu la base di una nuova, più ampia e radicale ondata di rivolte nel paese. A partire dal 1524 numerosi focolai di rivolta esplosero in tutta la Germania, soprattutto nelle sue regioni occidentali e meridionali. Le bande di ribelli raccolsero oltre 300.000 persone, in maggioranza contadini, a cui si aggiunsero tutti gli sfruttati del tempo: minatori, plebei, proletari delle città, persino alcuni piccolo borghesi, che ben presto tradirono.
Le rivendicazioni – ancora una volta giustificate alla luce dei testi sacri e di un ritorno all’uguaglianza dei primi cristiani – si concretizzarono nei 12 articoli approvati con minime variazioni da tutte le bande. Gli articoli chiedevano una maggiore libertà personale tramite l’abolizione della servitù e la riduzione delle tasse più gravose; la restituzione delle proprietà comunitarie come mezzo di miglioramento economico; l’elezione dei parroci come forma di democrazia popolare; la fine dell’arbitrio giudiziario dei nobili. La risposta dei principi locali, a cui si associò Lutero, fu esclusivamente repressiva. Una volta messi insieme i soldi necessari, radunarono eserciti di cavalieri e spensero tutti i fuochi della rivolta, uno ad uno, con grande ferocia.
Il tradimento di Lutero favorì l’ascesa di altre figure di riferimento, tra le quali spicca Thomas Müntzer, un monaco, riformatore in origine, che si era nel tempo radicalizzato. Fu lui l’anima degli ultimi mesi della guerra contadina. Le passate esperienze avevano esacerbato il suo odio nei confronti dei governanti, che espresse in maniera più chiara nella sua Confutazione ben fondata, pubblicata nel 1524, dove si legge:
“Guarda, i signori e i prìncipi sono l’origine di ogni usura, d’ogni ladrocinio e rapina; essi si appropriano di tutte le creature: dei pesci dell’acqua, degli uccelli dell’aria, degli alberi della terra (Isaia 5, 8). E poi fanno divulgare tra i poveri il comandamento di Dio: “Non rubare”. Ma questo non vale per loro. Riducono in miseria tutti gli uomini, pelano e scorticano contadini e artigiani e ogni essere vivente (Michea, 3, 2–4); ma per costoro, alla più piccola mancanza, c’è la forca. Gli stessi signori fanno in modo che il popolo diventi loro nemico; non vogliono rimuovere la causa dell’insurrezione; come possono, alla lunga andar bene le cose? Orsù, animo, dicendo questo sarò considerato ribelle!” (2)
L’odio contro i signori gli permise di chiarire anche quali fossero le rivendicazioni necessarie per il loro abbattimento. Müntzer non voleva il ritorno di una monarchia centrale forte, ma l’abolizione di ogni forma di potere e l’autonoma amministrazione delle comunità in forma democratica. Sul terreno economico, non bastava riappropriarsi delle proprietà marginali occupate dai nobili, ma occorreva mettere in condivisione ogni bene in forma comunitaria. Riprendendo alcuni passi biblici e della teologia agostiniana, Müntzer sintetizzò le sue rivendicazioni nello slogan omnia sunt communia, “tutto è di tutti”, parola d’ordine per la quale si batterono i suoi seguaci a Frankenhausen. La sconfitta sul campo e la condanna che ne seguì non riuscirono ad impedire che la memoria di quella rivolta continuasse per lungo tempo.
Il 1848, la riscoperta delle guerre contadine e il materialismo storico
La situazione politico-economica della Germania aveva fatto sì che, dopo questi eventi, le regioni che ne erano state colpite si trovassero alla retroguardia dell’evoluzione politica del continente. Solo nei primi decenni del XIX secolo i Länder tedeschi sembravano pronti ad incamminarsi sulla via dell’unificazione politica e del rinnovamento sociale ed economico. Come in altre parti d’Europa, l’anno cruciale fu il 1848.
Nel cuore dei processi rivoluzionari che per la prima volta posero con forza il tema dell’unificazione tedesca e del superamento del sistema nobiliare, un membro del parlamento di Francoforte riprese l’insegnamento dei contadini tedeschi di tre secoli prima. Wilhelm Zimmermann, democratico moderato che nel dibattito del ’48 si avvicinò all’ala sinistra del parlamento, negli anni che avevano preceduto la rivoluzione si era dedicato allo studio delle rivolte del XVI secolo, pubblicandone, tra il 1841 e il 1843, una ponderosa storia, la più ricca di documenti e informazioni mai apparsa fino a quel momento. Solidale con i contadini che avevano animato le guerre, Zimmermann non riuscì però ad andare oltre la visione caratteristica del tempo, che vedeva idealisticamente la storia come uno scontro di idee diverse, l’esito di progressi intellettuali favoriti da uomini straordinari. Nella sua descrizione chiaroscurale, la guerra era stata una “lotta della libertà contro un’oppressione disumana, della luce contro le tenebre” (3), utile a trasferire sul piano sociale le rivendicazioni religiose della riforma.
Sin dall’introduzione del lavoro si notano gli elementi tipici della storiografia idealistica tedesca del tempo: la necessità di individuare nella storia lo Spirito e il suo anelito verso un’astratta libertà, che non è l’esito di forme di governo, ma dell’appagamento dei desideri dell’umanità. Centrale nella riflessione era anche la posizione delle singole personalità, nel caso specifico quelle di Lutero e Müntzer, viste come le principali protagoniste della storia. Zimmermann descrive, infatti, il contrasto tra i due in termini fortemente intellettuali e religiosi.
Sui limiti delle concezioni storiche idealistiche si stavano interrogando Marx ed Engels proprio negli anni in cui veniva pubblicata e scoperta l’opera di Zimmermann. Nell’Ideologia tedesca, scritta tra il 1845 e il 1846, i due dedicano numerose pagine al problema. Allontanandosi dalla gerarchia hegeliana che voleva le idee alla base della realtà, essi affermano:
“Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita.” (4)
Attuando sul piano della storia quel medesimo rovesciamento della piramide hegeliana che avevano effettuato sul piano filosofico, Marx ed Engels posero l’accento sulla centralità dello sviluppo delle forze produttive nella trasformazione storica, da cui discendevano solo in un secondo momento le idee di cui si ammantavano certi processi e le personalità che le portavano avanti: “la quantità delle forze produttive accessibili agli uomini condiziona la situazione sociale e […] dunque la «storia dell’umanità» deve essere sempre studiata e trattata in relazione con la storia dell’industria e dello scambio” (5). Le idee che si sono confrontate nel corso della storia sono dunque le forme esteriori attraverso cui si esprime il confronto tra le diverse classi economiche. Detto altrimenti: “tutte le lotte nell’ambito dello Stato, la lotta fra democrazia, aristocrazia e monarchia, la lotta per il diritto di voto, ecc. ecc., altro non sono che le forme illusorie nelle quali vengono condotte le lotte reali delle diverse classi”(6). Un’idea che sarà alla base delle prime pagine del Manifesto.
Da questa prospettiva “si vede quanto sia assurda la concezione della storia finora corrente, che si limita alle azioni di capi e di Stati e trascura i rapporti reali”(7). La concezione della storia come prodotto dei “grandi uomini” viene apertamente contestata, senza che ciò voglia dire negare il peso delle grandi personalità, che sono però allo stesso tempo prodotto di una data epoca e produttori di nuove condizioni. Allo stesso modo non si nega l’importanza delle idee nell’evoluzione storica, solo che se ne vede l’origine nei rapporti materiali di produzione, che possono, tuttavia, a loro volta essere influenzati dall’ideologia che si fa azione.
Una concezione complessa, dunque, che non si limita a vedere il passato come una semplice equazione matematica a partire dalle premesse date dallo sviluppo della produzione, come ribadirà Engels più tardi (8), ma che individua la chiave di volta della comprensione storica nelle basi materiali della società.
Engels e la Guerra dei Contadini
All’interno della concezione materialistica della storia “tutte le collisioni della storia hanno la loro origine nella contraddizione tra le forze produttive e la forma di relazioni” (9), ma per comprendere bene queste contraddizioni occorre poi indagare i processi storici concreti, soprattutto quelli rivoluzionari, che sono quelli in cui in maniera più evidente vengono alla luce le contraddizioni che agitano la società. Questo è il compito che si propone Engels quando scrive gli articoli che verranno raccolti nel saggio La guerra dei contadini in Germania.
Il lavoro, pubblicato nel 1850, vuole essere una prova dell’efficacia della nuova concezione sviluppata con Marx, applicata a una vicenda storica che era stata da poco riscoperta come lontano precedente dei moti del ’48. L’aspetto didattico è infatti esplicito sin dalle prime pagine, dove si dice che:
“Anche il popolo tedesco ha la sua tradizione rivoluzionaria. […] la guerra dei contadini non è tanto remota dalle lotte che noi conduciamo al presente, e gli avversari contro cui dobbiamo combattere, sono in massima parte sempre gli stessi. Le classi e le frazioni delle classi che dappertutto nel 1848 e 1849 hanno tradito, le ritroveremo traditrici già nel 1525, per quanto esse fossero a un grado più basso di sviluppo.” (10)
L’analogia non è però condotta in maniera banale. Il diverso grado di sviluppo delle classi sociali nei due episodi determina le notevoli differenze, le loro specificità, che sono importanti quanto le loro somiglianze.
L’analisi puntuale delle differenze è condotta esplicitamente secondo il metodo del materialismo storico.
In questo senso Engels comincia il suo lavoro presentando la situazione economica, particolarmente arretrata, delle regioni tedesche all’inizio del XVI secolo, ma passa poi a delineare i riflessi politici e culturali di questa situazione. Non viene tralasciato alcun gruppo, e si passano così in rassegna la classe dei principi, la piccola nobiltà, il clero, la neonata classe dei giuristi, i ricchi mercanti delle città, infine i plebei e i contadini. Questi gruppi erano a loro volta articolati al loro interno, come si nota nella divisione tra alto e basso clero, una spaccatura di non secondaria importanza se dai ranghi più bassi della chiesa vennero tutti i leader contadini del tempo. Engels conclude questa premessa con un’affermazione in cui viene risolto brillantemente il tema dell’analogia e delle differenze nella storia:
“Sul principio del sedicesimo secolo le diverse classi sociali dell’impero — principi, nobiltà, prelati, patrizi, borghesi, plebei e contadini — costituivano una massa straordinariamente aggrovigliata, con i bisogni più diversi, e si intrecciavano in tutte le direzioni. Ogni classe sociale era di ostacolo all’altra ed era in uno stato di lotta continua, ora latente ora nascosta, con tutte le altre. Quella divisione di tutta la nazione in due grandi campi, quale sussisteva in Francia precedentemente allo scoppio della prima rivoluzione, e che in un più alto grido di sviluppo esiste oggi nei paesi più progrediti, era in quelle circostanze assolutamente impossibile. Essa poté effettuarsi e solo approssimativamente allorquando lo strato infimo della nazione, sfruttato da tutte le altre classi, i contadini e i plebei, si sollevò.” (11)
Le condizioni di tre secoli prima, in termini di riflessi politici dell’articolazione sociale, erano molto diverse rispetto alla società contemporanea. È la lotta politica a portare a una semplificazione del quadro che consente di avvicinare le due vicende. La lotta di classe, imponendo alleanze e chiarendo i rapporti di classe, consente di leggere in maniera più nitida dinamiche altrimenti molto più difficilmente ricostruibili.
Nel contesto della Germania della prima età moderna, Engels individua tre campi che raccolgono le numerose classi precedentemente identificate: il cattolico o reazionario, il luterano riformista borghese, e il rivoluzionario. Qui si arriva al nodo della sua analisi. Nonostante i campi si definiscano in base a concezioni religiose, la loro base, ovvero le premesse delle loro rivendicazioni, è di natura essenzialmente materiale. Chiarisce Engels:
“Anche nelle cosiddette guerre di religione del secolo decimosesto si trattò, anzitutto, di interessi di classi, molto concreti, molto materiali, e queste guerre furono lotte di classi precisamente come le successive collisioni interne in Inghilterra e in Francia. Se queste lotte di classi portarono allora parole di ordine religiose, se gli interessi, i bisogni, le aspirazioni delle singole classi si nascosero sotto una maschera religiosa, questo non altera per niente la sostanza della cosa e si spiega facilmente con le condizioni dell’epoca.” (12)
Date le concezioni del tempo, l’ideologia rivoluzionaria non poteva che esprimersi in forma di eresia religiosa.
Il rovesciamento di senso operato da Engels emerge chiaramente quando il suo lavoro si confronta direttamente con quello di Zimmermann. Anche Engels sceglie di mettere uno di fronte all’altro i due grandi protagonisti del tempo, Lutero e Müntzer. Tuttavia, nel suo testo questi non sono i portatori di idee innovative, ma piuttosto l’espressione più compiuta di diversi interessi in contrasto tra loro: Lutero era il rappresentante della nobiltà e della borghesia cittadina, che grazie ai suoi modi contadineschi era riuscito in un primo momento a ottenere le simpatie anche dei settori più poveri; Müntzer incarnava invece le aspirazioni plebee in forma più compiuta. Questo non vuol dire che le loro personalità non avessero giocato un ruolo. Al contrario, Müntzer aveva portato alcune aspirazioni dal terreno del desiderio astratto a quello della rivendicazione politica e questo grazie alla sua capacità di legare alcune idee generiche a una precisa classe sociale, quella dei plebei, il settore potenzialmente più avanzato della società, sebbene ancora minoritario. In questa abilità risiedeva quello che Engels definiva l’aspetto rivoluzionario e comunistico della sua predicazione. La sua sconfitta non fu – come postulava Zimmermann – dovuta alla natura troppo avanzata delle sue idee rispetto al tempo, bensì all’insufficiente sviluppo della classe proletaria di cui era espressione. Nelle pagine finali del testo, Engels dice:
“Il peggio che possa accadere al capo di un partito estremo è di essere costretto a prendere il potere in un momento in cui il movimento non è ancora maturo per il dominio della classe che egli rappresenta e per l’attuazione di quelle misure che il dominio di questa classe esige. In questo caso, ciò che egli può fare dipende non dalla sua volontà, ma dal grado raggiunto dai contrasti tra le singole classi e dal grado di sviluppo delle condizioni materiali di esistenza e dei rapporti di produzione e di scambio, su cui poggia lo sviluppo dei contrasti delle classi.” (13)
Ma l’azione individuale, limitata nelle sue possibilità dai rapporti di classe, dall’altra parte è anche il prodotto di quegli stessi rapporti di classe, come Engels sottolinea più avanti:
“Ciò che egli deve fare, ciò che il suo partito esige da lui, a sua volta, non dipende da lui, e neppure dal grado di sviluppo raggiunto dalla lotta delle classi e dalle condizioni su cui è basata questa lotta: egli è legato alle dottrine che ha professato e alle esigenze che ha posto sino a quel momento, le quali, a loro volta, non derivano dalla posizione reciproca in cui le classi sociali si trovano in quel momento, né dal temporaneo e più o meno accidentale stato dei rapporti di produzione e di scambio, ma dall’esame più o meno penetrante che egli compie sui risultati generali del movimento sociale e politico. Egli si trova quindi necessariamente di fronte ad un dilemma insolubile: ciò che egli può fare contraddice a tutto ciò che ha fatto sino ad ora, ai suoi principi e agli interessi immediati del suo partito e ciò che deve fare è inattuabile. In breve, egli è costretto a rappresentare, non il suo partito la sua classe, ma la classe per il cui dominio il movimento è maturo.” (14)
Frasi che superano ogni banalizzazione del materialismo storico come semplice schiacciamento del politico sull’economico. Engels, al contrario, dimostra come, pur in una fase di semplificazione delle relazioni di classe come è un processo rivoluzionario, i modi in cui la dimensione economica influisce sugli altri piani – politico, sociale, giuridico, ideologico, culturale – sono estremamente complessi e dialettici.
Una lezione su come il marxismo consenta di comprendere i processi del passato senza dovere accettare le categorie sviluppate dal passato stesso, come fanno gli storici idealisti; e come il passato possa aiutare a comprendere e delineare le prospettive dei processi storici nei quali siamo immersi. Solo in questa prospettiva il passato è davvero la guida per il futuro.
Note
1. F. Engels, La guerra dei contadini in Germania, Edizioni Rinascita, Roma, 1949, p. 91.
2. Tratto da Ernst Bloch, Thomas Müntzer teologo della rivoluzione, Milano, Feltrinelli 1981, p. 58
3. Wilhelm Zimmermann, Allgemeine Geschichte des großen Bauernkrieges, Stuttgart, Köhler Verlag 1847, p. 5, citato da M. Freiberger, Teologia dell’insurrezione. Thomas Müntzer e la guerra dei contadini: una rivolta di popolo nel cuore dell’Europa, Roma 2020, p.7.
4. Karl Marx, Friedrich Engels, La concezione materialistica della storia, Roma, Editori Riuniti 1973, p. 44.
5. Ibid, p. 49.
6. Ibid. p.54.
7. Ibid. p. 59.
8. F. Engels, Lettera a J. Bloch, 21 settembre 1890.
9. Marx-Engels, Concezione cit., p. 111.
10. Engels, guerra cit. p.27.
11. Ibid. pp. 44-45.
12. Ibid. p. 47.
13. Ibid. p. 134.
14. Ibid.