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9 Maggio 2017Nel fine settimana del 22-23 aprile si è tenuta a Roma l’assemblea nazionale della rete Non una di meno, la terza dopo le due precedenti di Roma (27 novembre) e Bologna (4-5 febbraio) e la prima dopo la giornata di lotta internazionale dell’8 marzo che in Italia, come in decine di altri paesi in tutto il mondo, ha visto mobilitarsi migliaia di donne.
Se la prima assemblea coincideva con la prima grande manifestazione del movimento del 26 novembre e la seconda segnava con entusiasmo il percorso verso lo sciopero dell’8 marzo, l’assemblea di Roma ha marcato invece un significativo arretramento della dinamica di crescita che il movimento ha vissuto fino all’8 marzo, sia in termini di capacità di attrarre e coinvolgere settori esterni ai giri di attiviste organizzate politicamente e sindacalmente, sia in termini di contenuti e proposte avanzate. Questi due aspetti in realtà sono strettamente correlati: fin quando le iniziative di Non una di meno si sono espresse sul terreno della mobilitazione, hanno potuto convergere con una disponibilità di massa a lottare contro la violenza sulle donne e col disgusto nei confronti del sistema che la genera, dando luogo a due momenti di lotta (il 26 novembre e l’8 marzo) dal carattere di massa. Ora che la rete passa a misurarsi con l’obiettivo della stesura di un piano contro la violenza da presentare al governo, viene a mancare la connessione con quel profondo sentimento di indignazione che attraversa la società.
Questo si è espresso in primo luogo numericamente: con una platea che, con non oltre 500 persone, non arrivava ad un quarto di quella presente a febbraio a Bologna; ma anche nella sua composizione, per lo più “addette ai lavori” – attiviste politiche e sindacali e operatrici di centri anti-violenza – senza che vi fossero rappresentate significativamente quelle lavoratrici e studentesse che si sono politicizzate per la prima volta proprio attorno all’8 marzo.
Diritto di aborto e obiezione di coscienza: traditi gli “8 punti per l’8 marzo”
In questo contesto si è consumato un arretramento vergognoso nelle posizioni di Non una di meno, in particolare rispetto alla legge 194 e alla questione dell’obiezione di coscienza. L’abolizione dell’obiezione di coscienza figurava infatti senza mezzi termini tra le rivendicazioni degli “8 punti per l’8 marzo”, proprio quelli che nelle assemblee locali venivano presentati come qualcosa di acquisito e indiscutibile, rispetto al quale non erano ammessi tentativi di riaprire la discussione. Come commissione femminile di Sinistra Classe Rivoluzione nel volantone che abbiamo prodotto per l’8 marzo avevamo indicato la centralità di questa parola d’ordine rispetto ad altre questioni (come il rifiuto delle sanzioni per le donne che abortiscono illegalmente) che, per quanto da difendere, rischiavano di spostare l’attenzione da quello che, tanto più in un paese con tassi di obiezione medi tra il 70 e l’80%, è il vero nodo che mette in discussione l’applicazione della 194 e quindi lo stesso diritto di aborto in Italia, al punto che persino il Comitato per i diritti umani dell’Onu si è dovuto scomodare per denunciare la situazione italiana!
Ora, che non si trattasse di un’acquisizione scontata ma del risultato di uno scontro con le posizioni più moderate all’interno del movimento, ci avevano pensato le donne dell’Udi a evidenziarlo con un comunicato (“Udi verso l’8 marzo”) che, pochi giorni dopo l’assemblea di Bologna, pur rivendicando l’internità alla rete Non una di meno, prendeva le distanze proprio da questo punto, contrapponendo ad esso la parola d’ordine della “regolamentazione dell’obiezione di coscienza”. Con le percentuali di obiezione succitate e dopo tutto il putiferio che è stato scatenato per il concorso della Regione Lazio volto ad assumere due (!) medici non obiettori al San Camillo, le compagne ci perdoneranno se non ci spendiamo in giri di parole nel dire che parlare di “regolamentazione” è una vera e propria presa in giro, e per di più ipocrita, una vuota rivendicazione di facciata che nasconde il mantenimento di uno status quo che piace sia alla destra ciellina che all’anima cattolica del Pd!
Eppure, a Roma, la posizione dell’Udi è stata assunta con una disinvoltura a dir poco imbarazzante, senza accendere alcun dibattito, se non per gli interventi indignati delle nostre compagne nella discussione del tavolo sulla salute sessuale e riproduttiva del sabato e nella plenaria di domenica. Particolarmente ipocrita poi il modo in cui questo cedimento è stato presentato in plenaria, con un report del tavolo che recitava che “l’obiezione di coscienza nel Ssn è illegittima perché lede il diritto all’autodeterminazione delle donne” per poi dire che “il contrasto all’obiezione di coscienza deve agire su un piano politico e culturale messo in atto attraverso pratiche molteplici (…): azione di pressione sulle Regioni, (…) deospedalizzazione dell’aborto attraverso l’incremento della somministrazione della Ru486, (…) abolizione delle sanzioni amministrative per le donne che ricorrono all’aborto autoprocurato”. Insomma, nel report del tavolo sulla salute si è partiti dall’illegittimità dell’obiezione per finire a parlare d’altro e senza neanche riportare la discussione che c’è stata dopo essere stata sollecitata dai nostri interventi.
Un movimento “di lotta e di governo”?
Non riteniamo casuale che un arretramento politico così grave avvenga nel momento in cui prende corpo l’idea di andare ad un tavolo col Dipartimento pari opportunità (Dpo) a presentare il piano anti-violenza, un’idea che vede concordi le donne dell’Udi, che tra l’altro stanno già partecipando a dei tavoli col Dpo, così come le compagne di Communia, in prima linea nel coordinamento dei lavori dell’assemblea di Roma. Che poi la cosa sia stata presentata con accenti radicali, con chi ha detto che la trattativa dovrà andare di pari passo con il rilancio delle mobilitazioni, non ci rassicura affatto. Qualcuno ha addirittura ricordato l’espressione “essere di lotta e di governo” con cui qualche anno fa gli stessi compagni che oggi fanno riferimento a Communia giustificavano la partecipazione di Rifondazione comunista al governo Prodi… sembra un passato tanto tanto lontano ma nella frustrazione di tanti attivisti che ci avevano creduto brucia ancora la sostanza di quella lezione: non sono i movimenti a spostare a sinistra l’asse dei governi ma i governi a spostare a destra la direzione dei movimenti! Tanto più che in questo momento stiamo parlando di un governo che di sinistra non ha nemmeno l’ombra, dello stesso governo (al netto del nome del primo ministro) che ha portato avanti tutti quegli attacchi (Buona scuola, Jobs act) che fertilizzano il terreno in cui maturano i fenomeni di violenza sulle donne; per non parlare del fatto che della delega alle Pari opportunità è titolare Maria Elena Boschi, l’artefice di una controriforma costituzionale che ha suscitato un’opposizione di massa nel referendum del 4 dicembre.
Come compagne di Sinistra Classe Rivoluzione abbiamo sollevato questi nodi in una lettera aperta rivolta a tutte coloro che in questi mesi sono state coinvolte nel percorso di Non una di meno e che qualcuno ha correttamente definito “la lettera delle marxiste”. A Roma siamo intervenute in tre tavoli tematici (Lavoro e welfare, Salute sessuale e riproduttiva, Percorsi di fuoriuscita dalla violenza) presentando apertamente le nostre posizioni e la nostra visione politica generale – che lega la lotta contro l’oppressione femminile e la violenza sulle donne alla lotta contro il sistema capitalista che è alla loro base – e contrapponendo al terreno della trattativa col governo quello del rilancio delle mobilitazioni, perché siamo convinte che sia questo il modo migliore per contribuire a far avanzare il movimento. Dobbiamo però segnalare come questo sia avvenuto in un contesto in cui le posizioni delle altre organizzazioni non sono emerse altrettanto chiaramente: ci chiediamo che senso abbia che una compagna come Eleonora Forenza, eurodeputata e dirigente nazionale di Rifondazione comunista (tra l’altro a capo di una mozione congressuale fino a poche settimane fa) si presenti come “Eleonora di F9”. Si tratta di un piccolo, ma sintomatico, esempio di come, alla fine, il metodo del consenso genera solo una grande confusione in cui sembra che tutte siano d’accordo (tanto poi si fanno i conti nelle mailing list) e non si capisce chi decide cosa, e soprattutto sulla base di quale discussione.
Così a giugno qualcuno andrà a sedersi ad un tavolo col Dpo ma non sappiamo chi, sulla base di quali posizioni (visto che abbiamo scoperto che gli 8 punti sono carta straccia) e a quali condizioni è titolato a trattare… tanto la prossima assemblea nazionale di Non una di meno si terrà a metà settembre.
Quello che abbiamo visto il 26 novembre e l’8 marzo è una cosa seria: la rabbia e l’indignazione di centinaia di migliaia di donne e non solo, di lavoratrici, di studentesse, di giovanissime e giovanissimi, nei confronti del fenomeno odioso della violenza sulle donne e dell’ipocrisia che ci profilano i rappresentanti politici, soprattutto le rappresentanti politiche, della classe che continua ad arricchirsi a spese della stragrande maggioranza. Quella rabbia è ancora lì e tornerà a cercare dei canali attraverso cui esprimersi ma non possiamo accontentarci di esplosioni che poi rientrano a causa di una direzione inadeguata, dobbiamo fare in modo che venga espressa in una lotta senza quartiere, perché è di ciò che c’è bisogno ed è proprio per questo che abbiamo ritenuto e continuiamo a ritenere necessario avanzare le nostre idee rivoluzionarie.