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23 Maggio 2020Sette giornate di contributi versati. È questo il limite minimo per i lavoratori dello spettacolo per accedere agli ammortizzatori sociali previsti dal governo a fronte dell’emergenza coronavirus. Lo ha detto Giuseppe Conte in conferenza stampa, la sera del 13 maggio. Il testo del decreto parla precisamente di “lavoratori iscritti al Fondo pensioni lavoratori dello spettacolo con almeno 7 contributi giornalieri versati nel 2019, cui deriva un reddito non superiore ai 35.000 euro.” Sette contributi giornalieri in un anno: è un numero bassissimo, agli occhi di qualsiasi lavoratore di un altro settore! Il Presidente del Consiglio dei Ministri riconosce implicitamente che il professionista dello spettacolo, in media, non può sperare di averne versate di più. Questo è un dato sconvolgente, ed è da qui che dobbiamo partire, per parlare del problema di questa categoria.
Tra i primi settori travolti dal risvolto economico della crisi da coronavirus c’è stato quello dei lavoratori della cultura: dalla scuola alla musica, dai teatri ai musei, per arrivare a quei locali che della musica dal vivo fanno il fulcro della propria identità. Nell’ambito dello spettacolo, un numero imprecisato di lavoratori si è visto annullare ogni impegno di punto in bianco – e con esso ogni entrata economica. Come negli altri settori, anche qui la crisi ha portato drammaticamente alla luce le falle di un sistema di cui da anni venivano sistematicamente ignorate le criticità.
Quanti sono i lavoratori di questo settore? È un dato molto difficile da quantificare: la categoria non è effettivamente inquadrata in un settore specifico in maniera sistematica. Eurostat, per esempio, li raggruppa insieme ad “autori, giornalisti e linguisti” – e già questo la dice lunga sulla confusione che regna nel campo. Secondo i dati di questo istituto, nel 2018 questo gruppo eterogeneo comprendeva 137,7 lavoratori ogni 1000 abitanti. All’interno di questa cifra non è dato distinguere tra chi esercita una professione propriamente artistica e chi ne esercita una, magari altrettanto creativa, ma di altra natura – come i giornalisti e i linguisti. Inoltre, il conteggio non tiene conto di tutto l’indotto che ruota attorno agli artisti. I lavoratori di questo settore non sono infatti solamente musicisti, cantanti e attori: dietro alle figure che appaiono in scena c’è una moltitudine di altri volti. Uomini e donne che rendono possibile il lavoro di chi è sul palco: facchini, macchinisti, elettricisti, tecnici del suono. Tutti lavoratori che, da un giorno all’altro, si sono ritrovati privi di fonti di guadagno; ma anche privi della possibilità di pianificare in qualche modo la propria sopravvivenza, non esistendo un’idea di quanto l’emergenza si sarebbe prolungata.
In un’Italia che si spaccia per patria della cultura, i primi a pagare il prezzo economico di questa emergenza sono stati proprio i lavoratori di questo settore. Purtroppo non è una novità: la loro situazione è in perenne stasi, è precaria per definizione. Lo è quella degli artisti, rassegnati a essere dipinti come eterni hobbisti, non importa quanto studio ci sia dietro il loro lavoro e quale livello di professionalità raggiungano. Ma lo è anche la situazione di chi lavora dietro le quinte, il cui lavoro è scandito dall’intermittenza delle stagioni di spettacolo, dal calendario degli eventi – e spesso anche dai capricci del meteo.
Quali sono i punti critici del settore? Sono tanti, e sarà impossibile riassumerli in un articolo. Approcciamo i più urgenti, i più vistosi. In primo luogo, a tutt’oggi non esiste una rappresentanza efficace della categoria dei lavoratori: lo spezzettamento, la disarticolazione in miriadi di piccole realtà fanno sì che i lavoratori siano in maggioranza degli autonomi, perennemente in balìa del libero mercato. Un mercato illusorio, in realtà, la cui entità spesso non permette neppure all’autonomo di aprire una partita IVA, e lo costringe ad accettare assunzioni a chiamata, contratti a progetto, pagamenti sotto forma di rimborsi spesa – quando non si finisce direttamente nel fiume carsico del lavoro nero, la modalità più diffusa per chi fa musica dal vivo nei locali. Attenzione però: in questo caso specifico non siamo di fronte a una categoria di sfruttatori (gli esercenti) che si arricchisce sulla pelle di lavoratori (i musicisti, che su questo terreno rivestono di norma anche il ruolo di facchini e tecnici di palco).
Siamo di fronte a un’altra categoria in grave difficoltà, che risente ancor oggi pesantemente della crisi iniziata nel 2008 (non occorre certo un profeta per capire che la chiusura imposta dall’emergenza CoVid sarà il colpo di grazia per molte di queste realtà). Quando vuole fare musica dal vivo, un esercente si ritrova di fronte a spese consistenti: verifica dell’impatto acustico e oneri SIAE assumono un ammontare rilevante, per una piccola realtà. Al netto di tali spese, pensare di assumere un musicista a chiamata, o di pagargli la prestazione occasionale in regola versando pure i contributi, è pura utopia. Il gestore non rientrerebbe mai e poi mai nelle spese. “Quanta gente mi porti?”, è la domanda da barzelletta che ogni musicista si trova periodicamente a dover affrontare. Ma è una barzelletta per cui non ridono né lui, né il gestore del locale: è la barzelletta del libero mercato.
Il sommerso però esiste anche dall’altro lato delle quinte, quello dei tecnici: se nelle situazioni più strutturate i lavoratori hanno un inquadramento di qualche genere, nelle realtà più piccole abbiamo una vastità di situazioni inimmaginabile. Dalla stanzetta per spettacoli gestita dalla piccola associazione culturale con l’impianto che salta continuamente, al negoziante di HiFi che nel tempo libero arrotonda facendo i service (e che magari si porta un amico a cui allunga 50 euro per farsi aiutare), fino a quello che ha fatto il fonico negli anni ’70 e fa le sue prestazioni in nero – in genere, con lo stesso impianto di allora…
È facile capire che un mondo di lavoratori così sfaccettato, fluido, eterogeneo, non inquadrato, sia ricco di situazioni anomale. Anzi, si fonda esattamente sull’anomalia. Al primo intoppo, questo castello di carte malfatto ha vacillato. Moltissimi lavoratori dello spettacolo fino a oggi non sono riusciti ad accedere ai bonus stanziati dall’INPS per fronteggiare l’emergenza economica. È difficile capire esattamente quanti, i dati a disposizione sono pochi, sfuggenti, confusi. Secondo “Il Messaggero” le domande respinte dall’INPS per assenza di requisiti sono state più di quattrocentomila – anche in questo caso, da dividersi tra lavoratori dello spettacolo e altri lavoratori che patiscono l’intermittenza congenita della propria attività. D’altronde, quando il lavoro non è inquadrato, quando non ci sono contributi versati, va da sé che anche quel palliativo che sono gli ammortizzatori sociali risulti inaccessibile. L’abbassamento della soglia a sette giornate di contributi anziché trenta è senz’altro una concessione rilevante. Tuttavia un problema persiste: se si continua a basare l’erogazione dell’ammortizzatore sociale per i lavoratori dello spettacolo sulle giornate contributive versate, resterà esclusa un’enormità di lavoratori – perché i contributi per chi è autonomo viene versato molto raramente. Quanto, non lo si può sapere: una volta su cento forse. Anche quando le cose si fanno in regola, con la loro bella ricevuta, con l’IVA o la ritenuta versata.
Ma esistono anche situazioni ancor più paradossali: chi scrive conosce personalmente storie di musicisti autonomi che, avendo accettato un’ora settimanale di insegnamento nella scuola pubblica, risultano occupati e non hanno diritto a bonus o sgravi, nonostante la paga ovviamente esigua; tecnici specializzati assunti come facchini tramite cooperativa; e via dicendo. Nessuna situazione è così fantasiosa da non trovare spazio nel ventaglio di possibilità che ci si para dinnanzi.
Il Settore Produzione Culturale della SLC CGIL è l’ambito sindacale in cui i lavoratori dello spettacolo dovrebbero trovare una modalità di confronto, di elaborazione di punti rivendicativi chiari, e dunque della strategia da seguire. Tuttavia, i dirigenti sindacali del settore non hanno mai messo in campo dei percorsi concreti, che fossero finalizzati a organizzare e mobilitare questa fascia di lavoratori. Oltre a denunciare l’inefficacia degli interventi messi in campo finora, ben poco è stato fatto. “Dal nostro osservatorio possiamo dire che la maggior parte dei lavoratori atipici è esclusa dalle tutele”, rilevavano i dirigenti sindacali in un comunicato datato 22 aprile. E ancora, in un comunicato successivo, veniva riferito come, in un’intervista a campione effettuata su lavoratori delle Troupes del Cineaudiovisivo, solo il 31, 2% degli intervistati avesse avuto accesso al famoso bonus INPS. E l’avevano avuto in quanto partite iva, non in quanto lavoratori dello spettacolo. È un dato approssimativo, ma realistico. Possiamo immaginare che sia simile – se non peggiore – in moltissimi altri contesti della produzione culturale.
L’abbassamento della soglia a sette giornate contributive versate appare come una grossa concessione, ma di fatto si limita a nascondere sotto il tappeto l’emergenza ininterrotta di una realtà disastrosa. Ed è qui che il sindacato deve focalizzare il suo lavoro! A fronte di un quadro come quello descritto, la richiesta di un intervento da parte del governo non può essere la sola risposta. I governi non hanno mai mostrato particolare disponibilità nel venire incontro alle basilari esigenze della categoria. Il tozzo di pane gettato dall’ultimo decreto non è che un provvedimento tardivo che prova a calafatare uno scafo marcio che imbarca acqua da decenni. Accontentarsi di questa concessione significherebbe abbandonare ancora una volta a se stessa una fascia di lavoratori estremamente frammentata, che rimane sprovvista delle tutele più elementari.
Il settore dello spettacolo è stato tra i primi a fermarsi e sarà l’ultimo a ripartire. La ragione è comprensibile, e per molti versi condivisibile: si tratta di una realtà che per funzionare ha un bisogno congenito di creare assembramenti, per lo più in luoghi chiusi. Ma è proprio qui che arriviamo a uno dei nodi fondamentali del nostro pensiero: la cultura non può essere in balia dei capricci del libero mercato.
I lavoratori che operano in questo campo, che vogliano o meno piegarsi alla standardizzazione, si trovano a condurre la propria esistenza in un contesto di guerra tra poveri. In questo settore, diritti, regole, sicurezza, sono costantemente disattesi. E anche qui, come ovunque, l’atomizzazione dei lavoratori è il consueto antidoto contro la lotta di classe. Tutti autonomi, tutti concorrenti, tutti soli nell’affrontare la propria emergenza (tant’è che sui social, le sole piattaforme di discussione utilizzabili ora, è già scattato un meccanismo di colpevolizzazione verso chi ha sollevato dubbi sulla risolutività delle ultime concessioni). Ma per molti è già chiaro che ormai si è aperta una stagione in cui la difficoltà congenita che la categoria ha ad unirsi e organizzarsi dev’essere superata.
Per questo è necessaria una piattaforma che coinvolga e sia in grado di mobilitare l’intero settore. I primi elementi rivendicativi da sviluppare potrebbero essere i seguenti:
1) Inquadramento della categoria in un chiaro e ben definito settore, gestito con regole che tengano conto della peculiarità del lavoro dello spettacolo (che è per sua natura intermittente), e che consentano a ciascuno di questi lavoratori (dal primo violino all’elettricista, da chi suona il liscio a chi mette in scena Molière) di avere gli stessi diritti e le stesse tutele.
Salario minimo garantito di 1200 euro per tutti i lavoratori del settore, siano essi autonomi o dipendenti.
2) Ripensare la gestione dei permessi per gli spettacoli dal vivo, musicali e teatrali, superando l’obsolescenza della normativa vigente. Serve un sistema di regole che consenta anche alle realtà più piccole di proporre una programmazione dal vivo nel pieno rispetto delle tutele e dei diritti dei lavoratori dello spettacolo.
Aboliamo la Siae e tutti i suoi balzelli medievali!
Non esiste altra strada: i lavoratori del settore si devono organizzare, utilizzando in primo luogo l’ambito sindacale. Devono poter discutere e stabilire precise rivendicazioni che compattino la categoria. La risposta ad una assurda condizione professionale deve sfociare in un serio percorso di mobilitazione che punti alla conquista di ciò che i governi non hanno mai voluto concedere in tutti questi decenni. Non serve elemosina, ma diritti.