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Medio Oriente – La guerra si allarga, solo la lotta di classe può fermarla!

di Roberto Sarti

 

Non passa giorno in cui i governi e le diplomazie occidentali non proclamino il loro impegno volto a impedire un allargamento del conflitto in Medio Oriente. A parole, nessuno vuole una guerra in Medio Oriente; nei fatti, la situazione si sta evolvendo nella direzione opposta.

Il massacro dei palestinesi a Gaza continua senza sosta; in Cisgiordania i coloni hanno sempre più campo libero; al confine tra Libano e Israele si intensificano gli scontri; bombardamenti e attacchi di droni non riguardano più solo la Siria e l’Iraq ma si estendono al Pakistan; soldati Usa vengono uccisi in Giordania; gli Houthi costituiscono una pericolosa spina nel fianco per l’imperialismo occidentale.

Il Medio Oriente è divenuto il terreno dove tutte le contraddizioni prodotte dalla crisi del capitalismo si preparano a esplodere nella maniera più incontrollata. Per i comunisti è necessario comprendere i punti nevralgici dello scontro.

Gli attacchi degli Houthi

All’improvviso, il mondo si è dovuto occupare di un paese che molti non saprebbero collocare sul mappamondo, lo Yemen. Il motivo: la minaccia degli Houthi al libero commercio.

Gli Houthi sono espressione della consistente minoranza sciita del paese (almeno il 45% della popolazione), che abita in prevalenza nel nord e nell’ovest del paese. Dopo il crollo dello stalinismo all’inizio degli anni ’90, lo Yemen viene riunificato, nel Sud viene restaurato il capitalismo e il paese cade sotto l’influenza del potente vicino saudita, storico alleato dell’imperialismo USA.

La discriminazione degli sciiti è sistematica e la resistenza si raggruppa attorno al movimento religioso Zaydita (una variante dello sciismo) della “gioventù credente” Houthi, che guadagna popolarità connotandosi come antiamericano e antisraeliano nelle manifestazioni contro l’invasione dell’Iraq nel 2003.

La primavera araba del 2011 in Yemen si rivolge contro il governo filosaudita fino al suo rovesciamento nel gennaio del 2015, che porta alla presa del potere da parte degli Houthi.

Il fatto che ai propri confini si sia instaurato un regime filoiraniano non può essere tollerato dalla monarchia saudita. In Yemen si svolge un atto dello scontro fra le due principali potenze regionali (Iran e Arabia Saudita), assieme a Israele. Nel marzo 2015 Ryad forma una coalizione militare che coinvolge varie monarchie del Golfo e paesi africani e invade lo Yemen. Tale intervento ha prodotto almeno 150 mila morti e due milioni di profughi, ma dal punto di vista dell’imperialismo saudita è stato un fallimento: non è riuscito a piegare gli Houthi, il cui controllo di metà del paese è sancito dagli accordi di pace del 2022.

Forti della loro sostanziale vittoria, fin dall’inizio dell’invasione di Gaza da parte di Israele, gli Houthi hanno annunciato che avrebbero iniziato delle azioni militari in solidarietà con i palestinesi. In tutto il mondo arabo, sono stati gli unici a farlo. Se i primi attacchi, diretti al suolo israeliano sono stati facilmente fermati dallo scudo aereo dell’IDF (Forze di difesa israeliane), quelli successivi alle navi in transito verso il Mar Rosso dallo stretto di Bab el Mandab hanno avuto un esito ben diverso.

Una dopo l’altra, le principali compagnie di trasporto marittimo hanno deciso di deviare le loro navi e doppiare il Capo di Buona Speranza.

La condanna delle comunità occidentale è stata unanime: come osano questo straccioni Houthi minacciare i profitti delle multinazionali? Si calcola che solo l’Italia abbia perso 8,8 miliardi di euro di mancate esportazioni: la consegna elle merci vale enormemente di più dei 10mila bambini palestinesi uccisi nei quasi quattro mesi di guerra. Dal 12 gennaio scorso, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno lanciato una serie di attacchi missilistici contro le aree controllate dagli Houthi. L’operazione non è servita a debellare il potenziale bellico dei ribelli, ma ha scatenato manifestazioni di massa contro gli americani e Israele a Sana’a e altre città dello Yemen.

Washington dovrebbe saperlo per esperienza: con i bombardamenti aerei non si può vincere una guerra contro un popolo intero. Gli Houthi non sono degli straccioni, ma un movimento guerrigliero disciplinato e temprato in battaglie decennali. Con l’attacco allo Yemen, gli imperialisti hanno fatto un ennesimo errore di calcolo, guidato dalla miopia consueta con cui gli USA operano le loro scelte negli ultimi decenni.

Dal 7 ottobre, Stati Uniti e Israele hanno portato avanti decine di operazioni in tutta la regione. In alcuni casi, vere e proprie esecuzioni sommarie di dirigenti di Hamas o di milizie filoiraniane in Libano, Siria e Iraq. Mentre scriviamo, il segretario di Stato Blinken parla di una risposta “forte e prolungata nel tempo” all’uccisione dei tre soldati americani al confine tra Giordania e Siria. I falchi dell’amministrazione americana chiedono di usare la mano forte contro l’Iran. Biden tentenna, ma condivide la necessità della classe dominante americana: quella di limitare l’influenza dell’Iran nella regione. Le divisioni sono sui tempi e i metodi, ma la direzione è decisa.

Il Libano

L’escalation del conflitto è del tutto implicita anche nelle azioni dell’esercito israeliano. Nei giorni successivi al 7 ottobre, Netanyahu avrebbe voluto lanciare un attacco anche a Hezbollah in Libano. Pare sia stato dissuaso da Washington, che temeva un insuccesso dell’invasione, memore della sconfitta di Israele nella guerra in Libano del 2006. Ciò non ha interrotto le schermaglie e gli attacchi “mirati” di Israele, nei quali non ha lesinato l’uso di bombe al fosforo, come contro la città di Dheira nel sud del Libano, e che hanno provocato oltre 200 morti tra i miliziani di Hezbollah. Lo scorso 15 gennaio, l’IDF ha ritirato diverse divisioni dalla Striscia di Gaza e ha trasferito un’unità speciale nel nord di Israele. Il capo di Stato Maggiore israeliano, Herzl Halevi, ha affermato che “le possibilità di una guerra nel nord sono più alte che mai”, aggiungendo che l’IDF “sta aumentando la sua preparazione allo scontro. Abbiamo imparato molte lezioni dai combattimenti a Gaza, molto rilevanti per i combattimenti in Libano”.

Se non è ancora scoppiata una guerra su larga scala è per l’atteggiamento di estrema cautela di Hezbollah e del suo leader Nasrallah. Nemmeno dopo l’omicidio da parte dell’IDF di Saleh Al-Arouri, numero due di Hamas a Beirut, avvenuto lo scorso 2 gennaio, Nasrallah ha ordinato una rappresaglia.

Da una parte l’atteggiamento del “Partito di Dio” è simile a quello di tanti altri governi della regione: a parole fuoco e fiamme contro Israele, ma nessuna azione concreta realmente intrapresa.

Dall’altra, gli anni al potere hanno creato una distanza fra le masse ed Hezbollah. La coalizione “8 marzo”, di cui quest’ultimo fa parte, governa dal 2018 (pur se da metà 2022 con un esecutivo dimissionario). Dal 2019 il Pil libanese si è contratto del 40%, l’inflazione nel 2023 è stata del 1.971% e la valuta nazionale ha perso il 98% del valore. Nel 2019 il paese dei Cedri è stato attraversato da una mobilitazione di massa con caratteristiche rivoluzionarie, che ha fatto tremare tutto l’establishment. Hezbollah si è schierata apertamente contro i manifestanti e ha dispiegato le sue milizie paramilitari per disperdere i cortei. La conseguenza è stata la sconfitta di Hezbollah e dei sui alleati alle elezioni politiche del maggio 2022.

Al di là della retorica antimperialista, questi partiti religiosi, una volta al potere, svelano la loro vera natura di formazioni a servizio del capitalismo, di cui non possono che gestire la crisi a spese delle masse. Con l’aggravamento della crisi regionale sarà sempre più difficile per Nasrallah evitare un coinvolgimento diretto. Ci arriva tuttavia in una situazione diversa da quella del 2006, quando poteva godere di una popolarità ben più alta.

La campagna contro l’UNRWA

La strategia dell’imperialismo occidentale, da quando è iniziata l’invasione di Israele, ha seguito una linea precisa, L’invito a Israele a “moderare” le azioni contro i civili, la “preoccupazione” per la sorte dei minori, l’impegno a una soluzione “negoziata”: il tutto per dissimulare, senza mai sospenderlo, l’appoggio a Israele, sempre più impopolare presso i giovani e i lavoratori in Europa e in America.

D’altra parte, anche la sentenza della Corte internazionale di giustizia (di cui parliamo in un articolo su questo giornale), che non impone a Israele alcunché di concreto, va in questa direzione, è uno specchietto per le allodole per le masse in tutto il mondo.

L’uccisione da parte dei bombardamenti israeliani di 142 dipendenti dell’UNRWA (l’agenzia ONU per i profughi palestinesi) aveva suscitato una certa indignazione nell’opinione pubblica.

Come distogliere l’attenzione da questi fatti incresciosi? Fabbricare un dossier (made in Israel) secondo il quale ben 12 dipendenti UNRWA hanno partecipato all’attacco di Hamas, quando il totale dei lavoratori dell’agenzia Onu a Gaza è… 12mila. Risultato: Usa, Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna, fra gli altri, sospendono i finanziamenti all’UNRWA. Con tanti saluti ai bambini di Gaza che stanno morendo di diarrea. La politica dei due pesi e due misure adottata dall’Occidente non potrebbe essere più ripugnante.

Spaccature nella società israeliana

L’instabilità nella regione si accompagna alla crescente instabilità nella società israeliana. Nonostante nei quattro mesi di bombardamenti su Gaza sia stato sganciato l’equivalente di 65mila tonnellate di esplosivo (pari a tre volte la bomba che colpì Hiroshima) e almeno 300mila case siano state completamente distrutte, l’IDF non è riuscita a eliminare Hamas nemmeno dal nord di Gaza, dove continuano a esistere sacche di resistenza.

L’IDF afferma di avere ucciso circa 9mila combattenti palestinesi. Prima del 7 ottobre si stimava che il numero totale di miliziani, tra quelli di Hamas e quelli della Jihad islamica, ammontasse a una cifra fra i 40mila e i 50mila. Dall’altra parte della barricata alla fine di gennaio i soldati israeliani uccisi erano oltre 200, quelli feriti circa mille. A questi si aggiungono i 334 militari uccisi nell’attacco del 7 ottobre.

Netanyahu parla di uno sforzo bellico che continuerà per tutto il 2024, ma quella a Gaza è semplicemente una guerra impossibile da vincere per Israele.

È un tipo di conflitto diverso da quelli a cui è abituata la società israeliana. Raramente, nella storia del paese, una guerra è durata così a lungo, se si eccettua quella in Libano dal 1982 al 1985. è dalla guerra del Kippur nel 1973 che non veniva richiamato un numero così alto di riservisti, 300mila. Tutto ciò sta avendo effetto pesanti per l’economia. Secondo il ministero del Lavoro, circa il 18% dei lavoratori è stato sottratto dal mercato del lavoro. E non si tratta solo di lavoratori israeliani. Ad esempio, il 65-70% dei lavoratori del settore edile sono palestinesi. Alcuni settori economici hanno registrato un calo delle entrate di oltre il 70% e le imprese più piccole sono fra le più colpite.

Le difficoltà militari ed economiche si riflettono in spaccature aperte e crescenti nella politica e nel governo stesso. È possibile distruggere Hamas e al tempo stesso liberare gli ostaggi? Chi dovrebbe amministrare Gaza una volta conclusa la guerra?

Gantz, principale leader dell’opposizione fino al 7 ottobre e ora parte del gabinetto di guerra, spinge per una trattativa con Hamas. Riflette le pressioni internazionali e dell’opinione pubblica legata ai familiari degli ostaggi.

Dall’altra parte vediamo la destra religiosa, che con 12 ministri (su 30 componenti l’esecutivo) ha partecipato a una “manifestazione per la colonizzazione ebraica di Gaza” lo scorso 28 gennaio a Gerusalemme, assieme a migliaia di estremisti. “È terra israeliana” ha spiegato il ministro per la Sicurezza Ben Gvir, appoggiando il piano di “emigrazione forzata” dei palestinesi dalla Striscia.

Ad essi è legato il futuro politico (e non solo, visti i processi pendenti) di Netanyahu, che sa che i suoi giorni sono contati e per questo continua a parlare di guerra fino alla vittoria totale.

Su queste basi, i tentativi di arrivare a un accordo tra le parti, come quello del recente incontro di Parigi tra Cia, Mossad, Qatar ed Egitto (?!), sono solo fumo negli occhi. Ogni proposta formulata in questi mesi chiede ad Hamas di liberare tutti gli ostaggi, ma non prevede un cessate il fuoco permanente. In poche parole, una capitolazione.

Chi crede che sia possibile dopo il massacro di questi mesi, la soluzione dei due Stati all’interno del capitalismo, propagandata con insistenza dalla Casa Bianca, non è solo un illuso, è un traditore della causa del popolo palestinese e dei popoli arabi.

L’estensione del conflitto a tutta la regione svela l’utopia del pacifismo. L’impotenza della Corte internazionale di Giustizia chiarisce l’inutilità della diplomazia. All’estensione della guerra imperialista i lavoratori devono contrapporre la guerra di classe, nel Medio Oriente e in tutto il mondo. Solo la classe operaia, rovesciando i governi delle grandi potenze e dei loro lacchè nella regione, può fermare il massacro.

La nostra parole d’ordine è, oggi più che mai: Intifada fino alla vittoria!

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