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12 Ottobre 2023Siamo ancora in tempo per fermare il cambiamento climatico per mano antropica con tutte le sue conseguenze? È la domanda che molti scienziati e climatologi si stanno ormai ponendo negli ultimi mesi. È sempre più evidente nel mondo scientifico come la crisi climatica si sia approfondita, aprendo la strada alle peggiori ipotesi simulate dall’IPCC, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite.
Basta guardare la triste realtà per accorgersi di come gli avvenimenti climatici estremi abbiano avuto una fortissima accelerata negli ultimi anni. Il 2023 è stato un anno record per gli avvenimenti distruttivi metereologici in Italia. L’alluvione in Romagna ha distrutto un territorio e un tessuto sociale-produttivo. Lo stesso vale per le violente tempeste nel Nord Italia quest’estate, che hanno decimato il settore agricolo, oltre ad aver causato miliardi di danni alle abitazioni e alle infrastrutture. Per non parlare poi della siccità nei primi mesi dell’anno, che ha creato non pochi problemi, oppure dei roghi alimentati dalle temperature estreme. Potremmo tranquillamente dire che l’Italia e il bacino del Mediterraneo stanno andando incontro ad un processo di tropicalizzazione, determinato da forti periodi di siccità e forti periodi di piogge intense, come i modelli di studio dell’IPCC hanno ipotizzato in passato.
Ovviamente il problema non riguarda solo l’Italia, ma è globale e come tale dovrebbe essere affrontato. Le varie potenze mondiali, invece, fanno di tutto per non affrontare la questione con un approccio globale e sfruttano la transizione ecologica come arma nelle guerre commerciali a suon di dazi e scontri per l’accaparramento delle materie prime. La crisi del capitalismo odierna, con l’inflazione alle stelle e i conflitti tra blocchi imperialisti, sta mettendo a nudo i reali interessi delle varie potenze nel gestire la questione climatica. Dopo anni di stucchevole propaganda green, assistiamo oggi ad un fuggi fuggi generale, con i vari programmi di riconversione ecologica che vengono rimessi in discussione. Gli interessi del grande capitale e i profitti vengono prima dell’interesse collettivo, della salvezza del pianeta e dell’umanità.
Anche l’Unione Europa (UE), che a parole si è posta negli ultimi anni come leader mondiale delle politiche di “transizione”, comincia a rimettere in discussione una serie di obiettivi, spianando la strada a un prolungamento della vita delle fonti energetiche fossili e rimandando ad un lontano futuro il predominio delle fonti rinnovabili. La doccia fredda dell’inflazione, la crisi energetica seguita alla guerra in Ucraina e la mancanza di materie prime strategiche (in primis le terre rare utili alla conversione ecologica) hanno determinato questa brusca frenata negli obiettivi dichiarati di “transizione”. La posizione della UE in questo momento non è che il riflesso incondizionato del padronato europeo di fronte a una crisi e uno scontro globale tra grandi potenze (USA e Cina in primis) che rischia di soffocare l’economia europea. È il timido grido di lamento delle borghesie europee che cercano di stare a galla in una burrasca.
L’esempio più lampante, dopo la decisione di inserire il gas e il nucleare tra le fonti energetiche “pulite”, viene dal dietrofront rispetto agli obiettivi contenuti nel regolamento europeo sulle emissioni denominato “Euro 7”. La Germania ha totalmente rimandato sia l’obiettivo di bandire le caldaie a gas, sia quello sull’efficientamento energetico degli edifici. Anche la Francia ha rallentato su tutta una serie di politiche “green”. Seppur non manchino posizioni differenti, la nuova linea europea è una chiara vittoria di quei settori della borghesia europea che chiedono da tempo di mettere un freno alle politiche a favore delle rinnovabili per salvare la produzione e i profitti delle industrie inquinanti. Dal Trilateral Business Forum, che riunisce le associazioni industriali di Germania, Italia, Francia, è uscita la richiesta di rivedere tutte le politiche ambientali della UE perché troppo “ambiziose”.
Non è che le politiche del Green New Deal europeo rappresentassero una valida soluzione al problema del riscaldamento globale. In molti casi si trattava di incentivi alle imprese europee in cui gli elementi di greenwashing erano preponderanti. Diverse misure avevano un carattere più protezionista che ambientalista, volto ad escludere dai mercati europei le merci provenienti da altri paesi con una legislazione ambientale “più permissiva”, soprattutto in funzione anti-cinese. Tutti i provvedimenti prevedevano poi di scaricare i costi della “transizione” sui lavoratori, costringendoli per legge ad acquistare nuove caldaie o nuove automobili meno inquinanti a proprie spese. Ciò nonostante, le deboli borghesie dei diversi paesi europei, in difficoltà a competere con rivali più potenti come Cina e USA, oggi non possono più permettersi nemmeno questo tipo di politiche di facciata.
L’Italia è tra i primi paesi che hanno spalancato la strada alla rivisitazione degli obiettivi “green” sulla base delle richieste degli industriali. Questo era ben chiaro già con il governo Draghi, ma appare ancor più evidente oggi con il governo Meloni. Oltre alla propaganda di destra che strizza l’occhio ai negazionisti del cambiamento climatico, la politica di questo governo è un vero e proprio schiaffo alla questione ambientale: basti vedere i vari provvedimenti ministeriali sulle grandi opere infrastrutturali e ancor di più gli obiettivi proposti nel Piano Mattei e nel PNIEC (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima). Questi piani frenano su tutti gli obiettivi relativi alle energie rinnovabili e puntano invece tutto sul ruolo centrale del gas naturale per il futuro. L’hub del gas sud-europeo, con l’arrivo di nuovi gasdotti dall’Africa e dai paesi arabi e nuovi rigassificatori per il gas liquido americano, è al centro del tanto declamato Piano Mattei in ambito energetico e dei progetti di ENI e SNAM.
Il ruolo centrale del gas viene ancor più evidenziato dal fortissimo impegno in direzione dello stoccaggio sotterraneo della co2 (CCS), che da anni è nei piani delle aziende inquinanti, e dell’idrogeno miscelato al gas, tecnologia che SNAM ha cominciato a sperimentare. Il CCS è una tecnologia che in questi anni ha avuto scarsa applicazione ed è stata del tutto fallimentare, non solo per i rischi associati, ma soprattutto per il deficit energetico che comporta: per farla funzionare, si rischia di consumare più co2 di quella che viene immagazzinata. Il governo Meloni, su spinta di ENI e SNAM unite in una joint venture, ha aperto la strada alla sperimentazione del CCS nei vecchi giacimenti depleti di idrocarburi al largo di Ravenna, ma è solo il primo passo in questa direzione, visto che l’obbiettivo è di sfruttare gli ex giacimenti non solo nel Mar Adriatico, ma anche sulla terraferma, Pianura Padana in primis. Con questa operazione il governo si propone non solo di smaltire nel sottosuolo le emissioni dei settori climalteranti italiani, ma anche di diventare un hub di smaltimento per tutta l’Europa. Una vera e propria discarica di co2, che porterebbe benefici solo ai bilanci di ENI e SNAM.
Anche per quanto riguarda l’idrogeno, sono gli interessi delle multinazionali energetiche ad essere al centro della politica del governo. Per produrre idrogeno verde (da fonti rinnovabili) a prezzi competitivi rispetto all’idrogeno grigio (prodotto da fonti fossili), le tecnologie e le infrastrutture esistenti richiederebbero fortissimi investimenti che i capitalisti non sono disponibili a fare. È invece molto più conveniente puntare all’idrogeno blu, che viene prodotto sempre da fossili, ma le cui emissioni di co2 dovrebbero essere catturate e stoccate sottoterra con il sistema CCS. In questo modo ENI, SNAM e le altre multinazionali energetiche potrebbero tranquillamente continuare nella produzione ed estrazione di idrocarburi, senza dover passare alle energie rinnovabili. L’utilizzo dell’idrogeno in miscela al gas è un nuovo fronte di business che comincia a prendere piede. In questi giorni ENI e SNAM stanno negoziando con la Baviera un accordo di fornitura di miscela gas-idrogeno che dovrebbe passare proprio dall’hub italiano.
Questa politica industriale è ben spiegata da Francesco Gattei, chief financial officer del gruppo ENI, al Corriere della sera: “ENI sta costruendo modelli di business al servizio di una transizione realistica che si compie tramite il No al carbonio e non il No agli idrocarburi. Il modello di chi ha disinvestito dall’Oil & gas per investire nelle rinnovabili non funziona. I due mondi, strettamente collegati, devono andare in parallelo: la transizione è un cambiamento in continuità.”
La politica del governo Meloni attorno al ruolo del gas, del CCS e dell’idrogeno è l’espressione più cristallina dei desiderata del padronato, che sempre più andrà nella direzione di abbandonare le cosiddette politiche di “transizione” climatica e di influenzare l’opinione pubblica ridimensionando la questione climatica nel nome della produzione capitalista. È ancora difficile dire se tutto il Green New Deal europeo finirà nel cestino, ma è ovvio che gli ultimi sviluppi vanno in quella direzione, proprio a causa della crisi profonda dell’eurozona.
Questa situazione. deve far riflettere sempre più il movimento ambientalista a livello italiano ed internazionale, a partire dai Friday For Future. In più di una occasione le politiche europee sono state osannate e ora si dimostrano realmente per quello che sono: del tutto piegate in nome del profitto delle industrie inquinanti.
Cercare un dialogo con la classe dominante e con i governi borghesi in nome di promesse per il futuro, non porta da nessuna parte. Quello che era un movimento di massa è stato ridotto da una parte a piccole azioni dimostrative e di disobbedienza e dall’altra alla routine semestrale dello sciopero climatico. Su queste basi il movimento non ha futuro e verrà schiacciato dalla triste realtà delle politiche capitaliste europee. Ecco perché serve un’inversione totale, sia organizzativa che programmatica. Solo un programma anticapitalista, che sappia collegare le rivendicazioni ambientali alle rivendicazioni della classe lavoratrice, a partire da quelle contro l’inflazione e i bassi salari, può portare ad un movimento di massa tra giovani, lavoratori e sfruttati. Per la crisi climatica non ci sono vie d’uscita se non quella dell’abbattimento rivoluzionario del capitalismo.