2020: un mondo in fiamme
14 Gennaio 2020Intervista a un attivista studentesco russo – Il futuro ci appartiene!
20 Gennaio 2020L’uccisione di Qassem Soleimani, capo delle milizie al-Quds (le forze speciali) dei Guardiani della Rivoluzione e uomo forte del governo di Teheran, rappresenta un punto di svolta nello scenario mediorientale.
L’attentato all’aeroporto di Baghdad di cui è stato oggetto, rivendicato apertamente dagli Stati uniti, dove sono morti anche Abu Mahdi al-Mohandes, capo delle Forze di mobilitazione popolare (milizia sciita filoiraniana), e altre otto persone, è un vero e proprio atto di terrorismo internazionale. Naturalmente, essendo stato commesso dal “simbolo di democrazia nel mondo”, è stato considerato da molti massmedia come un “azione difensiva” nei confronti un pericoloso terrorista, che avrebbe, nelle parole di Trump, ucciso centinaia di cittadini americani.
Ancora una volta nella narrazione della classe dominante vale la logica dei “due pesi e due misure”. I veri terroristi sono gli Usa, che con l’aiuto delle alte potenze occidentali hanno invaso l’Iraq nel 2003, trascinandolo nel caos. Dal 2003, come conseguenza dell’invasione sono morti oltre un milione e mezzo di iracheni. Immaginate quale sarebbe la reazione dei mass se, come “azione difensiva”, l’Iraq desse l’ordine di uccidere Dick Cheney (il segretario di Stato dell’epoca).
L’uccisione di Soleimani è giunta dopo una settimana di alta tensione, che aveva raggiunto il culmine con l’assalto all’ambasciata Usa a Baghdad da parte di decine di migliaia di persone, guidata dai gruppi filoiraniani. Tale assalto era stato preceduto da un lancio di missili da parte delle milizie Hezbollah iraniane verso la base Usa a Kirkuk, seguite da un attacco aereo americano verso postazioni militari irachene. Già nei mesi precedenti Trump aveva minacciato ritorsioni contro l’abbattimento di un drone americano sui cieli iraniani, nel giugno scorso, e aveva assistito all’attacco spettacolare contro la raffineria più grande dell’Arabia saudita (suo principale alleato) a settembre. L’attacco di matrice iraniana per un mese ha ridotto del 50% la produzione petrolifera di Riad.
Gli spettri dell’assedio all’ambasciata usa a Teheran nel 1979 (che fu uno dei fattori della mancata rielezione di Jimmy Carter) e dell’uccisione dell’ambasciatore Usa a Bengasi (che fu fatale a Hillary Clinton) devono aver fatto suonare un campanello di allarme alla Casa bianca.
Ci sono anche ragioni interne. Trump ha bisogno di deviare l’attenzione dalla procedura di impeachment nei suoi confronti, che sta entrando nel vivo, e conseguire un successo di immagine utile per la campagna per le presidenziali che durerà per tutto il 2020.
I limiti della potenza americana
Con questo attacco gli Usa hanno segnato un punto a loro vantaggio. Tuttavia ciò avviene in un contesto di progressivo indebolimento della potenza americana in Medio oriente. Il bilancio della presenza in Afghanistan è disastroso: dopo quasi vent’anni di occupazione del paese da parte delle truppe Nato, l’accordo di pace con i Talebani non è mai stato così lontano. Il fantoccio di Washington, Ashraf Ghani, ha dovuto attendere tre mesi per essere dichiarato vincitore delle elezioni presidenziali (tenutesi il 29 settembre). Il suo rivale e attuale Primo ministro, Abdullah Abdullah, ha contestato il risultato e ha ostentato la sua presenza alle commemorazioni funebri di Soleimani, all’ambasciata iraniana a Kabul.
Il ritiro delle truppe americane dalla Siria, avvenuto lo scorso ottobre, non ha solo dato il via libera all’invasione turca e alla conseguente fine dell’autonomia del Rojava, ma ha anche esplicitato il fallimento dell’intervento di Washington nel paese.
In Iraq, l’invasione del 2003 ha portato al rovesciamento di Saddam Hussein, ma non lo ha affatto portato nell’orbita occidentale. Particolarmente dopo il ritiro di gran parte delle truppe a stelle e strisce (2011) il governo di Baghdad è stabilmente sotto l’influenza di Teheran. Dopo l’attentato a Soleimani, il parlamento iracheno ha votato 170 a 0 (assenti i partiti kurdi e sunniti) per l’espulsione delle truppe Usa dal suolo del paese!
Lo scontro nel Golfo Persico
La classe dominante americana comprende che la presenza in Medio oriente consuma risorse che sarebbe meglio destinare in Asia, teatro principale dello scontro con la Cina, ma l’arrivo di Trump alla Casa bianca ha visto un cambiamento di strategia. Obama aveva cercato un disimpegno attraverso un accordo sul nucleare iraniano, mentre Trump quell’accordo ha stracciato e ha seguito la strada dello scontro diretto (su consiglio dei suoi alleati sauditi e israeliani). Il problema di questa strategia di deterrenza è che necessita di una presenza militare adeguata nell’area ed è quindi implicitamente contraddittoria.
La politica saudita, inoltre, non ha avvantaggiato Trump. Perseguendo l’ambizione di espandere il proprio ruolo di potenza regionale, nel 2017 i sauditi hanno operato una spaccatura nel Consiglio di cooperazione del Golfo (che comprende sei Stati della penisola) e introdotto una serie di sanzioni nei confronti del Qatar, perché si rifiutava di interrompere i rapporti con Teheran,
Il risultato è che Doha si è gettata nelle braccia dell’Iran, sviluppando con quest’ultimo strette relazioni economiche e soprattutto militari. L’intervento saudita in Yemen d’altra parte ha irritato l’Oman, confinante con lo Yemen e preoccupato dalla politica espansionistica di Riyad. L’Oman è decisivo per il controllo dello stretto di Hormuz (da cui passa il 30% del greggio del pianeta).
Ma ancora più significativo è il fatto che il Qatar ospiti “una delle basi più longeve e strategicamente posizionate dell’esercito degli Stati Uniti sul pianeta” (Washington Times), quella di al-Udeid con 11mila soldati, da dove sono partiti gli attacchi aerei all’Iraq del 1991 e del 2003. Costituisce la base più grande del Medio oriente, ma per la prima volta gli Stati uniti potrebbero non utilizzata a piacimento.
Problema amplificato nella base di Incirlik, in Turchia, dove sono stanziati 5mila effettivi della Nato e degli Usa. Il ministro degli esteri di Ankara, Mevlüt Çavuşoğlu ha dichiarato recentemente che “gli Stati Uniti potrebbero essere esclusi dall’uso di due basi aeree strategiche [Incirlik e Kurecik] come rappresaglia a possibili sanzioni statunitensi contro il suo paese” riguardo all’acquisto dei missili contraerei S-400 di produzione russa. (Hurriyet, 11 dicembre 2019)
Se un’invasione via terra dell’Iran da parte di Washington è da scartare, vista la forza dell’esercito iraniano, la geografia impervia dell’Iran stesso, ma soprattutto l’opposizione dell’opinione pubblica americana a nuove avventure militari, anche una campagna di attacchi aerei potrebbe dunque presentare problemi di non facile soluzione.
Lo scontro continuo all’interno dell’amministrazione americana è un altro fattore che rende la strategia dei Washington difficile da prevedere. Il Consigliere per la sicurezza nazionale (uno dei collaboratori più stretti del presidente), John Bolton, è stato licenziato da Donald Trump proprio per la sua linea bellicista estrema nei confronti dell’Iran.
I critici non sono mancati anche per quest’ultimo raid sull’aeroporto di Baghdad. Le critiche di esponenti del Pentagono o della Cia non sono su questioni di principio. Tantomeno quelle dei Democratici: ricordiamo che fu proprio Obama ad autorizzare le esecuzioni extragiudiziali e il primo a fare ampio utilizzo dei droni in Afghanistan.
Trump vorrebbe che fossero altri a contenere l’avanzata della Repubblica islamica. Israele fa la sua parte. Nella più totale impunità ha lanciato centinaia di attacchi sul territorio siriano e iracheno dal 2011 ad oggi (tali attacchi hanno fatto 47 vittime in Iraq nel solo 2019), ma gli attacchi aerei non sono sufficienti. Il problema è che la Nato non è più il servo fedele degli Usa di un tempo: la Turchia, secondo esercito dell’Alleanza, persegue una propria politica. Tutte le chiacchiere su una Nato araba (o meglio del Golfo, come piacerebbe a Trump) sono naufragati con l’intervento saudita in Yemen.
L’indebolimento relativo della potenza statunitense ha aperto la strada alle ambizioni imperialiste di tutte le potenze regionali: Iran, Turchia, Arabia Saudita, Israele… che combattono da anni una guerra aperta o per procura che ha completamente destabilizzato l’intera regione, gettando nella barbarie un paese come la Siria.
Ritorna la lotta di classe
Per anni le masse sembravano come pedine in un gioco a scacchi spietato e criminale dove, oltre agli Stati uniti, si era inserita anche la Russia di Putin.
Negli ultimi mesi lo scenario è cambiato totalmente e ha fatto di nuovo la sua comparsa, prepotente, la lotta di classe. In Libano e in Iraq i movimenti hanno travolto ogni divisione religiosa ed etnica, sfidando apertamente il regime. In ambedue i paesi le contestazioni hanno preso di mira anche i movimenti, come Hezbollah, che fino ad ora avevano potuto adottare una retorica antimperialista e sfruttare il loro ruolo nella lotta contro l’Isis: il loro coinvolgimento negli esecutivi non è passato inosservato.
Le mobilitazioni in Iraq sono iniziate proprio nelle zone sciite del sud del paese e di Baghdad, nel porto di Umm Qasr vicino a Bassora l’attività economica si è ridotta di oltre il 50% come conseguenza delle proteste. I giovani sono stati in prima linea, in un paese dove gli under 25 sono il 60% della popolazione, la disoccupazione giovanile si attesta al 60% secondo il Fmi e la maggioranza della popolazione vive con meno di due dollari al giorno.
I bersagli degli insorti sono il sistema politico e il governo, fra i più corrotti del mondo, di cui si chiedono le dimissioni e le interferenze delle potenze straniere nella vita dell’Iraq: “No all’America, No a Erdogan, No all’Iran, No a Barzani, No alle Ong Israeliane”, recitava un grande striscione a Piazza Tahrir a Baghdad. La lotta per l’indipendenza nazionale, nel contesto di un paese sottoposto da 17 anni all’occupazione straniera, è indubbiamente progressista.
Gli insorti hanno dovuto fare fronte a una feroce repressione ad opera non solo delle esercito ma anche delle milizie paramilitari legate direttamente all’Iran. Khamenei ha descritto le proteste come “fomentate da potenze straniere”. Soleimani più volte si era recato a Baghdad per pianificare con il governo la repressione del movimento. È interessante notare come nelle prime settimane anche la Casa Bianca sostenesse apertamente il governo contro i manifestanti.
Se si pensava che l’attentato a Soleimani potesse affievolire le proteste, ciò non è avvenuto. Di nuovo venerdì 10 gennaio migliaia di giovani e lavoratori iracheni sono scesi nuovamente in piazza.
Proteste di massa sono scoppiate a fine novembre anche in Iran, schiacciato ad una crisi economica pesante (nel 2018 il Pil è diminuito del 4%, le previsioni per il 2019 sono di un crollo del 9%) e da una inflazione al 40% (secondo le statistiche ufficiali).
Gli ayatollah sono subito ricorsi a una repressione feroce e ritenevano che, ancora una volta l’appello antiamericano a seguito del “martirio di Soleimani” potesse radunare attorno a se le masse iraniane. La tregua è durata il tempo dei funerali. L’abbattimento del Boeing ucraino avvenuto l’8 gennaio, su cui erano imbarcati numerosi iraniani residenti all’estero, ha fatto scoppiare di nuovo le mobilitazioni. “Morte ai bugiardi” è il grido che risuona in tante città dell’Iran in questi giorni
Da Baghdad a Riad, da Ankara a Teheran passando per Gerusalemme, tutti i governi della regione sono in crisi. Tutti cercano di usare le guerre come “arma di distrazione di massa”. Per molti anni questa cortina fumogena ha funzionato, ma ora, sotto l’impatto della crisi del capitalismo e delle lotte di massa, sta rapidamente svanendo. La propaganda dei mullah, di cui tutti possono vedere la corruzione sfrenata, sta diventando un’arma spuntata.
Per la prima volta da decenni è possibile che si sviluppi una mobilitazione che sfugga dalla morsa tra il sostegno all’imperialismo Usa e quello ai mullah iraniani.
Pur ritenendo poco probabile un conflitto generalizzato, le guerre per procura e le tensioni fra le potenze aumenteranno. Questa volta potrebbero avere un effetto di radicalizzazione delle lotte.
Una nuova ondata rivoluzionaria dovrà risolvere il problema della mancanza di una direzione rivoluzionaria. I partiti tradizionali della sinistra sono in una crisi profonda. Emblematico è il caso di Adil Abd Al-Mahdi, l’attuale Primo ministro iracheno che, da dirigente del Partito comunista (uno di più forti del Medio oriente) passò negli anni ottanta a sostenere le idee khomeiniste. Dopo la caduta di Saddam tornò in patria e si guadagno la fiducia degli americani per poi fare una nuova giravolta e tornare all’ombra dell’Iran.
Una nuova direzione della classe lavoratrice è dunque necessaria, che spazzi via ogni illusione sulle borghesie “democratiche” e “antimperialiste” o nei confronti delle diverse potenze imperialiste che hanno interessi sulla regione.
Alla guerra imperialista bisogna contrapporre la guerra di classe, è la strada che scopriranno la attraverso l’esperienza della lotta le masse medioorientali.