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13 Maggio 2019In Libia infuria la guerra civile. Il generale Haftar ha lanciato all’inizio di aprile un’offensiva contro il presidente Fayez al-Serraj e il suo Governo di accordo nazionale (Gna). Tale governo era il risultato di un accordo raggiunto nel dicembre 2015 tra il Congresso nazionale generale (Gnc) di Al-Ghawil, con base a Tripoli e sostenuto da Turchia e Qatar, e la Camera dei rappresentanti con sede a Tobruk, in Cirenaica. Quest’ultima è controllata da Khalifa Haftar, ex generale di Gheddafi poi fuggito negli Usa (di cui ha il passaporto) che oggi gode dell’appoggio dell’Egitto, degli Emirati arabi uniti, dell’Arabia saudita e della Francia.
L’accordo è sempre stato molto fragile, in realtà nient’altro che un guscio vuoto: la Camera dei rappresentanti non ha mai riconosciuto ufficialmente Serraj come presidente legittimo.
Quest’ultimo è il presidente riconosciuto dalle Nazioni unite ma non è stato eletto da nessuno. Candidato di compromesso tra le varie milizie, ne è divenuto fin dal primo momento ostaggio. Questo campione della democrazia non disdegna l’appoggio di ogni sorta di gruppo fondamentalista e reazionario, inclusi i salafiti delle potenti milizie di Misurata.
L’Italia è stata sempre uno dei principali sponsor del governo Serraj. L’Unione europea ha finanziato Tripoli per gestire il flusso dei migranti e ha fatto diventare l’ex colonia un gigantesco campo di concentramento per i profughi, soggetti a ogni tipo di maltrattamenti, soprusi e torture. La stabilità del paese era decisiva per il governo Gentiloni, che ha stipulato per primo gli accordi con Serraj e lo è più che mai oggi per l’esecutivo Lega-M5S. Considerevoli sono anche gli interessi economici. Le riserve di petrolio libiche sono le più grandi del continente e fra le dieci maggiori del mondo. L’Eni, in tandem con la compagnia petrolifera libica Noc, gestisce il 70% della produzione libica.
Guerra per procura
Il punto di partenza per comprendere ciò che sta accadendo in Libia è che la guerra civile non è un mero prodotto delle menti fanatiche di alcuni beduini, come i media ci vogliono far credere, ma un riflesso degli scontri fra le potenze imperialiste, internazionali e regionali, che in Libia hanno ingaggiato un guerra per procura, fin dal 2011, quando hanno rimosso dal potere e poi ucciso Gheddafi.
Serraj in questi anni è rimasto al potere grazie all’appoggio della “comunità internazionale”. Oltre ai già citati Qatar, Turchia e Italia, un sostegno era fornito anche dagli Stati uniti. Nell’ultimo periodo tuttavia l’atteggiamento dell’amministrazione Usa è cambiato. L’anno scorso Trump ha confidato all’allora primo ministro Gentiloni di “non vedere alcun ruolo per gli Usa in Libia”. Washington non vuole ripetere il fallimento dell’Iraq e il pantano in cui si trova tuttora invischiato in Afghanistan. Ha già pagato il coinvolgimento diretto nel caos libico con l’assassinio del suo ambasciatore nel settembre 2012 a Bengasi.
Nelle settimane precedenti all’attacco, il capo del comando Usa in Africa, Waldhauser, ha incontrato il generale Haftar. Non a caso il 7 aprile scorso, proprio nel fuoco della battaglia, le truppe Usa di stanza a Tripoli sono state “temporaneamente” trasferite fuori dal paese.
Al vertice Ue-Lega araba, svoltosi a Sharm el Sheik il 24-25 febbraio, il presidente egiziano Al-Sisi (grande protettore di Haftar) è stato nominato “custode” del sud del Mediterraneo e della Libia, a protezione delle coste europee dal fenomeno migratorio. Pochi giorni dopo, il 27 febbraio Haftar ha incontrato il principe Mohammed Bin Salman. Secondo il Wall Street Journal: “L’Arabia saudita ha promesso di pagare decine di milioni di dollari per contribuire a finanziare l’operazione, riportano alti funzionari sauditi.” (12 aprile).
L’offensiva poteva partire. L’Esercito nazionale libico di Haftar ha preso il controllo dei giacimenti di el-Sharara e di el-Feel che insieme producono quasi 400mila barili di greggio al giorno. Tobruk ora controlla la maggior parte della produzione del paese. Il passo successivo era l’attacco a Tripoli.
I crimini dell’imperialismo
Malgrado l’indignazione internazionale sulla violazione delle regole della diplomazia, il consiglio di sicurezza dell’Onu non è stato in grado di votare una mozione per il cessate il fuoco, in quanto Mosca e Washington l’hanno sistematicamente bloccata. Putin non è disponibile a condannare Haftar, mentre Trump, in una telefonata a quest’ultimo del 15 aprile ha “riconosciuto il ruolo del maresciallo Haftar nella lotta al terrorismo e nella messa in sicurezza delle risorse petrolifere della Libia”.
La Francia è da tempo dalla parte dell’uomo forte della Cirenaica, tanto che il Gna ha interrotto recentemente ogni relazione con Parigi. Total (la multinazionale francese) proprio in Cirenaica ha raddoppiato la produzione negli ultimi tre anni. Macron inoltre è estremamente preoccupato dagli avvenimenti in Algeria, paese in cui Parigi ha forti interessi e in cui si sta sviluppando un movimento rivoluzionario. Ritiene che Haftar possa essere un elemento di stabilizzazione nella regione.
Ogni potenza, dunque, ha un suo piano per la Libia. Che si possano tutti realizzare, è un altro paio di maniche.
Chi ha già visto la sua strategia andare in frantumi, è sicuramente la classe dominante italiana. Vistosi scaricato anche da Trump, Conte ha dovuto dichiarare frettolosamente che “l’Italia non sta né con Sarraj né con Haftar ma con il popolo libico”. La figura patetica riflette il declino inesorabile dell’imperialismo italiano.
È difficile prevedere chi uscirà vincitore dall’attuale conflitto. L’offensiva di Haftar pare aver trovato più di un ostacolo. Chi sta opponendo la resistenza più efficace non è Serraj, ma le milizie come quella di Misurata, che lo sostengono. La debolezza di Serraj è estrema: le milizie potrebbero decidere di scaricarlo da un momento all’altro.
È l’imperialismo ad avere creato l’inferno in Libia. Quando ha rovesciato Gheddafi, ha preferito il caos a un regime di cui non poteva avere il controllo totale. Uno scenario che si è ripetuto più volte, dall’Iraq alla Siria.
Proprio per questo la soluzione alla guerra civile non può essere affidata alla diplomazia delle grandi potenze, ma solo all’ascesa della lotta di classe, soprattutto nei paesi confinanti come Sudan e Algeria. La vittoria della rivoluzione socialista in uno di questi paesi porterebbe al cambiamento totale degli scenari nella regione ed anche in Libia.