L’impero del caos di Trump e l’illusione della “Fortezza America”

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L’impero del caos di Trump e l’illusione della “Fortezza America”

Immagine: Chairman of the Joint Chiefs of staff, Flickr

di John Peterson (Revolutionary Communists of America)

Donald Trump sarà di nuovo alla guida della più grande potenza imperialista della storia. Ha fatto promesse generiche su un ritorno della “grandezza” americana e ci sono grandi aspettative rispetto a un sovvertimento vero e proprio dell’odiato status quo.

Tuttavia, il mondo è molto cambiato da quando ha messo piede per la prima volta alla Casa Bianca nel 2017. La mala gestione della pandemia, la disfatta della guerra per procura della NATO in Ucraina, il massacro genocida a Gaza hanno trasformato le relazioni mondiali e spazzato via qualsiasi illusione che milioni di persone potessero avere nel sistema. Il capitalismo mondiale è in gravi difficoltà e il capitalismo americano si trova al centro di questo processo di putrefazione. Il malaugurato compito di Trump è quello di gestire la crisi sistemica del capitalismo e, in particolare, del declino relativo, ma in accelerazione, dell’imperialismo americano rispetto ad altre potenze in ascesa.

I marxisti, ovviamente, sanno che la politica interna e quella estera sono intimamente connesse. Tuttavia, dato lo scalpore suscitato da Trump durante la sua recente conferenza stampa di Mar-a-Lago, questo articolo si concentrerà sul quadro geopolitico più ampio.

Trovare un senso nelle osservazioni, nelle dichiarazioni e nei post sui social media di Trump è un po’ come leggere i fondi del caffè. Lasciare tutti nel dubbio sul significato delle sue parole è parte della sua lotta contro la “massa informe” del “deep state”, che farebbe di tutto per risucchiarlo nella palude prima che possa ottenere qualche risultato. Molto di ciò che dice è pensato come una semplice distrazione o come un contentino per la sua base di sostenitori fedeli. Tuttavia, c’è del metodo nella sua follia e, se si legge tra le righe, cominciano ad emergere in maniera visibile i contorni della politica che intende portare avanti.

Che ci si riferisca ad essa come “Corollario di Trump” [in riferimento al “Corollario di Roosevelt” alla Dottrina Monroe, Ndt] o come “Dottrina Donroe” [gioco di parole tra il nome di battesimo di Trump, “Donald”, e la “Dottrina Monroe”, Ndt], come ha fatto il New York Post, Trump intende chiaramente applicare la propria visione di “America First” tornando all’idea di una “fortezza America”, di “pace mediante la forza”, di nazionalismo economico, e della sua aggressiva variante di “isolazionismo” – con la sua appendice di lauti profitti nelle tasche dei produttori di armi.

L’idea di un “Emisfero Americano” e delle “Americhe per gli americani” non è nulla di nuovo. In vari momenti, una parte della classe dominante americana ha vagheggiato l’annessione di Canada, Messico, Cuba, Panama e anche dell’intero Sud America fino alla Patagonia. Dopo la guerra ispano-americana del 1898, si parlò di “Grande America” e anche di “America Imperiale”. Come scrisse ad un amico Diego Portales, un imprenditore e ministro cileno, dopo che venne annunciata la Dottrina Monroe: “Dobbiamo stare molto attenti: per gli americani del Nord, gli unici americani sono loro”.

La Dottrina Monroe e l’eccezionalismo americano

Nel 1823, il presidente James Monroe enunciò per la prima volta la Dottrina Monroe nel suo discorso annuale al Congresso. L’idea fondamentale era che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato ulteriori tentativi colonialistici o interferenze europee nelle Americhe. Accoppiando questa idea con la successiva nozione di “Destino manifesto”, gli Stati Uniti resero chiara la propria intenzione di dominare l’Emisfero occidentale. A seguito di una guerra di conquista con il Messico e del trattato con la Gran Bretagna, i confini degli Stati Uniti continentali vennero grossomodo fissati.

Immagine: Victor Gillam, Wikimedia Commons

Se sorvoliamo sulla Guerra Civile, la Ricostruzione, l’Età dell’oro, l’assoggettamento dei popoli indigeni ad Ovest e la nascita della classe operaia organizzata, arriviamo al XX secolo, che Lenin descrisse come il momento di svolta verso l’imperialismo capitalista vero e proprio.

Siamo qui all’apogeo della “diplomazia delle cannoniere” e il Corollario di Roosevelt del 1904 rappresentò un’importante rettifica della Dottrina Monroe. Teddy Roosevelt affermava adesso che gli Stati Uniti avevano il diritto e il dovere di intervenire in America Latina per difendere gli interessi vitali degli Stati Uniti e per tenervi lontani gli europei. E fecero esattamente questo, con una lista infinita di atti di corruzione, colpi di Stato, omicidi e invasioni.

Dopo la Rivoluzione Russa e le due guerre mondiali, si venne a creare durante la Guerra Fredda un relativo equilibrio tra le due superpotenze, gli americani e i sovietici. Ma il crollo dell’Urss, dovuto alle contraddizioni inerenti al sistema burocratico e antidemocratico dello stalinismo, portò al cosiddetto mondo “unipolare”. L’imperialismo americano non aveva alcun rivale né contrappeso.

La tracotanza di coloro che divennero noti come “neocon” non conobbe più limiti, con il tentativo di intimidire la classe operaia mondiale e di estendere la Dottrina Monroe all’intero pianeta. Persone come Dick Cheney, Donald Rumsfeld e Robert Kagan dominavano il Dipartimento di Stato e decine di fondazioni influenti. La “Dottrina Wolfowitz” dichiarò che, dopo il crollo dell’Urss, non si doveva permettere che emergesse alcun rivale. Essa suggeriva un’azione militare unilaterale e preventiva per eliminare le minacce potenziali e per impedire che qualche altro paese assurgesse allo status di superpotenza. Gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 furono per la combriccola di Bush soltanto una scusa per attuare questo principio.

Ma la legge di gravità, anche in economia, in politica e in campo militare, alla fine si è imposta, l’imperialismo americano ha raggiunto i propri limiti e si è ritrovato impantanato in Iraq e in Afghanistan. I falchi di Biden della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato americano, però, sanno solo come attaccare, non come ritirarsi. Esaltati dalla propria credenza messianica nell’eccezionalismo americano, dopo queste umilianti sconfitte, hanno alzato la posta con le avventure disastrose e devastanti in Ucraina e in Medio Oriente.

Questo è il contesto per Trump 2.0. L’arroganza dell’imperialismo americano ha accelerato un riassestamento globale, con la Cina e la Russia che emergono come potenze economiche e militari alla testa dei BRICS, un blocco economico in rapida espansione che include India, Iran e Brasile e rappresenta una chiara e immediata minaccia alla persistenza del predominio occidentale a guida americana.

Sebbene i neocon si rifiutino di accettarlo, l’ordine capitalista liberale che hanno cercato di imporre ovunque, dopo il crollo dell’Urss, ha raggiunto i propri limiti. Gli architetti del “Progetto per un nuovo Secolo Americano” hanno visto i propri sogni spazzati via dalla spietata realtà della competizione capitalista globale.

Sembra che Trump e quelli che lo circondano capiscano, almeno in parte, che invece di provare a fare i poliziotti del mondo, l’imperialismo americano dovrebbe fare un passo indietro e concentrarsi sul più vicino “cortile di casa”. Espandere i confini del paese gli darebbe una maggiore profondità strategica. Anche se Trump e gli ideologi sionisti nella sua orbita continueranno quasi sicuramente ad appoggiare Tel Aviv fino alla fine, hanno scaricato su Obama, Biden e anche su Netanyahu la colpa per il pasticcio che hanno creato in Ucraina e in Medio Oriente.

Come Putin in Russia e Pezeshkian in Iran, sembra che Trump non si farà ingannare dal tentativo disperato di Biden di spingere gli Stati Uniti in una conflagrazione bellica più ampia. Potrà non essere in grado di porre fine alla guerra in ventiquattro ore, come ha promesso, ma ha detto a Zelensky senza giri di parole che l’Ucraina non entrerà nella NATO, che era l’esatta ragione per cui Mosca entrò in guerra all’inizio.

Come ha spiegato recentemente Trump: “Per anni, la Russia ha ribadito che non voleva il coinvolgimento della NATO in Ucraina. Era come scritto sulla pietra. E Biden ha detto no, che sarebbero potuti entrare nella NATO. Così, la Russia ha qualcuno proprio sulla sua porta di casa. Posso capire come si sentano al riguardo.”

Nel suo discorso dopo la recente vittoria elettorale, ha detto: “Non darò inizio alle guerre; metterò fine alle guerre.” Questa sarà pure la sua intenzione, ma, sebbene abbia portato con sé alcuni outsider, Trump rimane circondato da un bel po’ gente che ha una storia di ostilità nei confronti di Iran, Cina e Russia. Rimane da vedere se si siano realmente ravveduti e siano adesso pienamente leali a lui e non al “deep state”, ma non dovremmo sorprenderci se gli eventi lo risucchiassero in una situazione che non era nei suoi calcoli.

Tuttavia, visto quanto vanitoso e volubile può essere Trump, coloro che hanno scommesso tutto sui neocon, inclusi i vertici del Partito Democratico e i loro tirapiedi in Europa, sono adesso nel panico. Una brusca svolta imperniata sulle Americhe comporterebbe voltare le spalle all’Europa, lasciandola letteralmente da sola, con una Russia baldanzosa e spazientita ad est dei suoi confini.

La NATO venne originariamente concepita per tenere i russi fuori, gli americani dentro e i tedeschi sotto. Oggi, la Russia non ha alcun interesse in Europa al di là della messa in sicurezza del proprio confine occidentale ed è interessata a concentrarsi su un proprio “pivot in Asia” e nell’Artico [riferimento alla politica estera “Pivot to Asia” di Obama, vale a dire avere il fulcro della propria politica in Asia, Ndt]. In un contesto in cui la regione dell’Indo-Pacifico è molto più rilevante per gli interessi americani dell’Europa e considerato il costo, oltre che il pericolo nucleare, implicito nell’appoggiare i suoi alleati europei in uno scontro con la Russia, gli Stati Uniti hanno oggi meno interesse che mai nel tenere in piedi la NATO. Per quanto riguarda la Germania, privandosi dell’accesso all’energia russa a basso costo, essa ha portato la propria economia sull’orlo della rovina e non rappresenta più un serio rivale economico per gli Stati Uniti. Pertanto, l’imperialismo americano non ha bisogno di mantenere la sua costosa presenza sul continente, o almeno non nella misura in cui lo fa oggi.

Nessuna economia moderna può tagliarsi fuori dal mondo intero e questo è particolarmente vero nel caso degli Stati Uniti. Tuttavia, Trump sembra credere che gli Stati Uniti potrebbero diventare più o meno autosufficienti se avessero il dominio dell’Emisfero Occidentale in misura ancora maggiore di quanto non l’abbiano già. Un simile “pivot verso le Americhe” dovrebbe essere accompagnato al tentativo di cacciarne fuori la Cina, che ha ottenuto importanti risultati nella regione ed è adesso il principale partner commerciale del Sud America nel suo complesso. Rimane da vedere se questo spingerà in futuro l’imperialismo americano ad un atteggiamento più aggressivo nell’Indo-Pacifico. Potrebbe essere ormai troppo tardi per provare a “contenere” la Cina.

Trump equivale a caos, ma non si tratta di quel tipo di caos che i rappresentanti della classe dominante come Biden ed Obama hanno finora privilegiato. La loro preferenza era indirizzata ad estendere e difendere un impero già sovradimensionato, suscitando inevitabilmente caos e scompiglio in tutto il mondo. La versione di caos di Trump è diversa. Egli difende un trinceramento della potenza imperialista americana, che comporterà più caos a livello interno e nelle relazioni con gli alleati degli americani e porterà anche a movimenti caotici da parte di altri rivali imperialisti più piccoli e di caratura regionale intenzionati ad occupare i vuoti lasciati dalla potenza americana in declino.

Tuttavia, sebbene le proposte apparentemente scandalose di Trump possano assumere una forma differente, il contenuto della sua politica estera è fondamentalmente lo stesso dei suoi predecessori: difendere il potere e i profitti della classe capitalista americana con ogni mezzo necessario.

La Groenlandia e la corsa per l’Artico

Trump sarà pure intelligente e sveglio, ma è anche estremamente ignorante e facilmente influenzabile da chiunque ottenga la sua attenzione. Come sempre, ciò che dice non coincide sempre con ciò che fa. La sua priorità è negoziare “accordi più favorevoli” per la borghesia americana. Forse, quindi sta solo “bluffando” oppure si tratta di un modo contorto per distrarre dal collasso imminente in Ucraina. Ma tra tutte le sue ultime proposte, quella di acquisire la Groenlandia è probabilmente la più seria. Se dovesse riuscire a impadronirsi dell’isola, ciò costituirebbe una vittoria clamorosa e relativamente agevole, oltre che una dimostrazione di forza.

Il cambiamento climatico si sta accelerando e i ghiacciai artici si sciolgono a un ritmo allarmante. Infatti, la quantità di superficie ghiacciata persa ogni anno equivale a quella della Carolina del Sud. Negli ultimi tre decenni, i ghiacciai più antichi e spessi si sono ridotti del 95%. Sulla base delle attuali previsioni, l’Artico potrebbe essere libero dai ghiacci entro l’estate del 2040. Già adesso, la calotta polare si è drasticamente ridotta e zone prima inaccessibili sono ormai navigabili, aprendo enormi aree allo sfruttamento delle risorse naturali.

Si dà il caso che circa il 20% dell’enorme territorio della Russia si trovi nell’Artico e le sue coste settentrionali si affacciano per il 53% sull’Oceano Artico. Essa dispone inoltre dell’unica flotta al mondo di navi rompighiaccio a propulsione nucleare. Il 75% della costa del Canada e il 40% del suo territorio sono considerate parte dell’Artico. Poi c’è la Groenlandia, due terzi della quale rientrano nel Circolo Polare Artico. E grazie all’acquisto dell’Alaska dalla Russia nel 1867, anche circa il 15% degli Stati Uniti è nell’Artico. Riconoscendo l’importanza della regione per l’apertura di nuove rotte marittime e territori, anche la Cina si è gettata in questa corsa, impegnandosi a costruire una “Via della Seta Polare”, come parte della sua Nuova Via della Seta.

La sola Baia di Baffin, che bagna la Groenlandia e lo Stato canadese di Nunavut, è più grande del Mediterraneo. La rotta artica garantisce tempi di transito molto inferiori dal Mare del Nord, ricco di petrolio, alle coste cinesi rispetto alla rotta che passa dal Canale di Suez. L’imperialismo americano è troppo indaffarato in giro per il mondo ed è rimasto indietro nella corsa per l’Artico.

I mutamenti nella realtà geopolitica che l’imperialismo americano deve affrontare spiegano il grande interesse di Trump in queste regioni, in particolare nella Groenlandia. Secondo Trump, “la proprietà e il controllo della Groenlandia sono una necessità assoluta” per gli Stati Uniti nell’interesse della loro sicurezza nazionale.

Fatta eccezione dell’Australia, di dimensioni continentali, la Groenlandia è l’isola più grande al mondo, equivalente grossomodo al Messico intero. Ospita enormi depositi inviolati di carbone, ferro, grafite, uranio, rame, oro, piombo, molibdeno, criolite, pietre preziose, titanio, zinco e molto altro. È cruciale che si pensi che contenga il 25% o più delle riserve mondiali delle terre rare, indispensabili a livello strategico.

Abitano l’isola solo 57mila persone, 80% delle quali sono inuit groenlandesi, che chiamano la propria terra Kalaallit Nunaat, mentre il resto sono per lo più danesi. Sebbene goda di una forma di governo autonomo per mezzo di un parlamento unicamerale situato nella capitale, Nuuk, la Groenlandia resta una colonia del Regno di Danimarca e c’è un appoggio crescente ad una piena indipendenza, appoggio che sicuramente acquisterà slancio sull’onda degli ultimi avvenimenti.

L’interesse americano per l’isola risale a molti decenni fa e gli americani hanno una presenza militare sulla costa nordoccidentale dal 1941. Ispirandosi all’acquisto delle Isole Vergini Americane dalla Danimarca nel 1917, il presidente Truman fece un’offerta segreta alla Danimarca di 100 milioni di dollari in oro per l’acquisto dell’isola nel 1946, che i danesi rifiutarono. Nel 1951, gli Stati Uniti cominciarono a costruire la base aerea di Thule. Situata a più di 1.100 chilometri a nord del Circolo Polare Artico, era una delle più importanti basi militari americane durante la Guerra Fredda. Non solo questa parte della Groenlandia è “molto a nord” ma si frappone esattamente tra gli Stati Uniti e la Russia, rendendola un luogo perfetto per rifornire bombardieri atomici o per intercettare velivoli russi. Non c’è da stupirsi che vi furono costruite sofisticate strutture e che 10mila soldati vi stazionavano al culmine della Guerra Fredda.

L a base americana in Groenlandia
Pituffik Space Base.

Rinominata adesso Base Spaziale Pituffik, essa ospita una parte consistente della rete globale dell’imperialismo americano in quanto a sistemi di rilevamento missili, sistemi di sorveglianza spaziale e sistemi di controllo dello spazio in mano al Comando di Difesa Aerospaziale del Nord-America (Norad) e della Forza spaziale degli Stati Uniti. Ospita anche il porto in acque profonde più a nord al mondo e la sua pista di atterraggio serve più di 3mila voli americani ed internazionali ogni anno.

Nonostante il suo interesse nell’investire in Groenlandia, la Cina ha dovuto fare un passo indietro negli ultimi anni a causa di una pesante pressione americana sui governi danese e groenlandese. Le attività nelle miniere cinesi di uranio a Kuannersuit e di ferro a Isua sono state sospese o interrotte nelle fasi iniziali. La Cina si è scontrata con un rifiuto anche quando ha cercato di acquistare una vecchia stazione marittima abbandonata dall’esercito danese.

Secondo Rasmus Leander Nielsen, capo del Centro Nasiffik per la Politica Estera e la Sicurezza e professore all’Università di Groenlandia, questa proposta ha subito “un qualche veto di Washington”. Nel 2019, la China Communications Construction Company ritirò la propria offerta di costruire due aeroporti, uno a Nuuk e l’altro a Ilulissat.

Senza che ciò avesse ovviamente alcun legame con i commenti di Trump, suo figlio, Donald Junior, e Charlie Kirk si sono casualmente ritrovati a fare una capatina nell’isola poco dopo che Trump aveva promesso di “far tornare la Groenlandia di nuovo grande”. Egli ha aggiunto: “La Groenlandia è un posto incredibile e la sua gente trarrà grande beneficio se e quando essa diventerà parte della nostra nazione. Ce ne prenderemo cura e la proteggeremo da un mondo esterno molto crudele.”

Fedele alle proprie tattiche di negoziazione sfacciate e arroganti, ha domandato se la Danimarca abbia un qualche diritto sull’isola: “Nessuno sa neanche se abbiano un qualche diritto, titolo o interesse in essa.” Comprare una così grande estensione di terra con tutti i suoi abitanti non costerebbe poco, volendo essere ottimisti. E, sebbene abbia messo sul tavolo questa opzione, è improbabile che egli faccia ricorso ad un’azione militare contro la Danimarca, membro dell’UE e della NATO.

In sprezzo al ridicolo, il ministro degli Esteri francese, Jean-Noël Barrot, ha dichiarato arditamente che l’UE non permetterà a Trump di “attaccare i propri confini sovrani”. E sebbene non creda che un’invasione militare americana della Groenlandia sia lo scenario più probabile, ha correttamente osservato che “noi [gli imperialisti, Nda] siamo entrati in un periodo storico in cui sopravvive il più adatto”.

Ma potrebbero esserci altri modi con cui l’imperialismo americano potrebbe riuscire a prenderne il controllo permanente, a cominciare da una spietata pressione economica e dalla minaccia di Trump di “imporre dazi molto alti alla Danimarca”, se non acconsentisse all’annessione americana dell’isola.

Nonostante molti in Groenlandia siano scontenti del carovita e della dipendenza dalla Danimarca, non è scontato che la maggioranza preferirebbe diventare una colonia americana. Secondo il ministro degli Esteri della Danimarca, Lars Lokke Rasmussen: “Noi riconosciamo pienamente che la Groenlandia ha le proprie ambizioni. Se si materializzassero, la Groenlandia diventerebbe indipendente, per quanto potrebbe difficilmente coltivare l’ambizione di diventare uno Stato federale degli Stati Uniti.”

Tuttavia, egli ha aggiunto che il governo danese riconosce che gli Stati Uniti hanno interessi “legittimi” nella regione e che è “aperto a un dialogo con gli americani su come possiamo cooperare, possibilmente ancora più strettamente di quanto già facciamo, per assicurarci che le ambizioni americane vengano soddisfatte” [corsivo nostro, Nda].

In altre parole, sebbene insceni un’apparente resistenza, la piccola Danimarca è quasi sul punto di cederne il controllo effettivo, se non la proprietà legale, agli Stati Uniti, mentre a parole difende il diritto all’autodeterminazione dei groenlandesi.

Múte Egede, il primo ministro della Groenlandia, si è poi affrettato a dire: “Non siamo in vendita”. Ma come sempre le piccole nazioni sono nient’altro che pedine agli occhi degli imperialisti, soprattutto quando gli interessi economici e delle grandi potenze sono così forti.

Il Canale di Panama

L’altra proposta di Trump da prendere forse più sul serio è stata quella di riprendere il controllo effettivo del Canale di Panama, soprannominato dal giornalaccio sensazionalistico The New York Post, “Canale di Panamaga” [gioco di parole con l’acronimo MAGA, “Make America Great Again”, slogan del trumpismo, Ndt]. Come con la Groenlandia, Trump insiste che gli Stati Uniti ne hanno bisogno per la propria sicurezza economica e nazionale e ha affermato che “il Canale di Panama è stato costruito dal nostro esercito”.

Nel 1903, Teddy Roosevelt aiutò ad orchestrare l’“indipendenza” di Panama dalla Colombia e il nuovo governo concesse agli Stati Uniti le terre sulle quali costruire un passaggio marittimo che attraversasse l’istmo più sottile delle Americhe. Con un costo di circa 375 milioni di dollari e di 5.600 lavoratori morti nel corso dell’opera, la costruzione venne completata nel 1914. Il Canale di Panama ebbe enormi implicazioni per l’economia mondiale, consolidando ulteriormente la posizione degli Stati Uniti come potenza manifatturiera e marittima in ascesa. Le navi potevano adesso passare dall’Atlantico al Pacifico senza dover passare dalla lunga deviazione che circumnaviga Capo Horn. Per decenni, gli Stati Uniti utilizzarono il canale per fini sia commerciali che militari. Per esempio, durante la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti costruirono a Panama più di cento basi.

Ma nel 1977, i Trattati Torrijos-Carter diedero inizio al processo di restituzione della proprietà e del controllo del canale al popolo di Panama, che si impegnò a mantenere la perpetua neutralità del passaggio marittimo. Dal 31 dicembre 1999, l’Autorità del Canale di Panama fa funzionare il sistema di chiuse e passaggi che si estende per 82 chilometri in qualità di organismo autonomo del governo panamense e, da allora, ha modernizzato le operazioni e completato nel 2016 un progetto di consistente espansione.

Adesso, Trump rimpiange che gli Stati Uniti abbiano restituito il canale. Sembra che concordi con la battuta ironica del senatore S.I. Hayakawa che nel 1977, durante il dibattito sulla restituzione del canale, disse: “Dovremmo tenerci il Canale di Panama. Dopotutto, l’abbiamo rubato senza imbrogli.”

Trump sostiene che i panamensi stiano imponendo alle navi americane dazi “esorbitanti” che violano i Trattati di Torrijos-Carter. Inoltre, afferma che il canale stia “cadendo in cattive mani”, un’evidente allusione alla Cina, che controlla due porti vicino al canale, ma non controlla il canale stesso.

Da parte sua, il presidente panamense José Raúl Mulino ha negato che gli Stati Uniti paghino dazi ingiusti o che altri fuorché Panama detengano il completo controllo del canale ed ha affermato che il canale è parte del “patrimonio inalienabile” del paese.

Brandon Gill, parlamentare repubblicano del Texas, ritiene che il Canada, Panama e la Groenlandia dovrebbero essere “onorate” delle ambizioni di Trump di renderle parte degli Stati Uniti: “Penso che il popolo di Panama, penso che il popolo della Groenlandia, penso che il popolo del Canada, a dirla tutta, dovrebbero sentirsi onorati che il presidente Trump voglia portare questi territori nell’ovile americano.”

Ancora una volta, vediamo che gli interessi delle piccole nazioni (incluso il Canada) sono semplici pedine in un nuovo “Grande Gioco”, mentre l’imperialismo americano cerca di imporre un maggiore controllo sui suoi vicini, allontanandone i cinesi e gli altri rivali.

Canada

Avendo in mente le Americhe, Trump ha sparato un colpo anche contro i vicini del nord. Sebbene avesse negoziato durante il suo primo mandato un accordo Stati Uniti-Messico-Canada per sostituire il trattato NAFTA, ha minacciato di imporre nel secondo mandato dazi punitivi sulle importazioni canadesi. Dopo che un tentativo disperato di trovare un compromesso a Mar-a-Lago lo ha messo in ridicolo ed umiliato, la posizione di Justin Trudeau, già traballante, è stata definitivamente compromessa e quest’ultimo è stato costretto a dimettersi da primo ministro. A quanto pare, essere chiamato [da Trump, Ndt] “governatore Trudeau del grande Stato del Canada” non ha contribuito alla sua autorità già messa in discussione.

Trump ha reagito alle dimissioni di Trudeau con un post sui social: “Molte persone in Canada AMEREBBERO essere il 51esimo Stato. Gli Stati Uniti non possono più tollerare l’enorme Deficit Commerciale e i Sussidi di cui il Canada ha bisogno per restare a galla. Justin Trudeau lo sapeva e si è dimesso. Se il Canada si fondesse con gli Stati Uniti, non ci sarebbero dazi, le tasse si ridurrebbero e sarebbe TOTALMENTE AL SICURO dalla minaccia delle navi russe e cinesi che gli girano costantemente attorno. Insieme, che grande Nazione saremmo!!!”.

Egli ha anche ricordato una recente conversazione con la leggenda canadese dell’hockey Wayne Gretzky, nella quale gli ha chiesto di candidarsi a primo ministro. Trump ha detto che Gretzsky gli ha chiesto se dovesse candidarsi a primo ministro o a governatore, al che Trump ha risposto: “Facciamo governatore. Mi piace di più”.

Trump ha anche pubblicato due mappe del Nord America, una con le stelle e le strisce della bandiera statunitense che si estendevano dal Texas all’Artico e un’altra con le parole “Stati Uniti” a coprire entrambi i paesi. In contrasto con le allusioni all’utilizzo della forza militare a proposito della Groenlandia e del Canale di Panama, con il Canada Trump si è limitato alla minaccia della “forza economica” per strappare un accordo migliore.

Il Canada è un paese enorme con una piccola popolazione rispetto alle proprie dimensioni e alle straordinarie riserve di risorse naturali che detiene. Membro della NATO e stretto collaboratore dell’esercito americano, per esempio, attraverso il Norad, è il secondo partner commerciale degli Stati Uniti, con un ampio flusso di beni e servizi che attraversano il confine in entrambe le direzioni.

Per quanto l’idea che il Canada possa diventare uno Stato degli USA possa sembrare assurda, in passato gli americani hanno provato a conquistare il Canada due volte. Nel 1775, durante la Prima Rivoluzione Americana, essi vi arrivarono in realtà abbastanza vicini, ma furono ostacolati dalle epidemie, dal clima invernale, e dalla sfortuna, e finirono per essere sconfitti nella Battaglia del Québec. Nel 1812, invasero di nuovo il paese per costringere la Gran Bretagna a negoziare concessioni per il commercio marittimo e per porre fine all’appoggio britannico ai popoli indigeni in funzione anti-americana. Gli americani vagheggiarono anche di prendere il controllo dei Grandi Laghi e il fiume San Lorenzo al fine di ottenere nuove terre per i coloni americani.

Dal punto di vista del “Grande Gioco” degli imperialisti, imporre al Canada un dominio americano ancora più completo ha una certa logica. Gli Stati Uniti hanno interamente soppiantato il vecchio egemone globale, l’imperialismo britannico, che è stato relegato all’irrilevanza economica e all’impotenza militare ai margini di un’Europa anch’essa in declino. Sebbene sia nominalmente indipendente dal 1982, il Canada è una monarchia costituzionale con re Carlo III a capo dello Stato, rappresentato in Canada dal Governatore Generale. Esso è parte del Commonwealth Britannico delle Nazioni. Tagliare questi legami una volta per tutte, dunque, ha abbastanza senso.

Persino su una base capitalistica, un’unità economica e politica più ampia, con un flusso di merci e forza-lavoro senza restrizioni, ne aumenterebbe l’efficienza e faciliterebbe economie di scala. Ma questo, ovviamente, andrebbe a vantaggio unicamente dei capitalisti e della loro abilità di estrarre profitti dallo sfruttamento della classe operaia. Sulla base di una rivoluzione socialista e di un governo operaio, le frontiere artificiali tra Stati Uniti, Canada e Messico verrebbero abolite e e verrebbe creato un piano economico pianificato razionalmente, fondato sul rispetto, sulla solidarietà e sulla prosperità comune. Una Federazione Socialista del Nord America sarebbe una componente cruciale in una Federazione socialista delle Americhe e del mondo. Ma, ovviamente, non è questo che Donald Trump ha in mente.

Messico

Fedele allo stesso principio, Trump ha attaccato anche il proprio vicino meridionale, il Messico, dichiarando che il Golfo del Messico sarebbe stato rinominato “Golfo di America”. Invece che precipitarsi in Florida a baciargli l’anello come Trudeau, il presidente messicano Claudia Sheinbaum lo ha ripagato con la stessa moneta, mostrando una mappa del 1607 in cui la gran parte del Nord America era etichettata come “America Messicana” e ha detto: “America Messicana: suona bene!”. Questo toponimo era riconosciuto a livello internazionale e utilizzato come riferimento nella navigazione marittima secoli fa.

Ma la realtà è che la relazione con il Messico, il principale partner commerciale degli Stati Uniti, è stata sempre permeata da tensioni e contraddizioni. Non è un caso che il dittatore messicano Porfirio Diaz, a quanto pare, abbia detto: “Povero Messico, così lontano da Dio, così vicino agli Stati Uniti.”

Nel suo primo mandato, Trump insistette nel costringere i messicani a pagare la costruzione di un muro che attraversasse il confine tra Stati Uniti e Messico. Adesso, ha minacciato dazi del 25% sulle importazioni messicane a meno che il governo Sheinbaum non aumenti gli sforzi per fermare la migrazione e il traffico di fentanyl. Ha persino minacciato di inviare l’esercito sul confine per metterlo in sicurezza. Non gli importa che tutto questo possa scatenare una crisi economica in Messico, portando a un’emigrazione più intensa e alla perdita del controllo da parte dello Stato messicano che, secondo l’esercito americano, vede già circa un terzo del proprio territorio nelle mani dei narcotrafficanti e dei loro cartelli.

Trump ha nominato il falco anti-immigrazione Tom Homan come proprio “Zar delle frontiere” e ha scelto come ambasciatore in Messico l’ex verde Beret Ronald Johnson. I trascorsi di Johnson includono operazioni della Cia in Iraq e in Afghanistan e azioni di contro-guerriglia in El-Salvador durante la guerra civile degli anni ’80.

Utilizzando apertamente cliché razzisti, Trump ha detto di voler “porre fine ai crimini degli immigrati, fermare il traffico di fentanyl e RENDERE L’AMERICA DI NUOVO SICURA!”. Propugna a tal fine l’utilizzo delle forze speciali, della guerra cibernetica e di altre azioni contro le attività dei cartelli. Ha proposto di designarli come terroristi per fornire una copertura legale a tali operazioni.

Come nel caso del Canada, l’idea che gli Stati Uniti invadano il Messico può sembrare assurda a molti. Ma gli Stati Uniti hanno una lunga storia di interventi militari in Messico, con almeno dieci incursioni. La prima fu nella Guerra messico-statunitense del 1846-1858, che si concluse con la conquista di circa metà del paese, inclusi gli attuali Stati americani di California, Nevada, Utah, New Messico e Arizona.

Nel 1914, gli Stati Uniti inviarono le truppe per occupare il porto strategico di Veracruz. E dal 1916-17, i soldati americani percorsero il nord del Messico in lungo e in largo nel vano tentativo di catturare Pancho Villa. Inoltre, gli Stati Uniti hanno invaso gli altri paesi dell’America Latina più di 70 volte, inclusa Panama. Con il gusano [“verme” in spagnolo, nomignolo dei borghesi cubani fuggiti dopo la Rivoluzione Cubana, Ndt] iper-reazionario Marco Rubio come Segretario di Stato, paesi come Cuba e Venezuela saranno anch’essi presi di mira.

I BRICS, la Cina e la Russia

Ribadiamo che tutto questo è connesso al declino dell’imperialismo americano in relazione alle altre potenze imperialiste in ascesa. Maltrattare la Groenlandia, la Danimarca, Panama e persino il Canada e il Messico può fare ottenere qualche concessione agli USA, ma grandi potenze come la Cina, la Russia e persino l’Iran non sono così facili da smuovere. Dopo decenni di insolenze e disprezzo da parte degli americani, queste ed altre potenze in ascesa si sono avvicinate a livello economico e militare. Tra di esse, la Cina e la Russia controllano insieme immensi territori e popolazioni e risorse naturali, per non menzionarne il formidabile complesso industriale-militare.

A parità di tecnologia, accesso alle risorse naturali, forza-lavoro qualificata, ecc., un paese con una popolazione più grande surclasserà gli altri con popolazioni più ridotte. Sebbene contenga solo il 5% della popolazione mondiale, è stata la posizione privilegiata e la superiorità tecnologica del capitalismo americano a permettere agli USA di dominare il mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Questa supremazia è stata sorretta dalla potenza militare e da una serie di interventi imperialistici per ritagliarsi sfere di influenza, investimenti e materie prime. Istituzioni come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno perpetuato l’indebitamento e la dipendenza dei paesi più deboli. Questo saccheggio in nome del profitto ha a propria volta mantenuto la maggioranza del mondo in condizioni di povertà e di scarsa competitività.

Tuttavia, la miope avarizia dei capitalisti li ha spinti a deindustrializzare i loro stessi paesi, accelerando inconsapevolmente lo sviluppo del capitalismo altrove. Hanno anche imposto sanzioni e altre restrizioni al commercio, costringendo molti paesi a sviluppare in proprio tecnologie avanzate. Di conseguenza, paesi come la Cina e la Russia non assomigliano a quello che erano trent’anni fa. Questo può bastare riguardo alla cosiddetta “fine della Storia”.

L’ascesa dei BRICS è l’esempio più evidente di questo mutamento. Le stime variano, ma secondo alcuni parametri, questo blocco economico, con dieci membri e otto affiliati, assomma circa il 50% del PIL mondiale, superando il G7. Dei dieci paesi con il PIL maggiore, cinque sono nei BRICS: Cina, India, Russia, Brasile e il suo membro più recente, l’Indonesia, è la settima economia al mondo e il quarto paese per numero di abitanti. Gli altri cinque sono Stati uniti, Giappone, Germania, Francia e Gran Bretagna. Tuttavia, il paragone è ancora più impietoso quando si misura il prodotto manifatturiero invece del PIL, che include anche i servizi immateriali.

La produzione manifatturiera della Cina contribuisce a più del 38% del PIL del paese e quella della Russia a circa il 27%. Negli Stati Uniti, la manifattura contribuisce ad appena il 10,2% del PIL, e i servizi ne costituiscono l’80,2%. Su scala mondiale, la Cina è oggi responsabile di circa il 30% della produzione manifatturiera globale. Nel frattempo, la percentuale statunitense della produzione manifatturiera globale è crollata da circa il 30% negli anni ’80 a circa il 16% oggi. Questi dati parlano chiaro. Dopotutto, produrre armi di qualità in grandi quantità richiede una capacità industriale commisurata.

Confondere e destabilizzare i propri avversari può aiutare Trump solo fino ad un certo punto. In ultima analisi, le parole devono essere sorrette dalla potenza militare, che è una funzione della potenza economica. La crisi del liberalismo riflette la crisi del capitalismo, ma Trump non offre sostanzialmente nulla di meglio. Infatti, che gli piaccia o meno, Trump sta lavorando essenzialmente con la stessa cassetta degli attrezzi di cui disponeva Biden nei suoi tentativi fallimentari di arrestare la decadenza dell’imperialismo americano. Come abbiamo analizzato altrove (https://rivoluzione.red/tag/guerra-in-ucraina/), la guerra in Ucraina ha rappresentato un punto di svolta. Nel migliore dei casi, essa ha gravemente compromesso la capacità dell’Occidente di sostenere e vincere una guerra, nel peggiore, lo ha fatto apparire come una tigre di carta.

Potrebbe aver senso per Trump lavorare sul consolidamento della potenza americana nell’Emisfero Occidentale, piuttosto che rivolgersi al mondo intero. Forse si può giungere a un modus vivendi con alcune di queste potenze, una specie di accordo tra gangster per far sì che ognuno sia libero di fare quello che crede nel proprio feudo.

Tuttavia, simili accordi, se anche possibili, sono temporanei, come dimostra chiaramente il periodo precedente alle due guerre mondiali. Persino i piccoli paesi hanno i propri interessi nazionali e cercheranno di difendere quello che hanno e di allargarsi ulteriormente. Paesi BRICS come il Brasile e l’India vengono visti dall’imperialismo americano come “Stati oscillanti” da conquistare pienamente al campo americano e gli americani eserciteranno una grande pressione su di essi affinché ciò avvenga.

Per quanto riguarda i tentativi americani di mettere un cuneo tra la Cina e la Russia, Mosca e Pechino potranno anche avere molte divergenze su svariati argomenti, ma i loro attuali interessi sono ben più allineati di quanto non lo siano con quelli del menzognero, proditorio e ipocrita “ordine basato sulle regole” degli Stati Uniti e dei suoi più stretti alleati. Lo sviluppo, già ben avviato, del Corridoio Internazionale di Trasporto Nord-Sud, lungo più di 7.200 chilometri è un altro potenziale punto di svolta. L’obiettivo è quello di costruire una rete multi-modale su strada, ferrovia e nave per il trasporto merci tra India, Iran, Azerbaijan, Russia, Asia Centrale e Europa.

I rivali imperialisti dell’America vedono un’opportunità fondamentale per riequilibrare il mondo a proprio vantaggio. In un modo o nell’altro, l’imperialismo americano dovrà fare i conti con il fatto che non è più una “iper-potenza”, sebbene rimanga la forza più potente e reazionaria al mondo. Questo mutamento drammatico sta già avendo un impatto profondo sulla coscienza di massa negli Stati Uniti e inevitabilmente si rifletterà nella lotta di classe.

Esplosioni della lotta di classe all’orizzonte

Stiamo assistendo al ritorno ad un’epoca imperialistica più paradigmatica, come quella descritta da Lenin nella sua opera classica, con tutte le tensioni, l’instabilità, le lotte di classe e le rivoluzioni che hanno accompagnato quel periodo, o ad un livello persino superiore.

Trump è il tipico esempio del caso che esprime una necessità più profonda. Egli ha impresso un’accelerazione alle divisioni sempre più aspre nella classe dominante americana, che stanno preparando la strada ad un’inedita sollevazione di tutti i settori della società. Possiamo perfino ringraziarlo per essersi sbarazzato del velo ipocrita della democrazia borghese e per essere schietto sulla natura della politica delle grandi potenze.

Tuttavia, la “Fortezza America” non è una soluzione alla crisi del capitalismo o al pericolo della lotta di classe e della rivoluzione. Non esiste alcune soluzione all’interno del capitalismo. Non si può semplicemente correre ai ripari e ignorare il mondo, anche se si controlla un intero emisfero. Le promesse e le proposte di Trump sono più facili a dirsi che a farsi e nessuna di esse può risolvere i problemi fondamentali che vive la classe operaia. Neanche lui può far quadrare il cerchio dei limiti intrinsechi di un sistema basato sullo sfruttamento e sulla ricerca spregiudicata del profitto.

Spartirsi il mondo in zone di influenza con un accordo reciproco, per poter continuare con lo sfruttamento dei lavoratori e del pianeta, è sicuramente una prospettiva allettante per molti grandi capitalisti in tutto il mondo. Ma il mondo vero non è una partita di Risiko, il capitalismo è un sistema globale; neanche i blocchi più estesi e potenti possono sopravvivere in un isolamento autarchico dal resto dell’economia globale. Oltre che merci, tutte le classi dominanti devono esportare le crisi e la disoccupazione verso i propri rivali, se non vogliono avere problemi in casa. Il capitalismo funziona semplicemente così. La coesistenza pacifica a lungo termine non è nel suo DNA.

Inoltre, la classe operaia mondiale, che è numericamente più grande e potenzialmente più forte che mai, vorrà far sentire la propria voce a riguardo. La rabbia della classe operaia si sta accumulando e l’enorme simpatia manifestata per Luigi Mangione non è un caso. Non è un caso neanche la crescita strabiliante dell’interesse nelle idee comuniste, dopo decenni di letargo.

Tutto è fluido e cangiante e niente dura per sempre, neanche le frontiere dello Stato-nazione americano. Questo è particolarmente vero in tempi come questi, quando un sistema socio-economico sta morendo e un altro lotta per affermarsi. Come scrisse Marx nel Manifesto del Partito Comunista: “Tutto ciò che è solido evapora, tutto ciò che è sacro viene sconsacrato, e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con sobrietà il loro posto nella vita, i loro rapporti reciproci.”

Nonostante la loro spavalderia, i rappresentanti più lungimiranti della borghesia americana sanno di essere seduti sopra la pentola a pressione della lotta di classe, che alla fine esploderà loro in faccia. La nostra è l’epoca della rivoluzione mondiale ed è questa la prospettiva cui i Revolutionary Communists of America [sezione americana dell’ICR, Ndt] si stanno preparando.

 

 

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