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La lotta di classe in Francia dal 1934 al 1936
L’ondata della crisi economica, esplosa negli Stati Uniti nel ’29, raggiunse la Francia alcuni anni dopo: è solo alla fine del ’31 che si iniziano a vedere i segni di una imminente fase recessiva, destinata a travolgere tutti gli strati sociali subalterni del paese. Negli anni seguenti l’industria, che assorbiva circa un quarto della popolazione attiva, subì un tracollo della produzione del 40%; nelle campagne, in cui lavorava ancora quasi la metà dei Francesi, i prodotti agricoli persero addirittura l’80% del loro valore. Conseguenza di questa crisi fu un aumento senza pari dei disoccupati e il conseguente calo dei salari, divorati dalla crescente competizione tra lavoratori occupati e inoccupati.[1]
Questo contesto favorì, inevitabilmente, l’acutizzarsi del conflitto di classe, in un quadro europeo, peraltro, che assisteva a turbolenze sociali e politiche culminate, ai confini della Francia, nella guerra civile spagnola e nell’ascesa del nazismo in Germania. Il primo momento di feroce polarizzazione politica nel paese d’oltralpe si ebbe il 6 febbraio del 1934, quando un raggruppamento di organizzazioni di estrema destra e fasciste, alimentate dal crescente malcontento in seno alla piccola borghesia e finanziate da settori del grande capitale finanziario e produttivo, convocarono, come atto conclusivo di una violenta campagna antiparlamentare, una manifestazione sotto il parlamento. Gli scontri di piazza lasciarono sul terreno 16 manifestanti. Il governo del radicale Daladier, insediato appena una settimana prima, fu costretto a dimettersi, cedendo il passo ad un governo di unità nazionale guidato da Doumergue[2] – anche lui del partito radicale[3] – che coinvolse tutte le formazioni conservatrici del paese in un tentativo di riforma del sistema.
Due gli elementi, tra loro interrelati, attorno ai quali si forma l’idea di una riorganizzazione radicale dello Stato: da un lato si voleva rispondere alla montante critica nei confronti del sistema parlamentare, travolto da una lunga catena di scandali legati alla corruzione dilagante tra i suoi rappresentanti e caratterizzato da una profonda instabilità; dall’altro parte della borghesia domandava con forza l’insediamento di un esecutivo più forte, in grado di mettere fine alle spaccature che polarizzavano la società. Un tentativo, quello di dare sostanza ad uno ‘stato forte’, che, pur ponendosi a parole come argine all’avanzata dei gruppi fascisti e alla risposta contraria della classe operaia, si basava su formazioni di estrema destra, come quella guidata dal maresciallo Pétain, divenuto ministro di stato nel governo Doumergue. La situazione era però così peculiare che, nonostante emergesse in molti segmenti della borghesia il desiderio di un governo autoritario, in realtà tra la fine del ’34 e il ’35 si alternarono al potere dei governi, guidati da Flandin e Laval, estremamente deboli, nonostante i tentativi di ergersi al di sopra del parlamento e la volontà di procedere ad una riforma radicale dello stato.
Questa dinamica contraddittoria – così diversa da quanto era già avvenuto in Italia e stava per accadere in Germania – era il risultato della tenace resistenza che la classe operaia francese stava opponendo alle aspirazioni autoritarie della destra. Il proletariato francese, infatti, messo sull’avviso dagli avvenimenti in Germania, non attese passivamente il corso degli eventi, né si limitò ad aspettare gli ordini della direzione. Già il 12 febbraio, meno di una settimana dopo la sanguinosa manifestazione delle destre, fu indetto uno sciopero generale che, contro le titubanze dei gruppi dirigenti, vide sfilare in piazza in maniera unitaria gli iscritti ai sindacati socialista e comunista della CGT e CGTU, coinvolti in un percorso di unificazione che si concluderà nel marzo ’36. Gli incontri tra PCF e SFIO non raggiunsero un tale risultato, ma produssero, nel luglio ’34, un patto d’unità d’azione. Questo fu poi benedetto dal VII congresso del Comintern, che si spinse molto oltre, imponendo alleanze non solo con i partiti del campo operaio, ma anche con quelli identificati come rappresentanti della piccola borghesia progressista. Si passò così dalla politica del social-fascismo a quella dei fronti popolari, che in Francia ebbe il suo primo laboratorio con il corteggiamento del partito radicale, in quel momento alla guida di governi sempre più tentati da svolte autoritarie.
Il concetto di bonapartismo tra Marx e Trotskij
Espulso da Prinkipo, in Turchia, Trotskij proseguì in Francia il suo esilio a partire dal luglio del 1933. Nonostante limiti e difficoltà che ne ostacolarono il lavoro, decise di intervenire in prima persona nelle vicende del paese che lo ospitava, vicende che riteneva fondamentali per l’evoluzione della lotta di classe in tutto il continente. È in questo contesto che riprese l’analisi relativa al concetto di bonapartismo, e perfezionò alcune proposte tattiche, come l’entrismo e il fronte unico.
La categoria del bonapartismo era stata sviluppata da Marx all’indomani delle vicende che avevano visto, nel 1851, per protagonista Luigi Bonaparte, da cui il nome. Il nipote di Napoleone, constatando la crisi del regime parlamentare seguita alla rivoluzione del ’48, aveva iniziato a denunciarne le indecisioni, ponendosi come garante dell’ordine. Basandosi sul sottoproletariato e, soprattutto, sulla piccola borghesia contadina, che allora costituiva la stragrande maggioranza del paese, si era costruito una sua autonomia anche rispetto all’esecutivo di cui era a capo, ergendosi ad arbitro del conflitto tra proletariato cittadino e grande borghesia esploso con la rivoluzione europea del ’48. L’esito di tale politica fu il plebiscito del dicembre ’51, che gli garantiva il potere per dieci anni, e, dopo avere strettamente legato a sé i vertici militari, il colpo di stato dell’anno seguente, con il quale sciolse l’assemblea nazionale e si incoronò imperatore, ponendo fine alla seconda repubblica.
Trotskij osservò che elementi della situazione analizzata e descritta da Marx si ripresentarono tra la fine degli anni ’20 e il decennio successivo in diversi paesi europei, sebbene in un contesto diverso. La crisi della repubblica di Weimar – con il succedersi di governi sempre più autoritari nel quadro di una conflittualità sociale e politica acuta – fece tornare in mente quegli scritti, tanto più che l’analisi dei partiti stalinisti su quei processi era così schematica da produrre programmi politici che si dimostrarono letali per il proletariato. Con l’intento di chiarire le differenze tra il fascismo e i governi che si erano succeduti in Germania nei mesi precedenti e mettere in discussione la propaganda dei partiti comunisti, Trotskij nell’autunno del ’32 scriveva[4]:
“Abbiamo definito il governo Brüning un bonapartismo (“una caricatura di bonapartismo”), cioè un regime di dittatura militare-poliziesca. Non appena la lotta tra i due campi sociali contrapposti – i possidenti e i proletari, gli sfruttatori e gli sfruttati – raggiunge la massima tensione, si stabiliscono le condizioni per il dominio della burocrazia, della polizia, della soldatesca. Il governo diventa “indipendente” dalla società. Ricordiamolo ancora una volta: se si piantano simmetricamente due forchette su di un tappo, il tappo può rimanere in equilibrio anche sulla capoccia di uno spillo. Proprio questo è lo schema del bonapartismo. Naturalmente un simile governo continua a essere il commesso delle classi possidenti. Ma il commesso se ne sta seduto sulla schiena del padrone, lo colpisce alla nuca e, se necessario, non si perita di dargli calci in faccia.”
La novità, nella fase del declino capitalista, è l’ascesa del proletariato e delle sue organizzazioni, che in più di un paese misero in discussione la democrazia borghese e la stabilità del dominio capitalista. L’onda lunga della Rivoluzione russa aveva attraversato molti paesi europei e continuava ad esercitare un forte impulso sulla lotta di classe del continente. Di fronte al rischio della rivoluzione socialista, la possibilità di insediare un regime bonapartista, ossia un regime autoritario in cui l’apparato statale, militare e burocratico, si assume la responsabilità del governo, diventava un’opzione praticabile per la borghesia finanziaria. Anzi, per dirla con le parole di Trotskij, è “una soluzione più economica” per le classi possidenti rispetto all’ipotesi della dittatura fascista[5], extrema ratio di un sistema sull’orlo del baratro.
Occorre tuttavia chiarirsi su cosa intenda il rivoluzionario russo, o per essere più precisi, quale tipo di regime bonapartista egli abbia in mente negli scritti dei primi anni ‘30. La sua argomentazione, infatti, è tutta tesa a sottolineare la differenza tra fascismo e bonapartismo per contrastare la propaganda stalinista che sovrapponeva i due fenomeni. Egli, dunque, quando in questi lavori parla di bonapartismo non allude al regime dittatoriale che si può instaurare dopo un colpo di stato fascista – come era avvenuto in Italia, dove il regime bonapartista di Mussolini era stato l’esito della vittoria del fascismo sulla classe operaia, con lo scioglimento del parlamento e l’abrogazione di tutte le libertà democratico-borghesi, soprattutto quelle sindacali e politiche –, bensì a quei governi autoritari e polizieschi – nella fattispecie i governi Brüning, Papen e Schleicher in Germania – che tentarono di frenare lo scontro di classe senza fare ricorso alla base popolare delle formazioni fasciste. Questi governi erano in qualche modo più manovrabili rispetto ad un regime fascista per i detentori del potere economico, per quanto, essendo parzialmente autonomi dalla borghesia, rappresentavano comunque un rischio.
La distinzione tra un bonapartismo imposto come regime apertamente dittatoriale sul cadavere del proletariato e un regime bonapartista come risposta all’ascesa della classe operaia non era questione di lana caprina[6], perché, se entrambi i regimi incarnavano il sintomo della crisi capitalistica, della sua “forma democratica di dominio”[7], e, più in generale, dello stato borghese, la diversa base sociale e il loro emergere in momenti diversi della lotta di classe imponeva differenti risposte politiche e organizzative. Detto altrimenti, la classe operaia doveva utilizzare parole d’ordine e darsi forme organizzative differenti in Italia, dove da anni si era imposto un bonapartismo figlio del fascismo, dalla Germania e dalla Francia, dove i governi autoritari testimoniavano piuttosto l’instabilità della fase politica.
Fu proprio l’incomprensione di queste differenze che portò la KPD a sostenere in maniera acritica la teoria stalinista del socialfascismo e a rifiutare la tattica del fronte unico, preparando la sconfitta di cui sarebbe stata poi vittima. Le vicende francesi, grazie alla lezione tedesca, furono in parte diverse.
La natura dei governi francesi del ’34 e del ‘35
Nella prospettiva di Trotskij occorreva evitare di ripetere, rispetto al governo di Gaston Doumergue, le stesse errate analisi, e di conseguenza errate parole d’ordine, che erano state avanzate nei confronti dei governi tedeschi di Papen e Schleicher negli anni precedenti. Con questo intento, nel suo primo articolo scritto appena pochi giorni dopo il suo sbarco in Francia, affrontò di petto il tema della definizione del regime politico del paese d’oltralpe. Già dal titolo, Bonapartismo e fascismo, egli volle porre la questione in maniera netta. Gli stalinisti, digiuni di dialettica, ritenevano che il capitalismo finanziario non potesse accontentarsi della democrazia parlamentare e doveva per forza approdare al fascismo come sua forma statuale naturale, ma, obietta Trotskij[8]:
“Il capitalismo non si è mai adattato ad una pura e astratta democrazia, che ha ‘integrato’ con regimi repressivi o l’ha sostituita integralmente con questi; un capitalismo finanziario ‘puro’ non è mai esistito, dal momento che, anche quando è dominante, non opera nel vuoto e deve relazionarsi agli altri strati della borghesia e alla resistenza delle classi oppresse; tra fascismo e democrazia borghese esistono delle forme intermedie e transitorie che si frappongono ora pacificamente, ora attraverso la guerra civile. Queste forme devono essere analizzate di per sé e determinano diverse risposte politiche da parte del proletariato.”
Il governo Doumergue rappresentava, agli occhi del rivoluzionario russo, un esempio lampante delle forme intermedie che lo stato poteva assumere, e, in particolare, del passaggio dalla democrazia parlamentare ad una prima forma di bonapartismo. Il proletariato e la borghesia avevano preso plasticamente posizione nei due campi opposti con le manifestazioni del 6 e del 12 febbraio, un’azione fascista e uno sciopero generale, rendendo superfluo ogni tentativo di conciliazione parlamentare. Era stato dunque necessario cercare un capo di governo al di fuori dell’assemblea nazionale e dei partiti, di cui non era, pertanto, espressione, ma arbitro. Un simile governo, che non aveva la sua base nel parlamento, non era, tuttavia, sospeso in aria, ma era sostenuto dalla burocrazia, dalla polizia e dall’esercito, intenzionati a mettere fine alla situazione di disordine in cui era caduto il paese. Il fatto che il governo si ergesse al di sopra delle classi in lotta non vuole affatto dire che fosse neutrale, tutt’altro: era un espediente per difendere lo stato borghese e della borghesia era pertanto espressione, in particolare della sua parte più forte e decisa, ossia del grande capitale finanziario, che si affidava all’uomo forte, perché in grado di dominare, sebbene per un periodo limitato, lo scontro tra le classi contrapposte. Le proposte di riforma costituzionale che si intendevano portare avanti, con l’obiettivo di rafforzare il presidenzialismo e i poteri dell’esecutivo, non erano altro che il tentativo di dare carattere legale alla svolta in corso.
Trotskij passava poi a chiarire le differenze di questo regime con il fascismo, sia in termini di base di classe che di natura politica. Replicando all’accusa, mossa nei suoi confronti dagli stalinisti, di interpretare il fascismo come espressione della piccola borghesia e non del capitale finanziario, egli dichiara che il fascismo, come il bonapartismo e tutti i governi non proletari, è il governo del capitale finanziario, ma che ogni transizione da una forma di governo ad un’altra non può che avvenire attraverso traumi e crisi, estremamente pericolose per la classe dominante. Poi afferma:
“Il fascismo è uno strumento specifico funzionale a mobilitare e organizzare la piccola borghesia a vantaggio del capitale finanziario. Quando c’è un regime democratico, la borghesia tenta sempre di inculcare nel proletariato fiducia nella piccola borghesia pacifista e riformista. Il passaggio al fascismo è, al contrario, impossibile se la piccola borghesia non sia stata intrisa di odio nei confronti del proletariato. Il dominio di una, e solo una, superclasse, il capitale finanziario, si basa, in questi due sistemi, su rapporti direttamente opposti con le classi oppresse.”
Il fascismo, per sua natura, termina in un regime bonapartista, che in qualche modo, dopo una lotta in cui la piccola borghesia fascista ha difeso lo status quo economico e sociale, restituisce al grande capitale le leve dello stato tramite il controllo della macchina burocratica e militare. Da ciò derivano le somiglianze tra i due regimi, la cui genesi, però, rimane profondamente diversa. Se la vittoria del fascismo segna la sconfitta della classe operaia, l’imporsi del regime bonapartista testimonia solo l’acuirsi della crisi e l’approssimarsi della battaglia, alla quale le organizzazioni della classe devono arrivare preparate nell’analisi e nelle parole d’ordine.
Fronte unico e fronte popolare
È proprio sui compiti che dovrà affrontare il proletariato francese che concentrava la sua attenzione Trotskij negli scritti successivi. La premessa di ogni ragionamento era che il capitalismo, non solo quello transalpino, stava attraversando la sua fase di decadenza e che in questo contesto il parlamento era privo della forza necessaria per conciliare le classi in lotta. I trucchi parlamentari e la retorica democratica a cui ha fatto ricorso la borghesia, con la collaborazione dei socialdemocratici, non riescono più a contenere l’ondata di lotte che si stava per riversare sull’Europa. Lo scontro si sarebbe risolto, dunque, con le armi alla mano[9].
Mentre per il PCF l’avanzata delle destre dimostrava la natura non rivoluzionaria della fase[10], Trotskij leggeva la polarizzazione sociale come un sintomo, il più importante, di una fase prerivoluzionaria. Lo spostamento a destra dei governi e il sorgere di regimi caratterizzati da elementi di bonapartismo, come si è detto, non erano il portato di un movimento della società che andava verso la reazione, ma la risposta della classe dominante all’approfondirsi della crisi. Questa dinamica rafforzava le due ali estreme, sia nel campo operaio che tra i settori delusi e arrabbiati della piccola borghesia. A differenza dell’Italia e della Germania, però, la Francia non conosceva ancora formazioni fasciste di massa, cosa che garantiva ai governi degli uomini forti, Doumergue prima e Flandin poi, una certa stabilità, che non poteva però durare in eterno[11].
La chiave della crisi era nella piccola borghesia, ovvero nella capacità di una delle due principali forze in campo di conquistarsene l’egemonia. Anche in questo caso si fronteggiavano due opposte idee circa il modo in cui i partiti della classe dovevano legare a sé quello strato sociale impoverito dalla crisi. La Francia divenne il laboratorio politico in cui mettere alla prova le due tattiche opposte del fronte unico e del fronte popolare.
Il partito in cui tradizionalmente si riconosceva la piccola borghesia cittadina e contadina era il partito radicale, che, nonostante vivesse un costante calo di consensi nelle urne, continuava ad autoproclamarsi rappresentante di quel vasto strato sociale. L’analisi e la propaganda del PCF dava credito a questa autorappresentazione, nonostante fosse di giorno in giorno più evidente che l’instabilità sociale stava provocando una fuga da quel partito a favore delle formazioni operaie o di destra. In altre parole, i dirigenti comunisti sovrapponevano in maniera meccanica classi e gruppi sociali ai partiti che pretendevano di rappresentarli, ritenendo che il partito radicale fosse la piccola borghesia. Trotskij, al contrario, sottolineò a più riprese che la situazione reale non consentiva simili semplificazioni. In particolare, la teoria marxista aveva sempre indicato come la piccola borghesia non potesse avere una sua politica indipendente rispetto alle due principali classi che animano la società, proletariato e borghesia[12]. A maggior ragione ciò era vero in una fase di crisi come quella che attraversava la Francia, una crisi che, polarizzando la società, lacerava la piccola borghesia.
Da queste analisi antitetiche discendevano le proposte tattiche su cui si giocò il destino del paese. Sottoposte alle pressioni dei lavoratori, che nel febbraio del ’34 avevano dimostrato la loro volontà di opporsi all’assalto fascista, le diverse organizzazioni sindacali e politiche della classe avevano avviato un processo di avvicinamento. La realtà fece sparire in un attimo un decennio di idee maturate nel seno dell’Internazionale comunista, ormai stalinizzata, accantonando in pochi giorni la teoria del terzo periodo. I socialisti, fino a pochi giorni prima definiti socialfascisti, divennero i naturali alleati dei comunisti per arginare un fascismo che non si era ancora concretizzato. L’ennesima capriola del gruppo dirigente del PCF, che, però, non si limitò a questo. Dal momento che il fascismo era, nella loro interpretazione, espressione unicamente del capitale finanziario, la piccola borghesia poteva essere aggiunta al campo antifascista e, seguendo la logica formalista di cui si è detto sopra, ciò implicava un accordo con il partito radicale, lo stesso dalle cui file provenivano i principali esponenti dei governi di quegli anni. Il fronte unico tra le organizzazioni operaie si trasformò in fronte popolare assieme a settori della piccola borghesia.
Il corteggiamento dei radicali si realizzò in due misure, una programmatica e una elettorale. I comunisti rinunciarono ad un proprio programma indipendente, adottando, nei fatti, quello del partito di centro. Inoltre, alle elezioni amministrative del ’35, le prime in calendario dopo i fatti dell’anno precedente, i partiti di sinistra attuarono una desistenza al secondo turno a vantaggio dei candidati radicali. In tal modo il peso istituzionale di questi ultimi risultò enormemente superiore alle reali dimensioni nella società, mentre il loro contributo alla lotta concreta contro il fascismo era praticamente impercettibile. Il PCF consegnò nei fatti le chiavi del fronte popolare non alla piccola borghesia, ma ai suoi presunti rappresentanti, sacrificando l’indipendenza di classe del proletariato sull’altare dell’accordo con i radicali.
Anche Trotskij si poneva il problema della conquista della piccola borghesia, ma non attraverso un’alleanza con il partito radicale, da lui definito “lo strumento politico della grande borghesia più adatto alle abitudini e ai pregiudizi della piccola borghesia”[13], bensì con una tattica che la ponesse sotto le bandiere del proletariato nello scontro in atto tra le classi.
“Il fronte popolare nella sua forma presente – sottolineava – non è nient’altro che l’organizzazione della collaborazione di classe tra gli sfruttatori politici del proletariato (riformisti e stalinisti) e gli sfruttatori politici della piccola borghesia (i radicali)”[14], il cui scopo era quello di legare i lavoratori alla politica del governo bonapartista di Laval, nel frattempo subentrato a Doumergue. Alla passività dei dirigenti socialdemocratici e comunisti bisognava sostituire un programma di lotta in grado di dimostrare ai settori incerti che il proletariato era disposto ad arrivare allo scontro decisivo per il potere e difendere tutte le classi impoverite dalla politica di rapina del grande capitale:
“Il proletariato non nega a nessuno il diritto di lottare fianco a fianco con lui contro il fascismo, contro il governo bonapartista di Laval, contro il piano militare degli imperialisti, contro ogni altra forma di oppressione e violenza, ma non ha bisogno di una formale rappresentanza di tutte le masse di ogni tipo, ma la rappresentanza rivoluzionaria delle masse in lotta.”[15]
Lo strumento per ottenerla erano, nella riflessione di Trotskij, i comitati d’azione, organismi democratici in cui si potessero coordinare tutte le forze impegnate nella lotta, un embrione di contropotere. Il fronte unico e i comitati d’azione, in questa prospettiva, erano espedienti tattici funzionali a conquistare l’ampia massa dei lavoratori all’idea della frattura rivoluzionaria.
Dalla vittoria del fronte popolare a Vichy
La debolezza delle forze rivoluzionarie rese impossibile tramutare queste proposte in pratica e il tradimento delle aspettative suscitate tra i lavoratori si concretizzò nella primavera del ’36. In un clima di crescente mobilitazione, le elezioni parlamentari furono un trionfo per le formazioni di sinistra, che raccolsero oltre tre milioni e mezzo di voti, quasi un milione in più delle elezioni precedenti. A crescere fu soprattutto il PCF, ritenuta l’opzione più conseguente, mentre i radicali subirono un autentico tracollo, perdendo 560.000 voti. A salvare il centro fu la desistenza al secondo turno, che in molti casi permise ai candidati radicali di imporsi nei ballottaggi, ridimensionandone la disfatta[16].
Il protagonismo operaio non si espresse solo nel voto. Negli stessi giorni in cui le sinistre si imponevano nelle urne, un movimento di massa esplose nelle fabbriche del paese, che furono, in molti casi, occupate. La prospettiva delineata da Trotskij si stava concretizzando: i precedenti governi bonapartisti di Doumergue e Laval non erano riusciti a porre un freno alla lotta di classe, ma le elezioni, vinte dai partiti di sinistra, non erano ritenute più dai lavoratori lo strumento privilegiato per affermare il proprio potere, che si doveva imporre con il conflitto nei luoghi di lavoro e attraverso i comitati operai, sorti come funghi in tutto il paese. Gli scioperi si estesero da Parigi a tutto il paese e dalle fabbriche metalmeccaniche a ogni settore produttivo. Il sindacato spesso era costretto a seguire l’evolversi degli avvenimenti, non avendo nei luoghi di lavoro la forza di governarli.
I primi giorni di giugno del ’36 sono decisivi, sono uno di quei momenti nella storia della lotta di classe che valgono decenni, mettendo alla prova le analisi e le parole d’ordine dei vari protagonisti. Il neonato governo guidato dal socialista Blum – senza la partecipazione dei comunisti ed egemonizzato dai socialisti di destra e dai radicali – provò a chiudere immediatamente il capitolo concedendo miglioramenti salariali e maggiori diritti sindacali, in primis le 40 ore di lavoro settimanale e il divieto di licenziamento. Concessioni importanti da parte del padronato che “credette alla minaccia dell’istituzione di un nuovo regime economico in cui avrebbe perso tutto il suo potere e i suoi profitti. Si rassegnò a cedere”[17]. Nonostante la pressione congiunta del padronato, del governo e dei vertici sindacali, la battaglia proseguì nelle fabbriche, dove gli scioperi continuarono per un’altra settimana. Secondo i più acuti osservatori della borghesia: “Parigi ha la chiarissima sensazione che la rivoluzione è cominciata”[18], e Trotskij sottolineò come gli eventi di quei giorni segnalassero che nell’anima del proletariato non ci fosse la base per il fronte popolare, ma si stesse mettendo in discussione l’esistenza stessa del dominio della borghesia[19]. Nelle stesse ore in cui queste parole venivano scritte, proprio quando più acuta era la crisi dei socialisti e meno forte il loro controllo sulla classe, vennero in loro aiuto gli stalinisti. L’11 giugno Thorez riunì la direzione del PCF e, proprio nel momento in cui la vittoria era alla portata, suonò la ritirata, nascondendola con lo slogan “bisogna saper terminare uno sciopero” e ribadendo il proprio sostegno al fronte popolare. Ci vorranno ancora alcuni giorni per placare tutte le mobilitazioni, ma la classe operaia, priva di una direzione all’altezza, deve accontentarsi dei miglioramenti parziali che ha ottenuto: ancora una volta le riforme sono il sottoprodotto della rivoluzione.
Potrebbe sembrare, in un bilancio superficiale, comunque una vittoria, almeno contro il fascismo ma è, a ben vedere, una vittoria di Pirro, gravida di peggiori sconfitte. Dopo appena due anni i radicali gettarono la maschera e ruppero con il fronte popolare, virando ancora più a destra l’asse del governo e archiviando anche la fase delle riforme. I miglioramenti ottenuti con l’occupazione delle fabbriche e gli scioperi del ’36 furono abrogati dal governo Daladier, radicale sostenuto, con un’operazione trasformistica, dai partiti di destra. Le 40 ore settimanali e il divieto di licenziamento furono smantellati, dando il la ad una feroce campagna padronale nelle fabbriche, da cui furono espulsi a migliaia i delegati più combattivi. Tradito dagli errori delle sue organizzazioni, il proletariato francese aveva perduto il potere che per alcuni mesi era stato, nei fatti, nelle sue mani[20].
[1] I dati sono desunti da G. Caredda, Il fronte popolare in Francia 1934-1938, Einaudi 1977, pagg. 3-10.
[2] Ibid., pagg. 10-20.
[3] Il partito radical-socialista, più comunemente conosciuto come partito radicale, era una formazione di centro, con una base nella borghesia delle campagne. Il laicismo e la difesa della proprietà privata ne costituivano i punti programmatici fondamentali.
[4] L. Trotskij, La sola via, in Scritti contro il nazismo 1930-1933, AC Editoriale Coop 2010, pag. 146.
[5] Trotskij, La sola via cit. pag. 150.
[6] Trotskij, La sola via cit., p. 202: “Se abbiamo preteso con insistenza una distinzione tra bonapartismo e fascismo, non è affatto per pedanteria teorica. La terminologia serve a precisare i concetti e i concetti, in politica, servono a distinguere le forze reali. […] I rapporti tra socialdemocrazia e governo bonapartista da una parte e tra bonapartismo e fascismo dall’altra, senza risolvere le questioni fondamentali, determinano in qual modo e con quale ritmo si delineerà la lotta tra il proletariato e la controrivoluzione fascista”.
[7] Trotskij, La sola via cit., pag. 155.
[8] L. Trotskij, Bonapartism and fascism, in New International, Vol.1 No.2, August 1934, pagg.37-38.
[9] L. Trotskij, Dove va la Francia?, in Scritti 1929-1936, Mondadori editore 1968, pag. 485. L’articolo è dell’ottobre 1934.
[10]Il segretario del PCF, Maurice Thorez, nel CC dell’ottobre 1935 descrive la fase: «le masse operaie non debbono scegliere tra dittatura proletaria e democrazia, ma tra democrazia borghese e fascismo» (Pour la cause du peuple, in Œuvres de Maurice Thorez Vol. II tomo X, Editions Sociales 1952 pag. 32)
[11] L. Trotskij, Dove va, art. cit. pagg. 487-490.
[12] Ibid. pag. 493.
[13] L. Trotskij, Ancora una volta, dove va la Francia?, in Opere scelte. Vol. VIII. La quarta internazionale: la rivoluzione permanente, Prospettiva edizioni 2006, pag. 198. L’articolo originale è del marzo 1935.
[14] L. Trotskij, Committees of action – not people’s front, New Militant, Vol. 1 No. 50, 14 December 1935, pagg 1; 4.
[15] Ibid.
[16] Caredda, op. cit. pagg. 98-101.
[17] A. Delmas, A gauche de la barricade : chronique syndicale de l’avant-guerre, Éditions de l’Hexagone, 1950, p.98.
[18] H. de Kerillis, Les grévistes maîtres de la rue, in l’Echo de Paris 12 giugno 1936. L’autore era un deputato repubblicano, simpatizzante del fascismo italiano e fiero nazionalista.
[19] L. Trotskij, La fase decisiva, in Scritti 1929-1936, Mondadori editore 1968, pp. 526-531.
[20] Caredda, op. cit. pagg. 252-305.