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LENIN 1924-2024 – seconda parte

Completiamo la pubblicazione degli articoli del nostro giornale Rivoluzione dedicati al centenario della morte di Lenin.


 

LENIN IMPEDI’ LO SVILUPPO DI UNA DEMOCRAZIA PARLAMENTARE IN RUSSIA?

di Alessandro Del Carlo

La Rivoluzione d’Ottobre e i suoi dirigenti hanno subito fin dall’inizio un’incessante propaganda da parte delle forze politiche controrivoluzionarie (straniere e non) in guerra contro il nuovo Stato operaio.

Mentre i partiti più reazionari parlavano già di “complotto giudaico”, l’intellighenzia liberale e socialdemocratica occidentale, in linea con gli interessi della borghesia russa, accusava Lenin e i bolscevichi di aver arrestato lo sviluppo spontaneo della Rivoluzione di Febbraio, che aveva deposto lo Zar Nicola II consegnando il potere al parlamento russo, la Duma.

Secondo questa concezione, la Rivoluzione d’Ottobre fu un’imposizione politica del partito bolscevico contro il governo democratico del presidente Kerenskij, “vero rappresentante” del popolo russo. In realtà se i bolscevichi non avessero preso il potere, in Russia non ci sarebbe stata una “pacifica” democrazia liberale, ma un regime semi-fascista. Gli interessi della classe dominante non erano quelli di mantenere e proteggere la democrazia, ma di creare uno Stato reazionario dittatoriale che schiacciasse le organizzazioni operaie e scongiurasse il rischio di una rivoluzione sociale.

La deriva autoritaria del Governo Provvisorio

Dopo la caduta dell’autocrazia zarista, la borghesia assunse il potere politico a malincuore, senza l’intenzione di portare avanti le rivendicazioni progressiste per cui il popolo russo era insorto e anzi auspicando una controrivoluzione: che questa provenisse dall’interno attraverso un colpo di Stato militare o che arrivasse dall’intervento di una potenza imperialista straniera non era rilevante.

Fin dalla nascita del Governo Provvisorio, infatti, le forze reazionarie presenti nell’apparato statale tentarono di ristabilire il vecchio ordine zarista e di portare la società russa verso la barbarie dell’autoritarismo, ma ogni complotto fu sventato dalle mobilitazioni di massa dei lavoratori.

Dopo poco più di un mese dalla Rivoluzione di Febbraio, il ministro degli Esteri Miljukov, il leader del partito liberale, tentò un golpe contro il crescente potere del Soviet di Pietrogrado, ribadendo le mire imperialistiche della borghesia nella Prima guerra mondiale contro le necessità del popolo, che era insorto proprio per porre fine alla guerra.

Il piano di Miljukov fallì quando decine di migliaia di operai e soldati scesero nelle piazze di Pietrogrado manifestando sia per una “pace immediata senza indennità né annessioni” sia contro il carattere reazionario del governo.

Le proteste nelle strade andarono avanti per giorni, fino a quando il ministro fu costretto a dimettersi, un chiaro esempio della tenacia e della crescente combattività del popolo russo in quei mesi.

Un secondo tentativo di golpe fu poi portato avanti dal generale Kornilov, che nell’agosto del 1917 marciò su Pietrogrado accompagnato da diversi reggimenti, con l’intenzione di creare un’autocrazia militare in funzione controrivoluzionaria.

Ma, ancora una volta, non furono le truppe del governo ad arrestare l’avanzata della reazione, bensì le milizie degli operai organizzate attraverso i soviet e il partito bolscevico, che ebbe il compito fondamentale di coordinare queste forze e di prepararle per un’insurrezione generale che instaurasse un governo socialista controllato direttamente dai lavoratori.

Con la rivoluzione, i partiti riformisti, dai menscevichi ai socialrivoluzionari, mostrarono la loro vera natura e si piegarono agli interessi della reazione, partecipando anche ai governi controrivoluzionari bianchi, che dopo averli usati non avrebbero esitato a reprimerli.

Infatti, dopo pochi mesi dagli eventi dell’Ottobre, nel Governo provvisorio panrusso anti-bolscevico di Omsk, l’ammiraglio Kolchak veniva investito di tutti i poteri attraverso un colpo di Stato contro il governo dei socialrivoluzionari, instaurando una dittatura che durò fino alla fine della guerra. Modelli simili di autoritarismo sorgevano in tutti i territori controllati dalle truppe bianche e dagli eserciti stranieri imperialisti.

L’Assemblea Costituente e i soviet

La storiografia liberale giustifica la nascita di queste armate controrivoluzionarie considerandole come una risposta alla dissoluzione dell’Assemblea Costituente da parte dei bolscevichi nel gennaio 1918 (anche se l’Esercito dei Volontari del generale Denikin e le divisioni controrivoluzionarie bianche iniziarono ad organizzarsi subito dopo la presa del potere degli operai a Pietrogrado). La parola d’ordine della convocazione dell’Assemblea Costituente aveva avuto un ruolo nella propaganda anti-zarista e, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il partito bolscevico indisse effettivamente le elezioni. Ma la rivoluzione aveva instaurato un nuovo sistema di potere basato sui soviet, consigli democraticamente eletti di operai, contadini e soldati. Al confronto, l’Assemblea Costituente era un organismo anacronistico e scarsamente rappresentativo.

Basti dire che il partito che risultò vincitore, quello dei socialrivoluzionari, votato massicciamente dai contadini, si era nel frattempo diviso tra un’ala (maggioritaria) che sosteneva i bolscevichi e una che li avversava ferocemente. Lenin disse che nelle campagne si era votato per un partito “che non esisteva più”. I bolscevichi, che avevano comunque ottenuto la maggioranza nelle principali città e tra i soldati, furono costretti a sciogliere la Costituente quando l’Assemblea si rifiutò di riconoscere il potere sovietico e di approvare il decreto di distribuzione della terra del governo sovietico, ossia una delle rivendicazioni più importanti della rivoluzione.

L’episodio non rappresentò un colpo di Stato, ma uno scontro tra due forme di potere inconciliabili: la nuova democrazia operaia contro il datato e impopolare sistema del parlamentarismo borghese.

Quando la reazione tentò di soffocare lo Stato sovietico con la forza, in milioni si radunarono nelle file dell’Armata Rossa per difenderlo, ma quando l’Assemblea Costituente fu sciolta, nessuno protestò, precisamente perché il suo valore rappresentativo reale era nullo, mentre la democrazia operaia dei soviet garantiva un livello di iniziativa politica irraggiungibile da qualunque apparato borghese.

La Rivoluzione d’Ottobre non ha solamente impedito la degenerazione della Russia verso l’autocrazia e la dittatura reazionaria, ma ha addirittura superato il parlamentarismo portando alla creazione del modello di Stato più democratico della storia, guidato dai lavoratori attraverso i soviet.

(da Rivoluzione n. 110)


 

LE POLITICHE ECONOMICHE DI LENIN

di Silvia Forcelloni

Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, si aprì in Russia una fase di entusiasmanti conquiste ma anche di enormi difficoltà, soprattutto nel campo della gestione dell’economia. Leggendo certi manuali di storia, scopriamo che in quegli anni i bolscevichi, accecati dal fanatismo ideologico, avrebbero inizialmente provato a procedere con forme di collettivizzazione brutali, il cosiddetto “comunismo di guerra”, per poi, una volta scottatisi le mani, reintrodurre forme di libero mercato.

Si evita, ovviamente, di contestualizzare queste scelte, necessarie per la sopravvivenza della rivoluzione, al fine di sminuire l’impatto dell’economia pianificata, le cui fondamenta sono state gettate proprio grazie alle politiche economiche di Lenin e del partito bolscevico.

Il comunismo di guerra

In realtà, Lenin non aveva nessuna intenzione di imporre al popolo sovietico un programma di collettivizzazione calato dall’alto. In un primo momento, l’iniziativa fu lasciata alle stesse classi popolari. Mentre gli operai estendevano i soviet nelle fabbriche, i contadini poveri cacciarono i proprietari terrieri e cominciarono a ridistribuire la terra. Da parte sua, il governo dava seguito alle parole d’ordine della Rivoluzione d’Ottobre. Tra i primi decreti economici dello stato sovietico ci fu infatti l’abolizione di ogni proprietà terriera privata, la nazionalizzazione e unificazione delle banche e il rifiuto del debito estero. Non vennero create però grandi fattorie collettive per aumentare la produttività agricola, secondo il programma originale dei bolscevichi. Pur di conquistare la fiducia dei contadini le preferenze ideologiche vennero meno e le terre pubbliche vennero concesse in usufrutto su base individuale, permettendo nei fatti agli agricoltori poveri di avere un loro appezzamento da coltivare.

Nelle condizioni russe di un capitalismo poco sviluppato e con la produzione collassata dopo la Prima guerra mondiale, Lenin prevedeva che per tutto un periodo i lavoratori avrebbero dovuto imparare a gestire l’industria con il supporto tecnico dei vecchi esperti dell’epoca zarista. Era impossibile impostare una pianificazione economica, senza prima lavorare a un rapido sviluppo delle forze produttive. Soprattutto, la Russia isolata non poteva svilupparsi in senso socialista senza l’estensione della rivoluzione ad altri paesi, senza l’aiuto dei lavoratori occidentali e della loro tecnica avanzata. L’inflazione era fuori controllo, il sistema ferroviario dissestato, la pace di Brest-Litovsk e la guerra civile avevano comportato la perdita di regioni ricche di grano e carbone.

La guerra civile, in particolare, ebbe un impatto devastante, costringendo il paese nella morsa d’assedio di 21 eserciti stranieri in supporto alle forze controrivoluzionarie dei Bianchi. La priorità assoluta diventava organizzare e sfamare l’immensa Armata Rossa creata dal nulla, mentre i Bianchi portavano il terrore nelle campagne con la complicità dei contadini ricchi che nascondevano il grano. Per tre anni i contadini combatterono al fianco degli operai contro i grandi padroni feudali e l’imperialismo, morendo a milioni sotto i colpi delle armi, della fame e delle malattie. Furono queste condizioni disperate a rendere necessarie le misure estreme del “comunismo di guerra”: monopolio dello Stato sul grano, divieto di commercio e requisizione delle eccedenze di grano. O questo, per difendere la rivoluzione, o la frusta della controrivoluzione.

Questa politica permise ai bolscevichi di sostenere il titanico sforzo militare dell’Armata Rossa. Il comunismo di guerra comportava però costi molto alti, sul piano economico e politico: lo sviluppo delle aziende collettive di Stato stentava, combinandosi a un pessimo raccolto; le requisizioni di grano avevano affossato l’economia contadina, mentre il mercato nero e la speculazione prosperavano. Soprattutto l’alleanza del governo operaio con i contadini scricchiolava. Il contadino, per sua natura, vedeva il grano come il frutto del proprio lavoro e concepiva la libertà come libertà di venderlo. Con il divieto di commercio non aveva più incentivi a produrne di più che per il proprio sostentamento, lasciando a secco le città.

La Nuova Politica Economica (NEP)

Con la fine della guerra civile si posero finalmente le basi per adottare una politica diversa. Lenin sapeva che per costruire anche solo le basi dell’industria socialista serviva accumulare pane, carbone, specialisti e capitali. Quindi la produzione doveva aumentare ad ogni costo, anche ripristinando forme di mercato, sfruttando lo stimolo dell’interesse privato. Si aprì una nuova fase, quella della Nuova Politica Economica, la NEP. Il governo abolì la requisizione di grano, sostituita da un’imposta in natura. Si autorizzò la compravendita sul mercato e una certa accumulazione di capitale. Il nuovo corso avrebbe dato respiro all’economia delle campagne e agevolato la piccola industria, che avrebbe fornito prodotti di consumo ai contadini in cambio del grano. Queste concessioni al capitalismo furono definite da Lenin una ritirata strategica necessaria, ma transitoria. Un significativo passo indietro, da monitorare, per poter poi avanzare di nuovo. C’era tutto il rischio di una crescita della diseguaglianza nelle campagne e della ripresa di elementi borghesi, possibile futura base della controrivoluzione. Il governo dei soviet deteneva comunque le industrie, le ferrovie e l’esercito e avrebbe sorvegliato i nuovi spazi di manovra lasciati al capitalismo, traendone vantaggio a favore dell’edificazione industriale.

L’industria tornò in pochi anni ai livelli dell’anteguerra e la produzione agricola aumentò. Serviva guadagnare tempo perché gli operai potessero dimostrare ai contadini, con l’esperienza, di essere in grado di organizzare una produzione e distribuzione di massa, un sistema socialista con migliori condizioni anche per loro. In effetti, non fu la breve stagione della NEP ma l’instaurazione dell’economia pianificata a permettere l’enorme crescita degli anni successivi. In pochi decenni, nonostante la degenerazione stalinista, la Russia da paese semifeudale diverrà la seconda potenza mondiale. Vedrà raddoppiare la speranza di vita e lancerà il primo uomo nello spazio. Niente del genere era mai stato realizzato prima. Nelle parole di Trotskij, il socialismo aveva difeso le sue ragioni “con il linguaggio del ferro, del cemento e dell’elettricità”.

(da Rivoluzione n. 111)


 

“RIMUOVETE STALIN” – L’ULTIMA BATTAGLIA DI LENIN

di Lorenzo Cipollone

Nella tradizione stalinista Lenin viene rappresentato come un leader infallibile e quasi divino, tuttavia quando si tratta della sua ultima battaglia, quella contro la burocrazia e l’emergente stalinismo, viene rapidamente messo da parte e dimenticato.
Compito dei comunisti oggi è rendere giustizia al più grande rivoluzionario dello scorso secolo.

L’ascesa della burocrazia

La vittoria della rivoluzione in Russia rappresentò un punto di svolta per le masse del paese. La società era nelle loro mani, il potere apparteneva ai lavoratori.

Ma come fare per consolidare questa vittoria? La Russia era nelle condizioni peggiori immaginabili per costruire il socialismo: un’economia arretrata e distrutta dalla guerra, una guerra civile, l’invasione di 21 eserciti stranieri, il tradimento di tutti i partiti eccetto il bolscevico. Soprattutto, la rivoluzione non si era estesa al di fuori della Russia, costringendo il nuovo Stato sovietico all’isolamento.

I lavoratori russi dimostrarono una tenacia e una fedeltà alla rivoluzione eroiche, con turni di lavoro massacranti spesso su base volontaria e l’impegno diretto di milioni di loro nella guerra civile. Tuttavia le masse non si possono sacrificare a tempo indeterminato. Ben presto i lavoratori persero d’entusiasmo; e più le masse diventavano passive, più una casta di amministratori, tecnici e burocrati, nello Stato e nel Partito comunista, guadagnava spazio e indipendenza, iniziando a perseguire i propri interessi specifici, venuto meno il controllo dei lavoratori sul loro operato. Questa fu la base per lo sviluppo della burocrazia sovietica, il cui interprete più fedele sarebbe diventato Stalin.

Il ruolo di Stalin

La possibilità che lo Stato sovietico si potesse elevare al di sopra della società e staccare dalle masse era stata da subito un pericolo ben chiaro agli occhi di Lenin. La lotta contro queste tendenze estranee nel partito fu subito condotta con durezza. Con l’obiettivo di sradicare questa nascente burocrazia, Lenin spinse per formare la Rabkrin (Commissione per l’ispezione operaia e contadina), con a capo quello che era riconosciuto come un forte e capace organizzatore: Stalin. Ma nelle sue mani la Rabkrin, nata per combattere la burocrazia, ne divenne uno strumento; in pochi anni Stalin la adoperò per occupare sempre più postazioni di comando nel partito ed espellere i suoi avversari politici. Il tutto mentre Lenin era confinato a letto per la malattia che in pochi anni l’avrebbe ucciso, e la cricca di Stalin impediva che gli arrivassero informazioni precise dal partito.

Fu solo col cosiddetto “affare georgiano” che Lenin si rese conto dei metodi che Stalin difendeva e adoperava. In qualità di commissario alle Nazionalità, Stalin aveva organizzato l’integrazione della Georgia nella federazione sovietica con un approccio burocratico e autoritario, senza alcun riguardo, nonostante le sue origini georgiane, per i diritti democratici di quel popolo a lungo oppresso dal nazionalismo russo. I dirigenti bolscevichi georgiani a lui ostili furono epurati e sostituiti con nullità politiche e uno degli oppositori arrivò addirittura a essere colpito fisicamente da un suo scagnozzo. Dopo essersi adoperato perché i compagni georgiani fossero debitamente difesi davanti al congresso del partito, Lenin si dedicò a una lotta diretta contro Stalin e la burocrazia che rappresentava.

La lotta di Lenin

Lenin non ha mai affrontato il problema della burocrazia come una semplice questione di tendenze individuali: il problema non erano i metodi che arbitrariamente Stalin aveva adottato (come invece ha professato per anni la burocrazia sovietica dopo la morte di Stalin), ma l’isolamento e la stanchezza della rivoluzione segregata in un paese arretrato. Era un’ovvietà per Lenin, come del resto per l’interezza del partito prima delle “innovazioni” teoriche di Stalin, che l’unica salvezza per l’Unione Sovietica fosse la rivoluzione in altri paesi più avanzati, la quale avrebbe spazzato via la passività e lo sfinimento accumulati dai lavoratori, la vera base materiale su cui poggiava la burocrazia.

Tuttavia, mentre il partito si muoveva per estendere la rivoluzione negli altri paesi, Lenin spezzò gli indugi e si mobilitò per lottare attivamente contro il più influente burocrate del partito: Stalin. Una lotta, la sua, che fu costretto a mantenere nei limiti del Comitato Centrale, per evitare che il partito si scindesse e manifestasse apertamente l’elemento burocratico piccolo-borghese al suo interno. Ciononostante i suoi testi parlano chiaro. Si veda il severo giudizio che espresse sull’operato della Rabkrin sotto Stalin, o il discorso che pronunciò all’ultimo congresso in cui fu presente: la Rabkrin “non ha funzionato a modo nostro” e sembra essere “guidata da una mano segreta, illegale […] forse di uno speculatore privato o di un capitalista, o di tutti e due”. Non per ultimo, il suo testamento politico, nel quale Lenin dà un giudizio inclemente del ruolo che Stalin sempre più giocava: “Il compagno Stalin […] ha concentrato nelle sue mani un immenso potere, e io non sono sicuro che egli sappia servirsene sempre con sufficiente prudenza.” In un post-scriptum Lenin precisa l’obiettivo del suo testamento politico: “rimuovere Stalin da questo incarico e di designare a questo posto un altro uomo, che si distingua per essere più tollerante, più leale, meno capriccioso.” Alla luce di questi scritti, l’idea avanzata dagli stalinisti come dai capitalisti, della continuità tra bolscevismo e stalinismo, crolla come un castello di carte.

La battaglia dopo Lenin

La malattia e la successiva morte di Lenin, gli impedirono di combattere apertamente la guerra che aveva dichiarato alla burocrazia, e lo costrinsero ad appoggiarsi su Trotskij, che dopo la sua dipartita fece propria la battaglia contro lo stalinismo e le sue emanazioni politiche sempre più esplicitamente antimarxiste, dal “socialismo in un paese solo” alla “teoria del terzo periodo”. Le rivoluzioni di quegli anni in Germania, Italia e Ungheria fallirono per errori della loro direzione, il che lasciò la strada libera alla burocrazia per consolidarsi definitivamente, mentre l’Opposizione di Sinistra veniva massacrata ed esiliata. Se la burocrazia sovietica si è saputa trasformare nell’arco di un secolo in una nuova classe capitalista e sfruttatrice, è oggi quantomai necessario per i rivoluzionari apprendere queste lezioni e farne armi affilate per portare a termine la lotta per il socialismo in tutto il mondo.

(da Rivoluzione n. 112)

 

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