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Il risultato delle elezioni regionali e della consultazione referendaria rafforza temporaneamente il governo e mette in difficoltà l’opposizione di destra. Ciò che salta subito agli occhi è che, ancora una volta, Salvini non ha avuto l’agognata spallata al governo.
È un voto fortemente condizionato dalla pandemia del Coronavirus e dalla sua gestione, che compatta fasce di elettorato attorno a chi si ritiene abbia governato bene l’emergenza, producendo plebisciti come quello per Zaia e De Luca.
Il consolidamento avviene tuttavia sulla base di un ribaltamento dei rapporti di forza tra il partito democratico e il M5S rispetto agli attuali equilibri parlamentari, oltre che dall’ulteriore crescita delle liste personali dei candidati governatori, che aumentano l’instabilità interna a partiti e coalizioni.
Il Partito democratico emerge come primo partito in tutte le regioni, se si eccettuano il Veneto e la maggioranza relativa ottenuta dalla lista personale di Toti in Liguria. Che piaccia o meno, il Partito democratico, depurato dai renziani, viene visto come il voto utile contro la destra di Salvini e Meloni.
Il Movimento 5 stelle è sicuramente ridimensionato dal voto, ma non scompare. Con percentuali che vanno dal 7% di Liguria, Toscana e Marche al 10% di Campania e Puglia. Sono percentuali che in chiave di un’elezione politica potrebbero anche valere qualcosa di più. Tuttavia il dato politico principale è testimoniato da una dichiarazione di Di Maio a poche ore dalla chiusura delle urne: “Lo schema a tre non ha funzionato. Dobbiamo tenere conto del fatto che dove siamo in coalizione spesso andiamo meglio nelle urne.”
In altre parole, i 5 Stelle devono rendere organica l’alleanza col Pd, all’interno della quale cercheranno di presentarsi come l’anima “popolare”.
La prospettiva del terzo polo è definitivamente tramontata e i grillini che la perseguono, come Di Battista, sono condannati all’irrilevanza. Tuttavia lo scontro nel M5S non sarà indolore e causerà fibrillazioni nei gruppi parlamentari e nella risicata maggioranza di Conte al Senato.
Ogni ipotesi di ricostruire un centro politico ottiene dal voto un colpo devastante. Italia Viva realizza percentuali risibili dove si presentava da sola (0,6% in Veneto, 1,7 in Puglia) e non è determinante nemmeno per l’elezione di Giani in Toscana, dove a fronte di un distacco di otto punti dal Centrodestra, raccoglie poco più del 4%. Le dichiarazioni trionfanti di Renzi dicono molto sul delirio di onnipotenza del personaggio, ormai sempre più macchiettistico.
A destra Salvini spara ancora un colpo a vuoto, dopo la crisi di governo dell’agosto 2019 e le regionali emiliano-romagnole. La Lega, rispetto alle Europee del 2019, dimezza i suoi voti (Veneto a parte): passa da 1.954.000 a 892.000 voti. In Toscana il Carroccio perde un terzo dei consensi, in Campania crolla dal 19,2 al 5,6%, in Puglia addirittura dal 25,3 al 9,6 %. Intendiamoci: le forze di destra sono ancora molto forti (a parte la debacle della Campania, non scendono mai sotto il 35% dei consensi). Tuttavia, buona parte dei voti di Salvini si sposta verso Fratelli d’Italia, che in Toscana cresce dal 4,9 al 13,5 e nelle Marche, unica regione strappata agli avversari, elegge il proprio candidato a governatore.
Si tratta di una competizione sullo stesso terreno, quello del populismo e della demagogia antisistema, che dunque difficilmente potrà arrivare a una conciliazione, ma che alzerà costantemente il livello dello scontro fra i due “alleati”.
Salvini ha provato a ripetere in Toscana la strategia dell’Emilia, con una campagna elettorale iper presenzialista e una candidata improbabile che gli lasciasse tutto lo spazio mediatico. Il risultato è stato ancora peggiore e ora Salvini vede davanti a sé la prospettiva logorante di altri anni all’opposizione.
La crescita di Zaia, suo antagonista naturale, che pare per il momento inarrestabile, è un’altra fonte di preoccupazione, aggiungendo alla concorrenza dall’esterno di Giorgia Meloni un’insidia interna.
Non si traduce in un’aperta sfida alla leadership, intanto per una questione di tempi, e poi perché la classe dominante del nord (con la quale Zaia ha certo legami più stretti di Salvini) oggi non ha altra strada che fare la massima pressione sul governo Conte per ottenere il massimo. Tuttavia lavoreranno ai ricambi futuri e tra questi il governatore del Veneto è una figura di rilievo.
Nello schieramento del centrodestra si apre dunque una stagione di guerriglia prolungata, da cui è difficile oggi capire chi uscirà vincitore e che rende meno immediato il pericolo di un governo Salvini. Questo tuttavia non significa che sotto il centrosinistra regnerà la pace sociale, anzi: proprio il ridimensionamento della destra lascia più spazio a mobilitazioni sociali anche contro questo governo.
A sinistra il risultato è ancora una volta disarmante. Giudizio valido sia per le forze alleate al Pd, che eleggono solo due consiglieri, in Liguria e in Veneto, sia per quelle al di fuori delle alleanze. In Toscana la lista attorno a Tommaso Fattori, che contava due eletti in regione, non entra in consiglio e dimezza i voti assoluti rispetto al 2015, nonostante il 15% in più di affluenza.
Quasi tutte le altre liste della sinistra “radicale” ottengono risultati che solo in rari casi, e a stento, superano quelli da prefisso telefonico. Potremmo definirle forze di testimonianza, che per di più testimoniano spesso un messaggio sbagliato.
Tutte queste forze hanno accompagnato la campagna per le loro liste a quella per il No al referendum. Una posizione che abbiamo condiviso, ma condotta da tutti questi soggetti (nessuno escluso, dal più moderato al più radicale), con toni quasi apocalittici, da fine del mondo. Si lanciava il messaggio che ci saremmo trovati al fascismo alle porte in caso di vittoria del Sì, il tutto condito da appelli alla “difesa della Costituzione e del Parlamento”. Una Costituzione già sfigurata rispetto a quella del 1948, mai attuata nelle sue parti più progressiste, ed oggi grimaldello per tutti gli attacchi ai diritti sociali e democratici degli ultimi vent’anni.
Basti ricordare che le ultime leggi in qualche misura progressive (riforma sanitaria, diritto all’aborto, ecc.) sono uscite dal parlamento oltre 40 anni fa: difficile, per milioni di persone, dare un contenuto sociale riconoscibile alla “difesa della democrazia” sbandierata dalla campagna ufficiale per il No.
Era difficile essere più distanti dal sentire comune delle masse. Milioni di lavoratori e di giovani considerano le istituzioni che ci governano siano marce e totalmente screditate. Assistano alla corsa alle poltrone senza esclusioni di colpi (e di reati) e provano disgusto. Il distacco dai partiti politici esistenti da parte delle classe oppresse è senza precedenti, e non a torto!
Davanti a un quesito referendario che chiedeva il taglio dei parlamentari, seppure in maniera demagogica e funzionale alla sopravvivenza politica dei 5 Stelle, era inevitabile che vincesse il Sì.
Tanti lavoratori lo hanno visto come un mezzo per esprimere il loro rifiuto del sistema, in maniera analoga a quando avevano votato NO al referendum voluto da Renzi nel 2016.
Interessante l’analisi dell’Istituto Cattaneo al riguardo: “Chi aveva giudicato quella del 2016 una “schiforma” (così la chiamarono alcuni suoi oppositori) ha in larga misura aderito alla riforma per la riduzione dei parlamentari. Al contrario la maggior parte di chi aveva appoggiato il cambiamento della Costituzione voluto da Renzi ha in larga misura bocciato il taglio dei parlamentari.”
Il Sì al referendum non significa il consolidamento di un blocco autoritario, né l’attuazione del piano golpista della P2 di Licio Gelli. Ha un carattere contraddittorio e del tutto transitorio.
Si inserisce nel quadro di estrema instabilità politica a cui assistiamo da 10-15 anni a questa parte. Forze politiche si gonfiano e ottengono vittorie strabilianti, come il Pd di Renzi nel 2014, i grillini alle ultime politiche o la Lega alle scorse europee, per poi sgonfiarsi altrettanto velocemente. Non abbiamo dubbi: ne nasceranno e ne periranno altre, alla stessa velocità. Ciò a causa del terremoto economico, politico e sociale che sta sconvolgendo l’Italia dal 2008-2009 a questa parte e che non ha alcuna intenzione placarsi, ma anzi prepara nuove, terribili, scosse.
Il governo Conte si è giovato dell’emergenza coronavirus per mantenersi al potere. Questo risultato elettorale lo consolida e oggi la Commissione europea arriva in suo aiuto, invitando gli Stati dell’Ue ad inserire gli aiuti del Recovery plan nella prossima legge di bilancio. La borghesia ha bisogno disperato di stabilità e cerca di puntellare gli esecutivi in tutti i principali paesi. Anche i soldi del Mes alla fine verranno chiesti, Di Maio troverà il modo di giustificare la millesima capriola.
Il consolidamento del governo significa dunque il consolidamento della pace sociale?
Niente affatto. In arrivo c’è una vera e propria tempesta. Siamo nel bel mezzo della peggiore crisi economica da cent’anni a questa parte. Nonostante il blocco dei licenziamenti, già 800.000 persone hanno perso il posto di lavoro. Confindustria chiede a gran voce libertà di licenziare e di avere totale mano libera sui contratti.
La scuola è stata mandata letteralmente allo sbaraglio, senza alcuna sicurezza per studenti e insegnanti e le centinaia di scuole chiuse in tutta Europa a causa della pandemia indicano lo scenario che affronteremo anche in Italia.
I fondi dall’Europa, anche se arrivassero tutti e celermente, sarebbero assolutamente insufficienti per affrontare l’emergenza. La Fondazione Agnelli calcolava nel novembre 2019 che solo per mettere in sicurezza le scuole italiane servirebbero 200 miliardi di euro! D’altra parte il padronato ha già detto chiaramente che bisogna smettere di erogare aiuti e sussidi ai cittadini in difficoltà, quei soldi devono andare alle imprese per puntellare i loro bilanci. Sarà uno scontro a tutto campo.
La soddisfazione dei vari Zingaretti e Di Maio è destinata ad essere effimera. Le contraddizioni si accumulano da ogni parte e nessuna trova soluzione. Esplosioni di rabbia spontanee saranno inevitabili e avverranno prima di quello che molti inguaribili pessimisti a sinistra pensino e di quanto i dirigenti sindacali provino ad evitare, intenti a garantire la permanenza in vita del governo giallorosso come “male minore”. Non saranno solo nelle fabbriche, come nelle giornate di marzo, ma anche a livello studentesco, con le scuole riaperte. Né Conte, né Zaia, né De Luca potranno fermarle. Sinistra Classe Rivoluzione investe in questa ripresa del conflitto sociale, cosciente che nelle lotte si forgeranno le forze migliori per lo scontro di classe imminente in Italia e a livello mondiale.