Il crollo di SVB mostra la fragilità dell’economia capitalista
14 Marzo 2023L’anniversario sanguinoso della guerra in Ucraina: bilanci e prospettive
17 Marzo 2023A febbraio su spinta di Calderoli, Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge sull’autonomia differenziata. Dopo anni di pre-intese, discussioni e passi falsi che hanno coinvolto tutti i principali partiti politici, la Lega è riuscita a segnare un punto importante.
La discussione sull’autonomia differenziata potrebbe sembrare un tecnicismo, ma non è così. L’entrata in vigore di questa norma infatti peggiorerà le già strutturali differenze che esistono nel paese e contribuirà a ridimensionare i già scarsissimi servizi pubblici offerti al Sud. Contrastare l’autonomia differenziata significa dunque difendere i diritti dei lavoratori e quelli dei loro figli alla cura, all’istruzione e al lavoro.
Va detto che il terreno è stato ampiamente preparato anche dalle controriforme dei passati governi di centrosinistra. Figure come Bonaccini, che insieme ai governatori leghisti Fontana e Zaia firmò nel 2018 un’intesa per aumentare l’autonomia della sua regione, sono altrettanto responsabili del governo Meloni.
Cosa cambia?
Lo scopo dell’autonomia differenziata è quello di trasferire alle regioni responsabilità fino ad ora amministrate a livello centrale, ovvero dallo Stato. In totale si parla della cessione di 23 diverse materie, tra cui: scuola, università e ricerca, beni culturali, ambiente, territorio e infrastrutture, acqua, attività produttive, fisco e finanza.
Queste materie vengono finanziate dalla fiscalità generale, ovvero attraverso il pagamento delle tasse. Il gettito fiscale nazionale viene centralizzato dallo Stato che successivamente, e sulla base di alcuni criteri, lo ripartisce tra le singole regioni in modo che tutte possano offrire gli stessi servizi pubblici. Questo criterio della ripartizione della spesa pubblica, così detto solidaristico, è già stato seriamente scalfito dalla modifica del Titolo V della Costituzione nel 2001 (approvata dal secondo governo Amato, di centrosinistra).
Attualmente da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna proviene il 40% del gettito nazionale mentre da tutte le otto regioni del meridione si raccoglie poco più del 20%. La conseguenza di questa diversa distribuzione del gettito fiscale è che, seppur in misura minore rispetto al passato, una parte delle tasse raccolte al Nord viene utilizzata per finanziare i servizi pubblici delle regioni del Sud.
Questi trasferimenti, anche senza l’autonomia differenziata, sono assolutamente insufficienti a garantire in modo uniforme i diritti più basilari.
Alla Lega e in generale a tutti quelli che puntano il dito contro il Sud sprecone diciamo che già oggi la spesa pubblica pro capite è più alta nelle regioni del Nord, con oltre 16mila euro per la Lombardia, contro nemmeno 12mila per la Campania (dati Agenzia per la coesione territoriale).
Nel meridione si consumano regolarmente disastri dovuti proprio all’assenza dei servizi pubblici. Ricordiamo lo scontro ferroviario del 2016 lungo il binario unico Andria-Corato che causò la morte di 23 persone e il ferimento di altre 56, o la recente morte di 42 persone ad Ischia, causate dalla devastazione del territorio. Questi sono solo esempi dello stato attuale in cui versa il Mezzogiorno, proprio su alcuni capitoli come trasporti, infrastrutture e ambiente su cui interverrà l’autonomia differenziata. Il problema della carenza di servizi pubblici è generalizzato, si pensi alla mobilità sanitaria dalle regioni del Sud verso il settentrione dovuta alla chiusura di interi reparti ospedalieri.
Ad esempio in Calabria, regione di 2 milioni di abitanti, non esistono più terapie intensive infantili… L’aspettativa di vita media di una persona che nasce in questa regione è più bassa di 12 anni rispetto a quella di un residente di Bolzano.
Con l’autonomia differenziata ogni regione tratterrà tutte le tasse raccolte entro i propri confini, anche il gettito eccedente al soddisfacimento del fabbisogno dei servizi pubblici. Si stima che solo da Veneto, Lombardia e Emilia Romagna si perderanno 190 miliardi di euro annui su 750 di gettito fiscale nazionale.
Istruzione e sanità
I rischi maggiori riguarderanno in particolare l’istruzione e la sanità. Con un’istruzione regionale si distrugge il diritto allo studio, perché viene annullato il valore legale del titolo di studio, si riduce la qualità della didattica e si tagliano le risorse per le attrezzature e le infrastrutture.
Si attacca anche il diritto al lavoro: il progetto punta infatti a costituire un organico regionale dei lavoratori della scuola attraverso il bando di concorsi regionali, sostituisce i contratti nazionali con quelli regionali, blocca gli spostamenti del personale tra le regioni e differenzia gli stipendi sulla base dei finanziamenti di cui dispongono le regioni, introducendo delle vere e proprie gabbie salariali. L’FLC-CGIL sul tema ha indetto una raccolta firme, ma è una iniziativa meno che insufficiente.
La regionalizzazione è inoltre l’ennesimo colpo al già distrutto Servizio Sanitario Nazionale (SSN) perché aumenterà le differenze del sistema tariffario, di rimborso, di salari, la determinazione del numero di borse studio per specialisti e medici di famiglia. È un passaggio qualitativo per la sanità pubblica che, peraltro, fa già i conti con i tagli indiscriminati che ci sono stati nel settore e che sono emersi vistosamente durante la pandemia.
Con l’autonomia differenziata vengono premiati modelli sanitari tutti orientati al sostegno alla sanità privata che prospera su una consapevole distruzione di quella pubblica, come quello lombardo.
Serve una mobilitazione di massa!
Si dice che comunque verranno garantiti i cosiddetti LEP (Livelli Essenziali di Prestazione), ma già oggi le disparità nei servizi sociali sono enormi. Una volta demolito il carattere universale dei servizi pubblici, strumenti come i LEP arriveranno quando i buoi saranno scappati dalla stalla e semplicemente mancheranno gli strumenti per qualsiasi riequilibrio.
Ad essere colpiti saranno sia i lavoratori dei settori implicati, sia i cittadini in generale che si troveranno privati di servizi pubblici essenziali. Esiste quindi il potenziale per un movimento di lavoratori, studenti, utenti. È ora che la CGIL metta questo punto al centro di una seria campagna di mobilitazione in tutto il mezzogiorno e oltre, per servizi pubblici universali, di qualità e sotto il controllo di lavoratori e utenti.