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22 Dicembre 2020Con il recente accordo di libero scambio commerciale tra quindici paesi dell’area orientale del sud est asiatico e pacifico si apre un nuovo capitolo della guerra commerciale Usa-Cina.
Il 15 novembre è stato raggiunto ad Hanoi un accordo storico che segna l’avvio del blocco commerciale e di investimento più grande al mondo in grado di mutare la geopolitica non solo della regione e degli Stati dell’Est Asiatico ma anche quelli fra questa parte del mondo, gli Stati Uniti e l’Unione Europea. È il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep – Partenariato Economico Globale Regionale), l’accordo economico-commerciale tra i 10 Paesi dell’Asean (Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Singapore, Thailandia, Vietnam) e cinque dei paesi con i quali l’Asean ha stretto accordi bilaterali (Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda e Repubblica di Corea del Sud).
L’accordo è aperto anche all’adesione di altri Paesi a partire da 18 mesi dopo l’entrata in vigore che avverrà con la ratifica di almeno 6 Stati appartenenti all’Asean e 3 non appartenenti all’Asean.
Di fatto quindi comprenderà almeno tre delle maggiori economie asiatiche e dell’Oceania.
La ratifica del trattato dovrebbe avvenire entro due anni dalla firma del 15 novembre 2020.
Il Rcep rappresenta un primo passo verso una tendenza alla regionalizzazione degli scambi che già si era manifestata con l’acuirsi della guerra commerciale tra Usa e Cina e il suo accentuarsi sotto la presidenza di Donald Trump con l’inasprirsi delle politiche protezionistiche all’insegna dell’“Amerca First”.
I principali contenuti dell’accordo
Il Rcep creerà un’area di cooperazione economica di 2,2 miliardi di persone, che producono il 30% del Prodotto interno lordo (Pil) e il 27,6% del commercio globale. Il gruppo dei Paesi membri copre il 50% della produzione manifatturiera globale, il 50% di quella automobilistica, il 70% di quella elettronica oltre al 24% degli investimenti esteri diretti.
Alcune stime previsionali indicano che l’accordo possa incrementare, dal momento della sua entrata in vigore al 2030. il Pil mondiale di 209 miliardi di dollari (anno su anno) e il commercio internazionale di 500 miliardi di dollari. Secondo le Nazioni Unite l’impatto stimato nella regione vede una crescita del Pil dello 0,2% annuale entro il 2030 e una crescita delle esportazioni del 10% annuo entro il 2025. Entro il 2030, sempre secondo queste previsioni, la Cina si avvantaggerà di un maggior reddito legato al Rcep (circa 100 miliardi di dollari). A seguire Giappone, Corea del Sud e Paesi del Sud Est Asiatico.
Il Rcep eliminerà tra l’85% e il 90% delle tariffe all’interno della nuova area.
Esso è articolato in 20 capitoli che riguardano sia il commercio di beni che di servizi, inclusi i servizi finanziari, telecomunicazioni e professionali, i movimenti delle persone, gli investimenti, la proprietà intellettuale, il commercio elettronico, gli appalti pubblici, le misure sanitarie e fitosanitarie secondo gli standard del Wto. Sono considerate in particolare le piccole e medie imprese data la rilevanza che esse hanno in molti dei paesi firmatari.
Tuttavia l’agricoltura resta assente dall’intesa, così come vi è una inclusione limitata dei servizi e dei settori ritenuti strategici. Nessun progresso inoltre è stato registrato sulla tutela del lavoro, dell’ambiente e sulla regolamentazione delle imprese di proprietà statale (Soe). Più significative le intese per regole comuni sull’origine dei prodotti nell’area, in modo tale che i certificati d’origine emessi in un Paese membro siano validi in tutta la regione, riducendone in tal modo i costi di spedizione e transazione interni.
Il ruolo della Cina
L’accordo rappresenta indubbiamente un successo della politica di Pechino.
La Cina ha gestito molto meglio rispetto al resto del mondo capitalistico la crisi pandemica e di fatto, almeno per il momento, è uscita dall’emergenza Covid 19. I problemi di fondo, economici, politici e sociali del colosso asiatico rimangono tuttavia inalterati.
La crisi del 2008 ha segnato un vero e proprio passaggio epocale nella storia del capitalismo.
È stata arginata, ma non risolta, attraverso politiche monetarie espansive, con un allargamento del credito a buon mercato, con l’attivismo delle Banche centrali di tutti i paesi e soprattutto con un aumento vertiginoso del debito complessivo che ha raggiunto dimensioni impressionanti, oltre tre volte il Pil mondiale.
La profonda recessione globale del 2008/2009 è stata affrontata dalla Cina con una politica di colossali investimenti soprattutto in infrastrutture allargando il credito, con una fortissima accelerazione dell’indebitamento complessivo che ha oramai quasi raggiunto quello statunitense e assottigliando le immense riserve valutarie che erano state accumulate negli anni in cui l’export cinese andava a gonfie vele. A questo proposito basta confrontare il livello delle riserve in valuta pregiata prima del 2008 (oltre 4000 miliardi di dollari) ed il livello attuale che secondo un report di Intesa San Paolo al momento attuale è meno della metà (circa 1950 miliardi di dollari).
Attraverso queste politiche è riuscita a mantenere una crescita superiore ai paesi capitalisti più maturi, anche se a tassi inferiori rispetto all’epoca precedente il 2008.
La contrazione del mercato mondiale che è seguita al fallimento di Lehman Brothers e l’insorgere delle politiche protezioniste messe in atto in quasi tutto il mondo ma in particolare negli Usa con l’amministrazione Trump hanno fortemente ridimensionato il surplus commerciale estero della Cina.
Nasce da qui la necessità di riorientare la politica economica cinese, passando dalla forte dipendenza dall’export ad una crescita della domanda interna che assieme allo sviluppo tecnologico orientato a settori industriali ad alto valore aggiunto sta ispirando la politica del governo cinese.
La Cina e la “Doppia circolazione”
Dal 26 al 29 ottobre scorsi si è tenuto a Pechino il 5° Plenum del 19° Comitato centrale del Partito comunista cinese che aveva il compito di stabilire le linee guida del 14° Piano quinquennale (2021- 2025) e quelle di una strategia di medio termine ribattezzata “Visione 2035”.
Tra gli obiettivi di questa “visione” vi sono l’autosufficienza tecnologica definita come indispensabile supporto strategico alla crescita ed alla competizione con gli Stati Uniti.
Altro obiettivo è il potenziamento militare che prevede la trasformazione delle Forze armate in una potente e moderna macchina da guerra entro il 2027 in grado di porsi alla pari con la potenza bellica degli Usa.
Tra le riforme vi è anche quella che riguarda i “diritti di proprietà”.
È utile sottolineare come questo “Plenum” sia stato preceduto da una celebrazione per i 70 anni dall’ingresso della Cina nella guerra di Corea (ottobre 1950). Celebrazione che è stata molto enfatizzata dal discorso del Presidente Xi Jinping che fra le altre cose ha dichiarato: “Il popolo cinese non vuole creare problemi, ma non ha paura, le nostre gambe non tremeranno, le nostre schiene non si piegheranno”. Un messaggio forte e chiaro, non c’è dubbio.
Ma la discussione si è incentrata su una parola chiave: shuang xunhuan ovvero “doppia circolazione”. Ne spieghiamo il significato.
Nella sua ultima visita nel Guandong il 13 ottobre per la celebrazione del 40° anniversario dal lancio della Zona economica speciale di Shenzhen, Xi Jinping ha chiarito il concetto di doppia circolazione, intendendo per “circolazione” la produzione, la distribuzione ed il consumo di beni e servizi: “È necessario promuovere la formazione di un nuovo modello di sviluppo in cui il grande ciclo domestico sia il corpo principale e nel quale la doppia circolazione si promuove a vicenda”.
Nella visione del presidente cinese per doppia circolazione si intende una dialettica tra circolazione economica domestica e quella internazionale: Secondo i leader cinesi protezionismo e unilateralismo sono le principali minacce esterne alla crescita del paese. Il riferimento a Washington è palese.
Questo indirizzo di politica economica è l’espressione dello stato di necessità del capitalismo cinese.
Nel 2019 l’interscambio cinese con l’estero è stato il 32% del Pil, esattamente la metà di quello del 2006.
La “Nuova normalità” enunciata nel 2015 ha come cardini appunto la cosiddetta “doppia circolazione” e uno sviluppo tecnologico di altissimo profilo.
La Cina ha però anche grandi problemi interni dovuti allo sviluppo impetuoso e squilibrato che si sono accumulati negli anni portando dopo il 2008 “l’officina del mondo” in sovrapproduzione, situazione che perdura e che le politiche protezionistiche hanno incancrenito. A questa si sommano i problemi legati all’aumento vertiginoso del debito e alla formazione di bolle speculative che spaziano da quella immobiliare a quella finanziaria e che sono state temporaneamente arginate con interventi d’autorità da parte del governo e del partito.
Nel 2019 i consumi hanno rappresentato il 55,4% del Pil contro il 49,3% del 2010. Siamo ancora distanti dalle percentuali dei paesi a capitalismo maturo dove i consumi variano tra il 70-80% del Pil.
Uno dei problemi fondamentali della Cina è la dinamica della sua struttura sociale che lo sviluppo capitalistico del paese ha reso più instabile accentuandone le contraddizioni e creandone di nuove.
Bastano pochi dati per rendersene conto:
– sono circa 600 milioni i lavoratori che guadagnano meno di 140 dollari al mese. Occorre però tenere ben presente che la struttura del salario in Cina è assai diversificata sia per settore produttivo, per regione o città, per qualifica del lavoratore, per distinzione di genere ed altro ancora. Distinzioni che si riflettono sia nella parte fissa che in quella variabile del salario. Anche la misura del salario minimo garantito per legge riflette queste grandi differenze. La popolazione rurale ammonta a 560 milioni ovvero il 40% della popolazione cinese, una percentuale che distanzia ancora enormemente la Cina dai Paesi capitalisticamente avanzati. Questa popolazione costituisce la riserva di manodopera a basso costo di cui hanno bisogno le metropoli industrializzate del Paese a partire dalla provincia del Guangdong dove le multinazionali di tutto il mondo sfruttano manodopera cinese.
Secondo i dati della FAO il rapporto fra il reddito di un lavoratore agrario ed uno urbano è di uno a dieci, e questo guadagno rischia di essere comparativamente ancora minore dal momento che i contadini non hanno il permesso di vendere tutta la loro produzione al mercato libero, ma una parte la devono vendere allo Stato che l’acquista a prezzi calmierati.
Ogni anno, negli ultimi 14 anni, è emigrato dalle campagne verso le città un esercito di oltre 12 milioni di persone.
L’agricoltura impiega 211 milioni di lavoratori pari a circa il 26,5% della forza lavoro totale; i lavoratori occupati nell’industria sono 225 milioni (28,27%) e quelli occupati nei servizi 359 milioni (45,17%) per un totale di 795 milioni (dati stimati per il 2019). La classe media cinese ammonta a 400 milioni con un reddito compreso tra i 16000 e i 36000 dollari annui per nucleo familiare, reddito calcolato con criterio del Ppi (purchase parity index), vale a dire col criterio della parità del potere di acquisto tra reminbi e dollaro Usa.
Sopra queste fasce di popolazione i ricchi e super ricchi che sono una ristretta fascia della popolazione.
La centralità di Pechino e i rapporti con l’Area
Le autorità governative cinesi spingevano già da tempo per una maggiore integrazione economica e commerciale insistendo per un maggiore coordinamento la Belt and Road Initiative (Bri), ossia la cosiddetta “via della seta”, e la Master Plan on Asean Connectivity (Mpac) 2025.
Nonostante la pandemia il commercio tra i paesi dell’Asean e Pechino nell’anno in corso è cresciuto costantemente e ad agosto ha raggiunto i 430 miliardi di dollari, in crescita del 7% rispetto all’anno precedente. L’Asean ha così sorpassato l’Ue come primo partner commerciale della Cina. Sono cresciuti parallelamente del 58% anche gli investimenti reciproci rispetto all’anno precedente, d’altra parte Pechino attraverso la Bri aveva già investito nell’area 213 miliardi di dollari dal 2013. Non a caso il primo ministro cinese Li Keqiang ha definito l’accordo “una vittoria del multilateralismo e del libero commercio”.
La preminenza di Pechino nell’accordo è evidente, potrebbe ulteriormente favorire progetti infrastrutturali, energetici, di trasporto, digitali. La Cina investiva in questi paesi già prima del lancio ufficiale della Bri, tante le aziende cinesi che hanno fatto grossi investimenti come Sinohidro, la Shangai Electric, la China Communication Construction, la China Railway Engineering, la Huawei ed altre ancora, un flusso di investimenti che tra il 2007 e il 2012 ha raggiunto la cifra ragguardevole di 59,2 miliardi di dollari.
La Cina cerca di utilizzare le sue leve economiche per ottenere nuovi mercati per le sue tecnologie d’avanguardia tra cui la telefonia mobili 5G e 6G, l’intelligenza artificiale e i sistemi di sorveglianza, il suo sistema di posizionamento globale e di navigazione Beidou, lanciato di recente come concorrente del Gps controllato dagli Usa, aiutando le sue aziende hi-tech a superare i concorrenti. Inoltre la riduzione delle tariffe va soprattutto a beneficio della competitiva industria cinese.
Tuttavia bisogna tenere presente che non tutto va a vantaggio esclusivo di Pechino. Stati come il Giappone e la Corea del Sud riusciranno a costruire più facilmente linee di fornitura con i paesi dell’Asean che necessitano di investimenti, per la produzione di componentistica per la propria industria.
La previsioni economiche formulate anche dal Fmi indicano una crescita sostanziale anche per i paesi dell’Asean con tassi di incremento del Pil per il 2021 compresi tra il 6% e il 7,8%. Vedremo quanto queste “previsioni” saranno fondate, il futuro prossimo ce lo dirà.
È utile ricordare infine che una riallocazione degli investimenti è funzionale sia al capitalismo cinese sia ai capitalismi degli altri Stati firmatari, non solo come risposta ai crescenti “costi del lavoro” in Cina ma anche per differenziare le catene dei fornitori, prima eccessivamente cino-centriche.
Le imprese americane ed europee se vorranno continuare a trarre profitti dalle relazioni economiche con questa area dovranno investire in stabilimenti produttivi nei Paesi membri del Rcep, mettendo in stand-by l’impegno, in particolare delle aziende Usa, a rimpatriare la produzione (reshoring).
La reazione degli Usa e l’incognita India
Il neoeletto presidente americano Joe Biden appena ha appreso la notizia dell’accordo di Hanoi ha dichiarato che saranno gli Usa e i loro alleati a scrivere le regole del libero commercio, non la Cina, e ha già annunciato un piano sul fronte del commercio internazionale che sarà reso pubblico dopo il suo insediamento.
Un’affermazione che pare discostarsi dalle politiche assunte da Trump nel nome di “America First” implementata piuttosto come “America Only”. Proprio il ritiro americano dalla Trans-Pacific Partnership nel 2017 è stato uno dei fattori che hanno favorito la conclusione del Rcep e hanno potenziato la posizione della Cina nell’area del commercio asiatico.
Ricordiamo che l’unilateralismo di Trump si è rivolto anche contro la Ue appoggiando la Brexit ed anche contro il Nafta cioè l’accordo di libero scambio tra Usa, Canada e Mexico.
Il programma di Biden sembra indirizzarsi a riannodare le fila con i tradizionali alleati riservando beninteso agli Usa un ruolo di preminenza.
Bisogna vedere quali concreti margini di manovra avrà sia dal punto di vista economico, con particolare riferimento alla politica di bilancio, sia dal punto di vista più strettamente politico infatti non è affatto certo, anzi poco probabile, che abbia il completo controllo del Congresso Usa. Troppe cose sono cambiate nei rapporti economici internazionali e di conseguenza in quelli politici.
Laddove il Tpp puntava a isolare la Cina, il Rcep costituisce un passo importante nella direzione opposta, ossia attirare nell’orbita cinese paesi che per decenni, e in alcuni casi anche per oltre un secolo, sono stati alleati o vassalli degli Usa sul piano economico e anche politico e militare. La presenza di paesi come il Giappone, le Filippine, la Corea del Sud, l’Australia dà la misura di quanto siano mutati i rapporti economici nel Pacifico, da tempo ormai area decisiva della produzione e degli scambi economici internazionali e terreno di scontro fondamentale.
Infine l’India. Il governo di Nuova Delhi si era già auto escluso nel 2019 dai negoziati in quanto temeva che con l’abbattimento delle tariffe doganali il mercato indiano sarebbe stato invaso da prodotti a basso costo stranieri, danneggiando piccoli e medi imprenditori nazionali che nel 2019 contavano più di 63 milioni di attività rurali ed urbane. Ma l’India è un paese importante con la sua demografia pari a circa 1,5 miliardi di persone e con un’età media molto bassa rispetto alla gran parte dei paesi del mondo ed alla Cina stessa e per il suo collocamento nel cuore dell’Asia. Per questo i firmatari hanno lasciato una porta aperta per l’adesione dell’India anche oltre i 18 mesi previsti per i paesi firmatari.
L’approccio anti Usa per limitarne l’influenza anche in questo caso è evidente.
Conclusioni
Il Rcep è realmente un fatto di grande rilevanza mondiale. Segna una nuova tappa nell’escalation della competizione imperialistica mondiale. Modifica relazioni economiche e politiche che erano già gradualmente mutate nel tempo e ne ha sancito in un certo senso una ulteriore svolta.
La pandemia è stata il fattore esogeno che ha accelerato processi già in corso e di cui Pechino ha prontamente approfittato gestendo meglio l’emergenza Covid 19 sia al proprio interno che verso l’esterno, certamente meglio di quanto abbiano fatto i vari Trump, Johnson, Bolsonaro nonché i governi della Ue, pur avendola negata all’inizio del suo manifestarsi.
L’accordo non è molto omogeneo, è meno stringente per esempio rispetto alle regole del mercato unico europeo, soprattutto su un punto che è quello delle regole per la gestione della forza lavoro .
Sono davvero tante le differenze in materia di condizioni sociali fra i diversi Paesi firmatari.
Possiamo dire che ogni governo, cioè ogni borghesia dei paesi aderenti al Rcep si lascia le mani libere per lo sfruttamento della propria forza lavoro.
Rimane la competizione imperialistica all’interno dell’area con una egemonia evidente della Cina, ma nello stesso tempo i paesi firmatari si uniscono, per fronteggiare uno stato di necessità che la crisi mondiale ha lasciato in eredità e per colmare il vuoto che l’imperialismo americano, in fase decadente, ha lasciato con le politiche protezionistiche ed improntate all’unilateralismo poste in essere dall’amministrazione Trump.
Infine questi sviluppi incanalano la competizione imperialistica sul livello di macro aree economiche più o meno omogenee. Gli effetti che producono non riguardano però solamente i rapporti fra i governi o le classi dominanti, essi riguardano anche e fortemente le classi lavoratrici di tutto il pianeta che saranno inevitabilmente coinvolte nel turbine di queste trasformazioni impetuose e ad esse dovranno dare una risposta per aprirsi la strada ad una diversa condizione umana.
14 dicembre 2020