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La vittoria di Trump e la crisi dei liberali

di Franco Bavila

C’è un solo partito negli Stati Uniti, il Partito della Proprietà… e ha due ali destre: repubblicani e democratici.”
Gore Vidal.

Sono usciti numerosi articoli sui nomi e le biografie delle figure che andranno a comporre la prossima amministrazione di Donald Trump. Non abbiamo qui lo spazio per entrare nei dettagli, ma ci basti dire che si tratta di un bel campionario di tutto il peggio che la destra reazionaria ha da offrire: dal negazionismo sul cambiamento climatico all’estremismo sionista, dalla xenofobia all’anti-vaccinismo, ecc. In molti si chiedono: “com’è possibile che questa gente governerà la più grande potenza del mondo?”

Il fiasco dei democratici

Innanzitutto, prima ancora che di una vittoria di Trump, è più corretto parlare di una disfatta dei democratici. Se infatti mettiamo da parte gli astrusi meccanismi del sistema elettorale americano per designare i grandi elettori e guardiamo ai voti assoluti, Trump ha sì aumentato il suo consenso rispetto alle scorse elezioni (2,5 milioni di voti in più), ma comunque a Kamala Harris sarebbe bastato prendere gli stessi voti di Biden quattro anni fa per vincere. Il problema è che invece la candidata democratica ha perso quasi 7 milioni di voti rispetto al 2020.

I democratici hanno avuto un’emorragia di voti in tutti i settori tradizionali del loro elettorato: tra le donne, i giovani e i neri, il primo partito è ancora quello democratico, ma Trump è riuscito a ridurre sensibilmente il suo svantaggio.

Tradizionalmente i repubblicani sono favoriti nelle aree rurali e i democratici nei centri urbani. Questa volta la performance di Kamala Harris è stata deludente anche nelle grandi città: a Philadelphia, in Pennsylvania (uno dei cosiddetti “Stati in bilico”), i democratici hanno perso 50mila voti rispetto al 2020 e i repubblicani ne hanno guadagnati 8mila; Trump ha incrementato i suoi voti anche a New York (+ 7%).

L’unico settore sociale in cui la Harris ha mantenuto intatto il suo appoggio è uno dei più elitari, quello dei laureati, mentre Trump ha predominato tra le più larghe masse di chi non ha un titolo di studio.

Le ragioni della sconfitta

La propaganda dei democratici sulla “difesa della democrazia” contro le mire eversive di Trump non ha minimamente attecchito tra la popolazione americana e non poteva essere altrimenti. Esiste infatti una sfiducia generalizzata nei confronti del sistema politico tradizionale, della quale Trump ha saputo approfittare.

Tutti i sondaggi confermano che la prima preoccupazione per la maggior parte degli elettori era l’economia. Mentre i democratici decantavano i successi della “Bidenomics”, Trump intercettava la rabbia della classe lavoratrice che di quelle politiche non ha beneficiato affatto. Con i prezzi dei beni di consumo aumentati del 20% rispetto al 2020, gli affitti più alti del 30% e il 40% delle famiglie che deve ricorrere ad un secondo lavoro extra per arrivare a fine mese, non stupisce che la maggior parte dei lavoratori abbia voltato le spalle ai democratici, che gli dicevano che tutto stava andando per il meglio, e invece abbiano preferito Trump, che prometteva loro un cambiamento.

Tutti gli endorsement a favore della Harris da parte delle grandi star del cinema e della musica sono stati in realtà controproducenti, rafforzando l’immagine dei democratici come il “partito di Hollywood” lontano dalle masse e dando credibilità alla retorica di Trump, che faceva strumentalmente appello alla “working class” contro l’establishment.

Anche le guerre in Ucraina e Medioriente hanno avuto un peso decisivo nel determinare l’esito delle elezioni. I democratici sono stati giustamente puniti per la loro complicità nel massacro di Gaza. In particolare hanno subito un vero e proprio tracollo nell’elettorato di origine araba e di religione musulmana, perdendo voti sia a favore di Trump che di Jill Stein, la candidata del Green Party (l’unico che rivendicava la fine del sostegno militare a Netanyahu). Le conseguenze si sono viste in Michigan, un altro degli Stati in bilico che ha assicurato la vittoria dei repubblicani. Nel collegio di Dearborn, dove il 55% della popolazione è di origine araba, nel 2020 Biden aveva preso il 70% dei voti, contro il 30% di Trump; nel 2024, invece, la Harris si è fermata al 36%, Trump ha preso il 42% e la Stein il 18%. A Hamtramck, la prima città americana a maggioranza musulmana, nel 2020 Biden era arrivato all’85% dei voti contro il 15% di Trump; nel 2024 la Harris è scesa al 46%, Trump è salito al 43% e la Stein ha preso il 9%.

Analogo discorso vale per il conflitto in Ucraina. Mentre Biden continuava ad inviare armi e denaro a Kiev per alimentare una guerra sempre più fallimentare, Trump prometteva di “porre fine alla guerra in pochi giorni” e Musk scriveva post di questo tenore: “Il massacro insensato finirà presto. Il tempo è scaduto per i profittatori guerrafondai.”

Svolta a destra?

Alla luce di tutto questo bisogna essere molto cauti a parlare di una svolta a destra nella società. Certamente nella base di Trump ci sono gruppi ultrareazionari, suprematisti bianchi e fondamentalisti cristiani, ma il suo appoggio va ben oltre questi gruppi. Molti lavoratori hanno votato per lui solo perché sono scontenti e vogliono un cambiamento radicale di qualche tipo.

È significativo che, in contemporanea alle elezioni, in 10 Stati si sono svolti referendum per estendere il diritto all’aborto. Ebbene in 7 Stati su 10 questi referendum sono passati. Sono passati anche in Stati come Arizona, Missuori, Montana e Nevada in cui ha vinto Trump. Persino in Florida il referendum è stato approvato con una maggioranza del 57%, ma non è passato solo perché la legge statale prevede un quorum del 60%.

È evidente che non per forza chi ha votato per i referendum ha anche sostenuto la Harris, che pure ha provato a cavalcare il tema del diritto all’aborto. Un risultato tutt’altro che casuale, dopo che in quattro anni l’amministrazione Biden non ha nemmeno provato a introdurre una legge federale sull’interruzione di gravidanza.

Spaccature nella classe dominante

Per quanto Trump si presenti come il campione del popolo contro le élite, in realtà rappresenta un settore rilevante della classe dominante americana. Lui stesso è un miliardario e ha condotto tutta la campagna elettorale in coppia con Elon Musk, che non solo è l’uomo più ricco del mondo, ma possiede aziende in settori strategici come l’auto elettrica e le comunicazioni satellitari, strettamente legati alle commesse statali e militari. E non c’è solo Musk: la lista dei finanziatori della campagna elettorale repubblicana comprende colossi dell’industria energetica, grandi fondi di investimento, imprese edili, aziende della Silicon Valley… Non è un caso che, dopo le elezioni, Wall Street è schizzata alle stelle.

Tutti i punti principali del programma di Trump rispondono agli interessi di almeno un pezzo della borghesia americana e, a ben guardare, vanno a sfondare una porta già aperta dai suoi predecessori. Via libera alle trivelle? Beh, non è che Biden le avesse fermate: le sue politiche green erano meramente di facciata, tanto che nell’ultimo anno gli USA hanno registrato un record nella produzione petrolifera. Il protezionismo contro la Cina? Già l’amministrazione Biden ha introdotto dazi contro una serie di merci cinesi, come auto elettriche, batterie al litio, chip, pannelli solari, prodotti sanitari, acciaio, ecc. Anche il disimpegno dalla guerra in Ucraina in fin dei conti può rappresentare una scelta più realistica per l’imperialismo americano rispetto alla cieca ostinazione di Biden.

La scontro Trump-Harris ha evidenziato la frattura esistente tra settori diversi della classe dominante. Si tratta peraltro della medesima spaccatura che esiste anche nelle borghesie di altri paesi: da una parte il settore liberale dei Macron, Starmer, Von der Leyen; dall’altra la destra apertamente reazionaria dei Milei, Le Pen, Meloni…

I liberali hanno dominato la scena in passato, ma proprio per questo oggi sono in crisi e i loro consensi sono in caduta libera. Hanno amministrato la crisi del capitalismo, hanno applicato le politiche di austerità e sono diventati sinonimo di un peggioramento delle condizioni di vita delle masse. La destra reazionaria è invece in ascesa, si presenta come una forza nuova che va contro il vecchio sistema di potere e propone misure radicali. I politici “moderati” e “rispettabili” lasciano il posto ai demagoghi come Trump, che raccolgono consensi facendo ricorso alla peggior propaganda razzista contro gli immigrati, al bigottismo più becero contro le persone LGBT, ecc.

In pratica la classe dominante mostra il suo volto più ripugnante, retrogrado e arrogante, ma questo non porta né al fascismo né al consolidamento di regimi dittatoriali. Al contrario non fa che esacerbare l’instabilità politico-sociale già esistente e infiammare la lotta di classe. Gli Stati Uniti negli ultimi anni sono stati attraversati da mobilitazioni di massa estremamente significative – Black Lives Matter, il movimento in solidarietà con la Palestina – e da un risveglio del movimento operaio, con lotte estremamente avanzate nell’industria automobilistica o, più recentemente, tra i portuali e i lavoratori della Boeing. Con una seconda presidenza Trump, questi processi sono destinati a diventare ancora più dirompenti.

Le ripercussioni internazionali

La vittoria di Trump avrà ripercussioni ben oltre i confini americani. La sua promessa di porre fine alle guerre dell’era Biden non sarà così semplice da mantenere. Per quanto riguarda l’Ucraina, la volontà di abbandonare Zelensky al suo destino, fare ampie concessioni a Putin e lasciare il conto da pagare all’Unione Europea è certamente reale. Dovrà però far i conti con Putin, che ha i propri obiettivi da perseguire, sta prevalendo sul piano militare e potrebbe voler approfittare delle divisioni tra i suoi nemici.

Ben diverso il discorso sulla guerra in Medio Oriente. La squadra di governo di Trump è piena zeppa di fanatici sostenitori di Israele e delle politiche sioniste. Netanyahu è al settimo cielo e si sente con le spalle ancora più coperte di quanto non le avesse finora. È probabile che Trump tornerà sulla strada della sua prima presidenza, quella degli accordi di Abramo e cioè accordi tra Israele e i regimi arabi stipulati sulla pelle dei palestinesi. Ed è altrettanto probabile che la sua amministrazione possa dare il via libera all’annessione diretta dei territori palestinesi, un sogno a lungo accarezzato dalla classe dominante israeliana. Con politiche di questo tipo, il conflitto in Medio Oriente non verrà raffreddato, ma piuttosto diventerà ancora più incandescente.

La seconda presidenza Trump avrà infine effetti destabilizzanti soprattutto in Europa. Le politiche protezioniste non verranno rivolte solo contro la Cina, ma anche contro l’industria europea che già si trova in estrema sofferenza. Trump cercherà di dividere l’Unione Europea, avviando trattative bilaterali con i singoli paesi, con l’obiettivo di aprire ulteriori spazi alle imprese e ai capitali americani nel Vecchio Continente. L’Europa si presenta di fronte a questa sfida da una posizione di estrema debolezza, con il suo paese più importante, la Germania, in una grave crisi economica e politica.

Il vero problema

Il vero problema negli USA non è tanto la vittoria di Trump in sé, quanto la mancanza di una terza opzione rispetto a democratici e repubblicani. Non c’è un partito che possa rappresentare tutti coloro che in questi anni si sono mobilitati per i diritti dei neri, delle donne, per la Palestina, per introdurre il sindacato nella loro azienda o hanno scioperato per ottenere aumenti salariali.

Il movimento operaio non dovrebbe andare a rimorchio di nessuna delle due fazioni borghesi in contrasto tra loro, ma assumere una posizione indipendente. Invece Shawn Fain, il presidente dell’UAW (sindacato dell’industria automobilistica) che pure ha guidato lotte importanti, ha dato il proprio endorsement ai democratici, mentre Sean O’Brien, il presidente dei Teamsters (sindacati dei trasporti), è andato a parlare alla convention repubblicana.

Hanno una grave responsabilità anche i dirigenti della cosiddetta sinistra, come Bernie Sanders o Alexandria Ocasio-Cortez, che invece di costruire un’alternativa di sinistra al partito democratico (e negli scorsi anni ne avrebbero avuto la possibilità), hanno capitolato e sono diventati paladini di Biden prima e della Harris dopo. Persino il sedicente partito comunista americano si è trasformato in un comitato elettorale per la Harris.

Gli unici che hanno mantenuto una posizione corretta sono i nostri compagni dei Revolutionary Communists of America, che non hanno sostenuto nessuno dei due candidati e hanno avanzato la parola d’ordine “Class War 2024”, per una guerra della classe lavoratrice contro le politiche borghesi di entrambi i partiti. Questa è l’unica strada per smascherare la falsa demagogia trumpiana e creare un vero partito della “working class”.

 

 

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