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2 Aprile 2021Mentre scriviamo questo articolo la nave portacontainer Ever Given, di proprietà della Shoei Kisen Kaisha e gestita dalla Evergreen Marine, è stata finalmente disincagliata. Il blocco ha avuto un impatto importante sull’economia mondiale: il prezzo del greggio è cresciuto, e ha prodotto un impatto significativo sui costi di trasporto delle merci e il loro prezzo finale. L’incidente potrebbe anche avere conseguenze a lungo termine, con un effetto catena difficile da calcolare
Evergiven, un vero e proprio gigante dei mari, lungo 400 metri, largo 59 e con una capacità di carico di 220mila tonnellate, si è intraversato nel Canale di Suez il 23 marzo, bloccando per circa una settimana il traffico in questa fondamentale arteria logistica.
Secondo i dati di Bloomberg dal canale di Suez passerebbe il 12% del commercio internazionale e il 30% del commercio via mare. Ad oggi dovrebbero essere oltre 3 le navi bloccate alle due estremità del canale: trasportano GPL, petrolio, cemento, derrate alimentari, animali vivi, componentistica varia, auto e altri prodotti finiti. Altre navi che dovevano utilizzare il canale in questi giorni hanno preso la decisione di dirottare verso il Capo di Buona Speranza, circumnavigando l’Africa e allungando il loro percorso di almeno una settimana.
L’incidente
Martedì 23 Marzo la portacontainer Ever Given attraversava il Canale di Suez in uno dei suoi passaggi più stretti, nel mezzo di una tempesta di sabbia, con vento oltre i 40 nodi, quando ha scarrocciato mettendosi di traverso e incagliandosi sia a prua che a poppa. Fin da subito l’incidente si è palesato in tutta la sua importanza. I primi tentativi di disincagliare la nave si sono dimostrati inutili e il traffico marittimo è entrato presto in tilt. Molte navi sono rimaste bloccate all’interno del canale stesso, altrettante si sono fermate agli imbocchi nel Mediterraneo e nel Golfo di Suez ed hanno continuato a incolonnarsi nei giorni successivi.
Se in un primo momento il vento e la tempesta di sabbia sembravano le cause principali dell’incidente, già dopo le prime ore si sono iniziate a fare strada anche altre ipotesi. La velocità e la potenza con cui la Ever Given si è scontrata sulle sponde del Canale rendono probabile un movimento sostenuto dai motori della nave stessa. Secondo Osama Rabie, capo dell’autorità del Canale di Suez, vento e tempesta di sabbia non sarebbero le cause principali, mentre prende piede l’idea di un guasto tecnico sulla nave o di un errore umano. Rabie afferma ciò anche per non minare l’immagine dell’infrastruttura che governa, cercando di limitare una possibile diminuzione del traffico nei prossimi mesi.
Alcuni hanno sollevato anche l’ipotesi di un attacco hacker al sistema informatico della nave. Ciò non deve sorprendere: da anni ormai il rischio di un attacco informatico viene preso molto seriamente dalle compagnie navali e dagli enti assicuratovi: le dimensioni e l’importanza di questi giganti del mare potrebbe renderle un obiettivo appetibile per attacchi terroristici e boicottaggi economici anche se al momento non è possibile verificare tale ipotesi
Secondo le stime il blocco del canale ha comportato un danno economico pari a 400 milioni di dollari l’ora. Il valore delle merci che ogni giorno attraversano il canale sarebbe di 9,6 miliardi (5,1 in direzione Est, 4,5 in direzione Ovest).
Sarebbe pari a 8,12 miliardi di euro il valore delle merci bloccate nel Canale, secondo la stima fornita dalla rivista specializzata Lloyds’ List (stime dei giorni scorsi, sicuramente da rivedere al rialzo).
Fragilità del mercato internazionale
Quali che siano le cause dell’incidente questo ha dimostrato quanto sia facile mettere in crisi il mercato mondiale. Basta un evento fortuito in uno dei suoi punti di maggiore fragilità per portare a conseguenze disastrose.
Le conseguenze concrete delle mancate forniture sono state immediate. Il governo siriano ha annunciato un razionamento del carburante legato al mancato arrivo di un carico di petrolio rimasto fermo. Alcuni armatori, come la danese Maersk e la francese Cma, hanno dirottato alcune delle loro navi verso il Sud Africa. Molta preoccupazione hanno destato anche le navi che trasportano animali, con risorse sufficienti ad alimentarli e idratarli solo per alcuni giorni ed un altissimo rischio che si sviluppino malattie e situazioni igieniche pericolose per gli animali e per gli equipaggi. Inoltre, alcune derrate alimentari rischiano di andare a male nell’attesa.
In tutto ciò la Ever Given sarebbe assicurata per soli 3,1 miliardi di dollari, una cifra ben al di sotto delle perdite arrecate all’infrastruttura ed alle navi in attesa. Si prevedono battaglie legali per i risarcimenti e scontri commerciali all’ultimo sangue.
Ci vorrà probabilmente più di una settimana per smaltire l’ingorgo di navi creatosi ai due estremi del canale, ma le conseguenze sulla logistica internazionale potrebbero avere ricadute anche più importanti. Il blocco ha già comportato colli di bottiglia e preoccupazione in diversi porti. La containeristica è una scienza complessa e il coordinamento delle operazioni di carico/scarico delle merci è un Tetris a più dimensioni che coinvolge risorse ingenti. Solo per fare alcuni esempi: il porto di Genova è stato messo in pre-allarme e si sta cercando di capire quanto i ritardi peseranno sulle operazioni dei prossimi giorni. Nel porto di Trieste si stimano ritardi per circa 50mila container. Problemi di congestione dei porti erano già presenti da Agosto sia negli USA che in Cina, mettendo in luce la grave e strutturale carenza di equipment. Tre quarti di tutte le portacontainer che viaggiano dall’Asia all’Europa hanno accusato ritardi nel mese di Febbraio, ad esempio. È quasi certo che questo evento aumenterà i problemi a riguardo.
Il gigantismo navale e l’insostenibilità del modello capitalista
Quanto accaduto nel Canale in questi giorni porta alla luce una tendenza del commercio navale che sembra non conoscere limiti: il gigantismo. Nel corso degli ultimi anni le dimensioni delle navi commerciali sono aumentate esponenzialmente e con loro si sono dovute riadattare anche le infrastrutture portuali.
Il processo va di pari passo con la centralizzazione del commercio internazionale nelle mani di poche compagnie e con un maggior sfruttamento del lavoro. Sono infatti pochissime le imprese che riescono a resistere in un mercato che necessita di capitali immensi per poter reggere la competizione. Poche, immense navi, muovono migliaia di container e sono affidate al controllo di pochi operai per imbarcazione (spesso meno di una decina) responsabili della gestione di centinaia di migliaia di tonnellate vaganti negli oceani. La regolamentazione internazionale è un dedalo anarchico e confusionario, in cui vengono riciclati capitali illeciti, create imprese matrioska e violato ogni minimo standard di sicurezza del lavoro e ambientale. Tutto il commercio internazionale si muove su piattaforme di corruzione e sfruttamento.
Se l’incidente avvenuto il 23 Marzo è quello dalle conseguenze più gravi non è certo l’unico, né a Suez né nei mari di tutto il globo. Il Canale di Suez è costantemente attraversato da navi che non sono assolutamente in grado di muoversi in sicurezza a causa delle ridotte profondità dello stesso. Ovviamente chi gestisce il Canale non vuole rinunciare ai lauti guadagni dei pedaggi, spingendo l’infrastruttura oltre i limiti dell’accettabile. Ma questo è un problema che ha ricadute importanti anche sui porti di tutto il mondo, costretti a riadattare continuamente le banchine per grandezza e profondità. Le stesse autorità portuali implorano sempre più spesso la fine di questo processo perverso, nella vana speranza che gli stessi pescecani che dirigono le grandi multinazionali del trasporto marino, realizzando lauti profitti, possono accettare un qualche tipo di autoregolamentazione.
Conseguenze sul piano delle relazioni mondiali e ambientale
Intanto, questo evento straordinario riaccende la guerra commerciale tra le principali potenze internazionali e pone degli interrogativi importanti su come trovare una risposta alle nuove esigenze del commercio via mare.
Un articolo sul New York Times (26 marzo), intitolato “Nel Canale di Suez, la nave bloccata è un avvertimento sulla globalizzazione eccessiva“, è rivelatore sulle strategie future delle potenze capitaliste:
“Negli ultimi decenni, esperti gestionali e società di consulenza hanno sostenuto la cosiddetta produzione just-in-time per limitare i costi e aumentare i profitti. Piuttosto che sprecare denaro accumulando merci extra nei magazzini, le aziende hanno potuto dipendere dalla magia di Internet e dell’industria marittima globale per reperire ciò di cui hanno bisogno nel momento in cui ne hanno bisogno. (…) Eppure, come in ogni cosa nella vita, strafare può causare un bel po’ di problemi. “
Questa posizione è stata ripresa in un’intervista con l’amministrazione delegato di Maersk, Soren Skou:
“Ci stiamo muovendo verso una catena di fornitura just-in-case, non just-in-time. Questo incidente [nel Canale di Suez] farà riflettere maggiormente le aziende sulle loro catene di approvvigionamento “. (Financial Times, 29 marzo)
Cinicamente, aggiunge: “Quanto just-in-time si può essere? È fantastico quando funziona, ma quando non funziona, perdi vendite. Non ci sono risparmi sui costi just-in-time che possono superare gli aspetti negativi della perdita di vendite “.
Ad accusare maggiormente il blocco saranno le imprese che hanno optato per una catena della fornitura corta e che non dispongono di un ampio stock di prodotti. La produzione Just In Time, che era diventata la regola nell’economia mondiale, dimostra così il suo grande limite strutturale, incapace di assecondare la domanda non appena si formano dei colli di bottiglia lungo la catena di fornitura.
L’economia di mercato aveva già dimostrato pienamente i propri limiti con l’incapacità di rispondere adeguatamente alla pandemia generata dal COVID-19. Nel 2020, con la chiusura delle frontiere e l’interruzione delle catene di approvvigionamento, le aziende che avevano optato per metodi just-in-time, ovvero aumentare i profitti eliminando tutte le “inefficienze” a breve termine, sono state improvvisamente gettate nel caos. La spinta al profitto a breve termine aveva creato un sistema estremamente fragile e soggetto a shock ripetuti.
Fino a quando non riusciremo a disfarci di questo sistema putrido, i disastri e gli incidenti saranno sempre più all’ordine del giorno. L’anarchia del mercato e le divisioni nazionali impediscono di usare le risorse per il bene dell’umanità, coordinandole al meglio per evitare incidenti e muovendole con la necessaria flessibilità per rispondere ad eventi imprevisti.
Ma la lezione dall’incidente del Canale di Suez e dalla pandemia che verrà tratta dai capitalisti sarà la necessità di proteggere le “proprie” catene di approvvigionamento, mediante crescenti misure protezionistiche e il reindirizzamento delle industrie strategiche.
Il costo della spedizione di un container dall’Asia al Nord America è più che raddoppiato dallo scorso novembre. I prezzi dei trasporti dall’Asia all’Europa sono quadruplicati. Nel mezzo della più grande crisi degli ultimi 100 anni, la lotta per i mercati riguarda anche la difesa dei propri mercati interni.
L’incidente nel Canale di Suez offre sia agli Stati Uniti che all’Unione Europea un’opportunità per cercare di limitare le esportazioni cinesi verso i loro mercati. Non è scontato che avranno successo, ma sicuramente aprirà un nuovo capitolo nella guerra commerciale globale.
Quello che è certo è che i prezzi saliranno e il conto sarà pagato dai “consumatori”, cioè dai lavoratori e le loro famiglie. Inoltre, un “allontanamento dalla dipendenza da fornitori unici”, come suggerisce Soren Skou, rappresenterà una dichiarazione di guerra di classe contro i lavoratori dei fornitori di componenti nel sud-est asiatico e in altre parti del continente.
C’è poi la ricerca di rotte alternative: presagio di altri scontri sulla scena mondiale.
La prima opzione, preferita dai paesi del mediterraneo, riguarda una ulteriore modifica del Canale di Suez, con lavori importanti per allargarlo nel suo tratto più stretto e per renderlo molto più profondo. Questa opzione non è per nulla scontata, poiché presenterebbe costi ingenti e necessiterebbe di molto tempo per la realizzazione. Un’opzione di questo tipo, inoltre, metterebbe ulteriormente in crisi il già precario equilibrio ambientale del mediterraneo, generando uno scambio idrico con l’Oceano indiano dalle conseguenze incalcolabili.
L’abbandono o il ridimensionamento del traffico attraverso il Canale di Suez avrebbe conseguenze immediate in Egitto. I pedaggi di transito sono un’importante fonte di reddito per Al-Sisi, per un totale di 5,61 miliardi di dollari nel 2020.
Il regime egiziano sta attraversando una pesante crisi economica. La lira egiziana si è deprezzata del 50% rispetto al dollaro USA e nel 2020 il debito pubblico ha raggiunto il 96% del PIL. Un terzo degli egiziani ora vive al di sotto della soglia di povertà.
Non è un caso che la notizia del blocco del Canale di Suez sia stata oscurata dai media egiziani. Al-Sisi è seduto su una polveriera che tiene sotto controllo solo attraverso la più spietata repressione. Un ridimensionamento del Canale potrebbe essere la scintilla che innesca un’esplosione.
Un’altra opzione sul campo è quella della riscoperta del passaggio dal Capo di Buona Speranza. Se il canale non dovesse riadattare le proprie dimensioni alle nuove esigenze commerciali alcune compagnie potrebbero preferire rispolverare la rotta antica, quella che costeggia il Sud Africa, circumnavigando il continente nero. Questa scelta dovrebbe scontrarsi con problemi importanti per la navigazione per quanto riguarda tempi di percorrenza, costi e rischi (primo tra tutti la pirateria).
L’ultima opzione sul campo, fortemente sponsorizzata dal governo russo, è l’apertura della tratta artica. Questa opzione potrebbe dimostrarsi una scelta altamente competitiva per Russia e Cina. Al momento la rotta è praticabile solo da Giugno a Novembre con navi appositamente equipaggiate (circa 300 l’anno per ora), ma l’innalzamento delle temperature e un’ulteriore crescita delle dimensioni navali potrebbe renderla praticabile tutto l’anno entro il 2040, accorciando il tragitto tra la Cina e i grandi porti dell’Europa del Nord di circa una decina di giorni.
Questa alternativa, dalle conseguenze economiche e geopolitiche enormi, equivale a scommettere sulla catastrofe… e alimentarla. Ogni promessa di riduzione della emissioni inquinanti per frenare l’innalzamento delle temperature si scontra con interessi economici che vanno in tutt’altra direzione. Il capitalismo è ipocrisia!
Tutte le “soluzioni” su cui puntano i paesi capitalisti portano a conseguenze disastrose, che nulla di positivo hanno da offrire all’umanità. Ancora una volta le alternative offerte da questo sistema sono condite di sfruttamento della natura e dell’uomo. Solo il superamento di questo sistema malato e crudele può garantire all’umanità un’alternativa; solo l’utilizzo armonico e democratico delle risorse e il superamento degli interessi nazionali può offrire le soluzioni di cui abbiamo bisogno.
Oggi più che mai la lotta per il socialismo si rivela come l’unico argine alla barbarie capitalista. Ogni giorno che passa l’anarchia del mercato mostra i suoi limiti strutturali e ci avvicina all’abisso della catastrofe.
Mettiamo fine a questo sistema irrazionale che pone il profitto al di sopra della vita degli esseri umani, dell’ambiente e persino della sua stessa sopravvivenza a lungo termine!
31 marzo 2021