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La prova del budino – Il governo giallo-verde e la classe lavoratrice

Un vecchio e noto proverbio inglese dice che la prova del budino è mangiarlo. Calza perfettamente anche per l’esperienza che milioni di persone si apprestano a fare del governo giallo-verde.

Per capirne le prospettive non possiamo accontentarci di giudicare gli avvenimenti a partire dalle parole che rivestono i fatti e le azioni dei diversi partiti. Chi, come gran parte dell’intellettualità progressista di area Pd, pensa di poter “smascherare” o addirittura mettere in crisi questo governo denunciando le incoerenze verbali di Salvini o Di Maio perde il suo tempo.

 

Il voto del 4 marzo

 

È necessario innanzitutto ribadire che il voto del 4 marzo è stato un voto segnato profondamente dalla condizione sociale. In un certo senso è stato un voto di classe, espresso però in modo passivo, ossia scegliendo (passivamente, appunto) tra gli “strumenti”, i partiti presenti sulla scheda, quelli che meglio si prestavano allo scopo.

Milioni di lavoratori, giovani, precari, poveri, disoccupati hanno detto in modo chiaro e inequivocabile che i partiti che avevano governato fino ad allora non hanno più il diritto di comandare e devono sparire. Pd, Forza Italia e rispettivi alleati sono stati frantumati dal voto quasi unanime di coloro che hanno pagato più pesantemente gli effetti della crisi economica.

È stata la condizione sociale a generare questo risultato: chi ha votato M5S e, in parte, persino la Lega, ha espresso un segnale chiaro: meno precarietà, salari e pensioni decenti, meno diseguaglianze sociali, sostegno a chi non ha lavoro. È stata una protesta rabbiosa e sacrosanta contro le politiche condotte per decenni. Tuttavia questo contenuto sociale del voto si è potuto esprimere solo in una forma politicamente e ideologicamente confusa, mescolando aspetti progressisti con altri pesantemente reazionari. E come poteva essere altrimenti?

Veniamo da anni, decenni lungo i quali i dirigenti della sinistra si sono impegnati allo stremo per screditare come peggio non si poteva qualsiasi prospettiva di cambiamento della società o anche di difesa degli interessi dei lavoratori e dei ceti popolari. Ogni parola è stata trasformata nel suo contrario. La solidarietà non è più l’arma di chi lotta ma la carità predicata da chi ha la pancia piena a chi fatica ad arrivare a fine mese. Chiamano internazionalismo il servilismo verso le istituzioni internazionali del capitale, a partire dall’Ue. Sindacato è diventato, salvo rare eccezioni, sinonimo di svendita dei diritti del lavoro. Nel crollo dei punti di riferimento precedenti, la grande massa ha scelto come ha potuto votando “il cambiamento”.

In queste settimane tuttavia il razzismo pare farla da padrone e l’ascesa di Salvini sembra inarrestabile. Cosa alimenta questa ondata, che non è certo la prima nel nostro paese? La guerra fra poveri non è certo stata inventata da Matteo Salvini, che peraltro non crede a una sola delle parole che dice. La Lega proclama la guerra ai barconi degli immigrati e firma la pace coi motoscafi di lusso degli evasori fiscali e dei ricchi ai quali promette meno tasse.

Questa politica disgustosa, arrogante coi poveri e servile verso i ricchi, non mancherà di suscitare una protesta innanzitutto fra i lavoratori immigrati, ma anche fra i giovani che rifiutano le discriminazioni, le ingiustizie, la repressione.

 

I margini economici sono stretti

 

Ma è anche una politica dal fiato molto corto. Salvini gonfia il petto sul caso della nave Aquarius dicendo che finalmente l’Italia non ubbidisce più all’Unione europea, ma i nodi verranno ben presto al pettine. Un conto è speculare sulla pelle di 600 migranti, un altro è sfidare davvero le regole e le imposizioni della Bce, di Bruxelles, del grande capitale che comanda in Europa. La verità è che dal punto di vista economico i margini di manovra per questo governo saranno molto stretti, come ha ricordato Giovanni Tria, che per chi non lo ricordasse è il ministro dell’Economia dello stesso governo di Salvini. Tria è stato enfatico: “La posizione del governo è netta e unanime. Non è in discussione alcun proposito di uscire dall’euro. Il governo è determinato a impedire in ogni modo che si materializzino condizioni di mercato che spingano all’uscita.” (Corriere della sera, 9 giugno).

All’orizzonte c’è la fine del “quantitative easing”, vale a dire che la Bce smetterà di acquistare titoli emessi dallo Stato italiano. Il “bazooka” di Draghi è ormai scarico. La Bce ogni mese comprava 9-12 miliardi di Btp, cifra scesa poi a 7 miliardi e ora attorno ai 3,5 miliardi. Nel 2019 dovrebbe scendere a zero.

Questo significa che lo Stato italiano, che ogni anno deve rinnovare prestiti per 3-400 miliardi di euro, non potrà più contare su quell’“affezionato cliente” che è stato Mario Draghi. Per convincere i “mercati” si dovranno quindi offrire interessi più alti. Di quanto? Difficile stimarlo, si parla di 7 miliardi in più all’anno come cifra prudenziale, ma potrebbe essere molto di più. Negli Stati Uniti i tassi sono in rialzo e questo eserciterà una pressione diretta anche sull’Italia che ad ogni turbolenza economica e politica tornerà ad essere facile bersaglio della speculazione finanziaria.

Le prospettive sono problematiche anche sul piano industriale: la modesta ripresa dell’Italia dipende fortemente dalle esportazioni, ma a livello internazionale c’è una vera e propria escalation di dazi doganali e ritorsioni reciproche. Per l’industria italiana, che ha in Germania e Francia i suoi primi due mercati di sbocco, non è certo appetibile una rottura con l’Unione europea.

Per questi motivi il presidente di Confindustria Boccia ha dichiarato allarmato qualche settimana fa che uscire dall’Unione europea sarebbe “la fine dell’economia italiana”.

Questa dura realtà si porrà sul tavolo del governo al momento di fare la legge di bilancio.

 

Le promesse di Di Maio

 

Il M5S subisce l’offensiva della Lega, ma non va dimenticato che è il primo partito della coalizione di governo, e soprattutto che è stato direttamente investito dall’ondata di speranze generatasi con il voto del 4 marzo. Luigi Di Maio non può certo mettersi a competere con Salvini facendo a chi è più razzista. Userà quindi la sua posizione di ministro del Lavoro per cercare di accreditarsi come l’amico del popolo, il paladino dei lavoratori e il volto democratico e sociale del governo.

Ridare dignità al lavoro, introdurre un salario minimo, combattere la precarietà, rimettere mano al Jobs Act, dare un reddito ai disoccupati… sono promesse pesanti, che giocano direttamente con la vita di milioni di persone.

Per il momento Di Maio si sbraccia a destra e a manca: parla di dare diritti ai riders, incontra delegazioni sindacali (compresi sindacati di base) e non risparmia le promesse ai lavoratori di aziende in crisi.

I lavoratori e i disoccupati hanno dato fiducia a Di Maio e si attendono, anzi esigono risultati. Daranno del tempo ai 5 Stelle, ma non tutto il tempo del mondo.

Il fatto più rilevante politicamente è la fiducia e la speranza che si riversa su questo governo e in particolare sul capo dei 5 Stelle. I capi del Pd e del centrosinistra e gran parte dei dirigenti della Cgil irridono questi sentimenti e parlano con disprezzo dei lavoratori che si fanno incantare dai “demagoghi populisti”. Per costoro il popolo era saggio e responsabile solo fino a quando votava il Pd mentre ora, dopo avere assaggiato i governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, sarebbe misteriosamente diventato ignorante ed egoista.

Ma per noi che vediamo e viviamo questi sentimenti a contatto con la nostra classe (pur senza condividerne le illusioni) la valutazione è assai diversa: questa speranza non è un fattore di passività, ma al contrario incoraggerà sempre di più i lavoratori a prendere l’iniziativa, ad avanzare le loro rivendicazioni a un governo che considerano diverso dai precedenti e aperto alle loro istanze.

In passato l’espressione “governo amico” veniva usata dalle burocrazie sindacali per illudere e addormentare i lavoratori. Oggi moltissimi lavoratori pensano che questo possa essere per loro un “governo amico” che risolva i problemi che i sindacati non hanno combattuto: dalla Legge Fornero al Jobs act e a seguire tutto il resto.

Poco importa qui discutere sulla buona o cattiva fede di Luigi Di Maio o di altri dirigenti dei 5 Stelle che cercano di assumere un’immagine più di sinistra come il presidente della Camera Fico. La sostanza è che tutti costoro hanno firmato una cambiale alla classe lavoratrice di questo paese, e ora sono chiamati ad onorarla. Se non lo faranno (e noi pensiamo che sarà così) scopriranno ben presto che giocare con le speranze popolari, con la rabbia accumulata dopo anni di sacrifici e di tradimenti e inganni è un gioco molto pericoloso.

 

Un governo instabile

 

Queste profonde contraddizioni precludono la prospettiva di una alleanza stabile e duratura tra Lega e 5 Stelle. Chi parla come se fossimo alla soglia di un nuovo ventennio fascista prende una cantonata clamorosa. Del resto sbagliano sempre. Parlavano di fascismo alle porte quando Berlusconi vinse per la prima volta le elezioni nel 1994, e dieci mesi dopo il governo cadeva in mezzo a una gigantesca ondata di scioperi. Parlavano di vent’anni di “renzismo” nel 2014, e meno di tre anni dopo Renzi era già un ex primo ministro.

Il compito della sinistra di classe oggi è quello di costruire una piattaforma ragionata, incentrata sui temi sociali e lavorare con metodo alla costruzione di un’azione politica e vertenziale che faccia leva precisamente su quella speranza di cambiamento che ha segnato il voto.

Questo non significa dare credito alle illusioni o alle speranze mal riposte. Anche se fino al 4 marzo quasi tutti i dirigenti sindacali demonizzavano i grillini, si iniziano a sentire (ad esempio nella Fiom, ma non solo) voci più indulgenti e aperture di credito da parte di qualche sindacalista che cerca di adattare le vele al cambiamento di vento. Questo atteggiamento è altrettanto dannoso della subalternità al centrosinistra.

Tutta la nostra battaglia deve fondarsi su una completa indipendenza dai due schieramenti principali che ci sono in parlamento. Dobbiamo insistere instancabilmente sulla necessità di un punto di vista autonomo dei lavoratori, sulla necessità della indipendenza politica e sindacale del movimento operaio sia dal governo che dall’opposizione di centrosinistra. Ma per giungere a questo obiettivo non basteranno la propaganda, la spiegazione e la pedagogia. Sarà necessaria l’esperienza, i fatti concreti, che noi dobbiamo accompagnare con la nostra azione.

Jobs Act, reddito, salari decenti, precarietà, legge Fornero, ecc.… ai lavoratori e a giovani non ci limiteremo a dire “vi hanno preso per i fondelli!”, diremo invece: “noi pensiamo che Di Maio non vi darà niente di questo, ma vi proponiamo che invece di discutere fra noi di cosa farà o non farà il governo impieghiamo le nostre energie per organizzare assemblee, manifestazioni, scioperi e qualsiasi iniziativa possa coinvolgere la massa in una lotta reale per raggiungere questi obiettivi.”

Questo approccio è indispensabile sia per agire sulle contraddizioni del governo, sia per separare nettamente la nostra opposizione da quella del Pd, tanto nella corrente confindustriale (Calenda, Gentiloni, Minniti) che in quella che tenta di ricrearsi un’immagine “di sinistra” (Zingaretti, Orfini).

 

Per l’indipendenza di classe!

 

Solo su questa strada sarà possibile dare sostanza all’obiettivo che dobbiamo porre al centro: raccogliere le forze per la costruzione di un partito dei lavoratori e di tutti gli sfruttati, che nel suo programma, nella sua ideologia e nella sua prospettiva si fondi incrollabilmente sugli interessi autentici della classe lavoratrice contro tutte le compatibilità imposte da questo sistema economico.

Questa lotta può sembrare oggi al suo punto minimo per chi guarda solo all’irrilevanza elettorale delle forze di sinistra. Ma il motore della storia non sono le schede elettorali, è la lotta di classe che dobbiamo sapere riconoscere anche quando assume forme spurie, confuse e persino paradossali.

Il voto del 4 marzo è stato precisamente il frutto di una protesta della classe lavoratrice alla quale il Pd e i dirigenti della Cgil hanno impedito per anni di trovare qualsiasi espressione; in questo senso è stata la lotta di classe a generare questo governo e sarà la stessa lotta di classe che ne spalancherà le contraddizioni.

I lavoratori dovranno toccare con mano ad ogni passo la realtà dei fatti, dovranno inevitabilmente entrare anche in più di un vicolo cieco, ma non rinunceranno a lottare per i loro obiettivi, non torneranno a casa. E quel “cambiamento” generico, confuso, a volte anche mescolato a sentimenti reazionari, dovrà precisarsi sempre di più nel suo contenuto sociale, economico, politico.

Il nostro compito, e quello di chiunque militi per la costruzione una sinistra di classe e di massa nel nostro paese, è imparare a nuotare in questo gorgo.

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