La protesta dei trattori e il problema dell’agricoltura sotto il capitalismo

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La protesta dei trattori e il problema dell’agricoltura sotto il capitalismo

di Enrico Duranti

 

Partita dalla Germania, si è estesa a diversi paesi europei la rivolta degli agricoltori, con blocchi autostradali e manifestazioni a Bruxelles che hanno già indotto il parlamento europeo a fare marcia indietro su alcune delle norme oggetto della rivolta (quella sui pesticidi e quella sul 4% dei terreni a maggese) e diversi governi a fare concessioni (come il taglio dell’Irpef in Italia).

Il malcontento è veramente enorme ed è espressione di uno scontro acceso tra settori della stessa classe dominante, e allo stesso tempo diventa espressione del malcontento generale anche di altre classi. Le simpatie verso questa rivolta da parte della popolazione e anche di fasce di lavoratori sono molte e sono la diretta conseguenza di un clima sempre più insostenibile e di una crisi del potere d’acquisto per effetto dell’inflazione e dello scontro imperialista tra le varie potenze.

Esistono specificità nazionali, in cui le misure europee si intrecciano con le misure di austerità dei singoli governi, come è successo in Germania dove uno dei motivi scatenanti delle proteste è stato il taglio ai sussidi sul gasolio agricolo. Ma lo sfondo comune è il mix di fattori che stanno caratterizzando lo scenario internazionale nell’ultimo periodo: crisi economica, austerità, inflazione, scontro tra potenze imperialiste, protezionismo. In questo contesto, vediamo ancora una volta come le politiche di “transizione ecologica” sono fonte di scontro su chi debba farsene carico e comunque, viste in un’ottica di insieme, non sono altro che un gioco delle tre carte, che finge di risanare da una parte per continuare ad inquinare dall’altra (vedi la compravendita delle emissioni di CO2 o, come si vedrà più avanti in questo articolo, con la questione dei fitofarmaci).

Il movimento che si è prodotto è composito e differenziato non solo tra un paese e l’altro, ma anche a livello nazionale. In Italia, da un lato ci sono i grandi capitalisti del settore – rappresentati dalle associazioni di categoria come Coldiretti e Confagricoltura – che, a fronte dei lauti finanziamenti di cui godono da decenni con la PAC (politica agricola comunitaria), non sono disposti a rinunciare a nulla, – dall’altro le piccole imprese sempre più schiacciate dal processo di industrializzazione e concentrazione del capitale nel settore agricolo, che si sentono messe a repentaglio dalle nuove norme.

Nelle marce dei trattori abbiamo visto contestazioni nei confronti di Coldiretti e allo stesso tempo divisioni tra i comitati più disponibili a dialogare col governo (Riscatto agricolo) e quelli con una linea più “battagliera” (CRA Agricoltori traditi), sotto la guida di ex esponenti del movimento dei forconi che hanno aperto le porte alla partecipazione di gruppi di estrema destra (cosa che a sua volta ha provocato divisioni). Tutte queste componenti esprimono in ogni caso posizioni reazionarie.

Non sono pochi gli esponenti o i gruppi che a sinistra sono caduti nel sostenere questa protesta, sull’onda di una lotta all’Unione Europea, senza entrare minimamente nel dibattito sulla piattaforma rivendicativa delle varie sigle e associazioni agricole in lotta. Molti si sono accodati senza fare un minimo di analisi e critica, solo perché attratti dalla rivolta. Ma come la storia insegna, non tutte le rivolte sono progressiste, ed esistono anche rivolte reazionarie.

Come comunisti abbiamo l’obbligo di:
– analizzare concretamente questa protesta, riconoscendone tutti i suoi attori, dai grandi capitalisti del settore agricolo alla piccola borghesia agraria schiacciata da questi ma egemonizzata da posizioni reazionarie,
– analizzare le sue rivendicazioni che si oppongono sì anche a misure di per sé sensate, ma in un contesto di politiche “green” che, nel migliore dei casi sono foglie di fico, nel peggiore scaricano i costi sulle fasce più deboli della popolazione facendo il solletico al grande capitale,
– ed infine esprimere una nostra soluzione al problema agrario nel capitalismo contemporaneo con un approccio di classe.

Cosa rivendicano gli agricoltori?

Le proteste, seppur tra mille sfaccettature nazionali e anche regionali, sono partite da un profondo malessere in merito ai costi troppo elevati delle materie prime e dell’energia, in particolar modo del gasolio, oltre ai prezzi troppo bassi imposti dalla grande distribuzione. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il tentativo di bloccare gli incentivi per il gasolio agricolo, che permette prezzi calmierati da decenni.

Ma questa questione non è la sola. Tutta la politica agricola europea è stata rimessa in discussione a partire dalla nuova PAC (Politica Agricola Comunitaria), che ha introdotto tutta una serie di nuove norme, dei contributi per l’agricoltura. Viene messa in discussione anche tutta la politica agricola legata all’ambiente e al Green New Deal europeo, che puntava a ridurre l’uso di fitofarmaci, come pesticidi, insetticidi, ecc…

La nuova PAC punta a ridistribuire le risorse, comprendendo anche normative ambientali, climatiche, di risanamento del suolo e di tutela della normativa sul lavoro. I pagamenti diretti per coltivazioni e allevamenti vengono quasi dimezzati passando da un 85% ad un 48%. Per ottenere gli stessi soldi del passato, l’agricoltore dovrebbe adeguarsi alle nuove normative della PAC di carattere ambientale e sociale. Per ottenere il pagamento di base, l’agricoltore deve essere in possesso di titoli, ma deve rispettare anche la “condizionalità rafforzata” (regole di buona gestione agronomica e ambientale) e la “condizionalità sociale” (rispetto delle norme sul lavoro).

1 – Nella condizionalità rafforzata viene ad esempio inserito l’obbligo della rotazione colturale sui suoli dedicati a seminativi. Non è quindi più ammesso fare grano su grano o mais su mais. In questo modo, l’agricoltura intensiva, tipica dell’Europa, risentirebbe di un forte contraccolpo. Nonostante questo ci sono delle deroghe per le coltivazioni svantaggiate. Viene poi inserito il riposo del 4% dei terreni.

2 – In merito alla norma del riposo del 4% dei terreni occorre fare chiarezza, anche se questa norma è stata del tutto congelata per effetto della protesta. In pratica, l’Europa chiedeva di lasciare incolto e a maggese il 4% del terreno utilizzato, in cambio di un sovvenzionamento, per permettere una rigenerazione del suolo, che dopo anni di agricoltura intensiva è del tutto compromesso. La norma dava anche la possibilità di poter coltivare quel 4% in cambio di una coltivazione del 7% dei propri terreni con coltivazioni azotofissatrici, quindi con leguminose. Una pratica del tutto sana, per ricreare un suolo fertile da un punto di vista minerario. Agli agricoltori in protesta, questa norma non piaceva affatto, perché la coltivazione anche di quel 4% di terreno era un introito sicuro, nonostante la proposta europea di sovvenzionamento per non coltivarlo.

Le migliori pratiche agrarie ci dimostrano la necessità del riposo del terreno, dopo anni di stress da coltivazione, come pure l’importanza di una rotazione con coltivazioni azotofissatori. La logica capitalista dell’agricoltore capitalista, invece, ha imposto l’esatto contrario e cioè lo sfruttamento intensivo del suolo con un suo impoverimento.

3 – La nuova PAC vincola l’erogazione del pagamento di base al rispetto da parte dell’azienda della normativa sul lavoro e la sicurezza sui luoghi di lavoro (condizionalità sociale). Mentre prima l’agricoltore rischiava solo una sanzione, con la nuova PAC si perdono i fondi pubblici.

4 – Ci sono poi da rispettare gli ecoschemi legati agli impegni agroclimaticoambientali della condizionalità rafforzata. Questi ecoschemi assorbono il 25% delle risorse a disposizione. Ad esempio in questi obbiettivi c’è la riduzione degli antibiotici negli allevamenti, il benessere animale, inerbimento delle colture arboree, un sostegno all’olivicoltura, l’impegno per gli impollinatori a partire dalle api, ecc…

5 – La nuova PAC destinerebbe anche risorse per un sostegno redistributivo del reddito, andando a tutelare le aziende medio piccole, oltre ad interventi mirati per settori specifici come la filiera pataticola, oppure un sostegno al reddito per i giovani agricoltori.

Legato alla questione della PAC c’è anche la questione del Green New Deal che limiterebbe drasticamente l’uso di fitofarmaci. Di fronte al tentativo dell’Unione europea di limitare l’uso di fitofarmaci, gli agricoltori si sono rivoltati, parlando di fine dell’agricoltura e di fame per tutti gli europei.

Anni e anni di agricoltura intensiva in Europa non hanno fatto che avvelenare i suoli e le acque con pesticidi e fitofarmaci, tanto che sono uno dei primi sospettati per l’aumento di tumori, come nel caso del 4% a maggese, la richiesta dell’utilizzo dei fitofarmaci da parte degli agricoltori è solo nella logica capitalista. Produrre di più con il minimo di sforzo, aumentando la produttività.

Anche su questa questione, la commissione europea ha rivisto la norma, dando il via libera ai fitofarmaci. Sostanze chimiche come l’oxadixil, un fungicida presente spesso nelle acque continuerà a contaminare.
È bello notare come tutte queste proteste, che all’inizio sembravano scagliarsi contro le multinazionali, non hanno fatto che spianare ancor di più la strada alle stesse multinazionali dei fitofarmaci.

Quanti sono i soldi della PAC?

La PAC viene aggiornata ogni 5 anni e quella nuova che è entrata in vigore nel 2023 sarà presente fino al 2027. La PAC è stata finanziata con 386,6 miliardi di euro, pari a circa un terzo del bilancio europeo che nel periodo 2021-2027 vale 1.200 miliardi di euro. I fondi della PAC sono divisi in due pilastri fondamentali, il Fondo europeo agricolo di garanzia il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale. Il primo fondo ha una dotazione di 291 miliardi di euro, mente il secondo di 95,5 miliardi.

Il 72% dei fondi PAC del primo pilastro serviranno come sussidi diretti agli agricoltori, circa 190 miliardi di euro. In questo modo, l’agricoltura porterà a casa un quarto del bilancio complessivo europeo. Una quota enorme, anche se in passato, i sovvenzionamenti pubblici erano ancora maggiori. Negli anni ’80 ad esempio era il 66% del bilancio totale.

È importante notare come in passato, i sovvenzionamenti maggiori finivano in mano alle aziende più grandi, per effetto del maggior numero di ettari da lavorare. Questo settore è stato completamente drogato di denaro pubblico a fondo perduto, contribuendo al debito pubblico totale.

La situazione delle aziende agricole in Europa

Secondo le ultime statistiche di Eurostat, l’Unione Europea ha perso più di 5 milioni di aziende agricole dal 2005 al 2020, un declino di circa il 37%.

I cali si sono verificati in tutte le tipologie di aziende: con un meno 2,6 milioni di aziende agricole miste (coltivazione e allevamento), meno 1,6 milioni di allevamenti e meno 0,9 milioni di aziende specializzate nella coltivazione. La progressiva diminuzione del numero di aziende, a cui si contrappone una certa stabilità nelle superfici complessive, ha comportato una redistribuzione fondiaria abbastanza diffusa.

Le dimensioni medie delle aziende agricole aumentano in tutti i paesi, ad eccezione della Repubblica Ceca. L’azienda media europea ha una superficie pari a 17,35 ettari nel 2020, mentre era pari a 13,23 ha nel 2010, con un incremento del 31,20%. I paesi che hanno visto una maggiore variazione positiva delle dimensioni medie delle aziende agricole sono Bulgaria (184,24%), Ungheria (158,72%), Croazia (81,18%), Estonia (78,78%), Lituania (60,85%). Stando agli ultimi dati Eurostat, il 65,6% delle aziende è sotto 1 ettaro di superficie e coltiva il 6,1% della SAU (superficie agricola utilizzata), il 12,1% delle aziende è sotto i 10 ettari e coltiva il 5,1% della SAU.

Il 3,6% delle aziende è delle dimensioni tra 50 e 100 ettari e utilizza il 15,5% della SAU, mentre 3,3% delle aziende è superiore ai 100 ettari e utilizza il 52,7% della SAU. In pratica, quasi il 70% delle terre utilizzate in agricoltura in Europa, è in mano a meno del 7% delle aziende con più di 50 ettari. Una concentrazione in poche mani, tipica di tutti i settori industriali del capitalismo avanzato.

 

Distribuzione delle aziende agricole in Unione Europea in base alla superficie agricola utilizzata).

 

Quale è la situazione in Italia?

Il settimo censimento generale dell’agricoltura del 2021, ci offre importanti elementi di analisi per capire la situazione. A ottobre 2020 risultano attive in Italia 1.133.023 aziende agricole (vedi prospetto che segue).

 

fonte: Settimo censimento generale dell’agricoltura.

Nell’arco dei 38 anni intercorsi dal 1982 – anno di riferimento del 3° Censimento dell’agricoltura, i cui dati sono comparabili con quelli del 2020 – sono scomparse quasi due aziende agricole su tre. La riduzione è stata più accentuata negli ultimi vent’anni: il numero di aziende agricole si è infatti più che dimezzato rispetto al 2000, quando era pari a quasi 2,4 milioni.

In 38 anni, come conseguenza della diminuzione più veloce del numero di aziende agricole rispetto alle superfici, la dimensione media delle aziende agricole è più che raddoppiata sia in termini di SAU (passata da 5,1 a 11,1 ettari medi per azienda) che di SAT (da 7,1 a 14,5 ettari medi per azienda).

Basti notare che dal 2010 al 2020 le aziende agricole sono calate da circa 1,6 milioni a 1,1 milioni. Di queste aziende, le aziende individuali o a conduzione familiare sono calate del 32%, mentre sono aumentate del 15% le aziende con la forma giuridica di società di persona e del 42,4% le società di capitali. Rispetto alla SAU, sempre dal 2010 al 2020, vediamo una diminuzione del 7% dei terreni utilizzati dalle società individuali e familiari, mentre aumentano rispettivamente del 27,1% e del 31,8% le società di persone e le società di capitali. In questi anni diminuiscono anche del 21% i terreni utilizzati dalle società cooperative.

Il processo di concentrazione dei terreni agricoli in aziende sempre più grandi, con il fallimento delle piccole aziende individuali e a conduzione familiare, viene confermato anche dall’analisi delle classi di dimensione in rapporto alla SAU. Tra il 2010 e il 2020 calano del 51,2% le aziende piccole con meno di un ettaro di terreno di dimensione, del 35,7% le aziende fino a 2 ettari di dimensione. La tendenza alla riduzione delle aziende decresce pian piano al crescere della classe di SAU.

Infatti, il trend negativo di decrescita di aziende si inverte con le aziende tra i 50 e 100 ettari, che aumentano dell’11,2% e le aziende con più di 100 ettari che aumentano del 17,7%.

fonte: Settimo censimento generale dell’agricoltura.

 

fonte: Settimo censimento generale dell’agricoltura.

 

Altro dato da tenere in considerazione è la diminuzione di aziende in base alla regione. Diminuiscono molto di più le aziende al meridione, rispetto al nord Italia. Dal 2010 al 2020, se la media nazionale è di una diminuzione di aziende del 30%, in Lombardia diminuiscono del 13,7% a differenza della Campania che vede calare del 42% le aziende. In tutto il meridione, le aziende calano ad una media superiore al 30%.

Nel settimo censimento, si vede benissimo anche come il calo delle aziende individuali o a conduzione familiare, con la concentrazione in aziende sempre più grandi, coincide anche con un aumento importante della manodopera salariata. Nonostante il calo generale della forza lavoro complessiva del 28,8%, aumenta la manodopera salariata del 38%.

Il lavoro salariato nel 2020 rappresenta il 47% delle persone impegnate nelle attività agricole, rispetto al 24% del 2010. In pratica, il lavoro salariato in agricoltura è quasi raddoppiato in dieci anni, con quasi 1,3 milioni di lavoratori salariati totali. I salariati in agricoltura sono in numero quasi pari alla manodopera familiare che conta poco più di 1,4 milioni di persone.

Mentre nel 2010 la manodopera familiare contava poco meno di 3 milioni di persone, rispetto ai 938mila salariati. Un quadro che si è completamente stravolto in dieci anni. Anche rispetto alle giornate di lavoro standard vanno fatti due conti. Di fronte ad un calo del 27,6% in dieci anni delle ore lavorate dalla manodopera familiare, aumenta del 37,5% la manodopera salariata.
Sono dati importanti, che ci indicano un aumento del lavoro salariato legato all’aumento delle dimensioni delle aziende. Un vero processo di industrializzazione del settore agricolo.

fonte: Settimo censimento generale dell’agricoltura.

 

L’industria dei fitofarmaci e delle sementi

Il mercato mondiale dei fitofarmaci e delle sementi è in mano ad un manipolo di multinazionali che controllano l’intera filiera con enormi profitti.

A partire dagli anni ’40 l’industria chimica ha cominciato a produrre e immettere nel mercato sempre più fitofarmaci che hanno modificato a livello mondiale l’intero mondo dell’agricoltura, creando enormi problemi di carattere ambientale, di salute e sociali.

L’uso di fitofarmaci, nel nome di una “Rivoluzione verde” è stato alla base dell’agricoltura intensiva con lo sfruttamento estremo dei terreni tramite monocolture, abbandonando gli antichi saperi contadini sulla rotazione e sulla consociazione delle colture.

Nel giro di pochi decenni, nei paesi industrializzati, l’uso di fitofarmaci è diventato lo standard, aumentando le rese, facendo crollare i prezzi dei beni agricoli e dei salari dei lavoratori, oltre ad aver espulso dal mondo del lavoro agricolo milioni di lavoratori.

Si può parlare di una vera e propria industria agroalimentare, che dipende dai fitofarmaci stessi ed è inimmaginabile senza di essi. Dagli anni ’60, la “Rivoluzione verde” si è spinta sull’incremento della produzione agricola nei paesi del sud del mondo, creando ulteriori problemi alle varie comunità locali agricole che si basavano su modelli di autosufficienza alimentare. Questa situazione ha portato ad un ulteriore impoverimento generale, con il fallimento di intere comunità agricole e la concentrazione del capitale in minor mani ed in aziende sempre più grandi.

Mentre milioni di persone nel sud del modo muoiono di fame, l’industria agroalimentare ha aumentato la produzione a livelli inimmaginabili ed ha contribuito anche alla tendenza dell’industria agroenergetica, con interi continenti invasi dalle coltivazioni ai fini dei “biocarburanti”.

Enormi problemi sono stati riscontrati con contaminazioni di suolo, acque superficiali e anche falde acquifere, con una contaminazione tramite aerosol anche a centinaia di chilometri dal punto di irrorazione.

L’intero ecosistema è stato compromesso, con enormi danni agli insetti benevoli e anche molte piante spontanee utili in agricoltura. L’Europa, che a parole ha deciso di ridurre l’uso di fitofarmaci nel mondo, è uno dei continenti dove si concentra l’industria chimica per la produzione di fitofarmaci ai fini dell’esportazione.

Allo stesso tempo, nonostante l’UE abbia deciso di proibire molti fitofarmaci in quanto nocivi per l’ambiente e la salute, importa tramite trattati commerciali, grandissime quantità di prodotti agricoli, prodotti con i peggior fitofarmaci. Un vero paradosso, che è anche al centro della protesta degli agricoltori europei e che esprime un fondo di ragione nella protesta.

Oggi nel mondo vengono usati 4 milioni di tonnellate di pesticidi. Di cui circa la metà rappresentati da erbicidi contro le piante infestanti, il 30% da insetticidi, il 17% da fungicidi. Il mercato globale nel 2019 è stato pari a 84,5 miliardi di dollari, con un tasso di crescita del 4% dal 2015. Si stima che nei prossimi anni, il mercato possa aumentare a tassi ancor maggiori, soprattutto a causa del cambiamento climatico, del degrado del suolo e per la perdita di biodiversità.

Allo stesso tempo, con il cambiamento climatico, si stima una riduzione del 15-20% di produzione per riso, frumento e mais, per ogni grado centigrado di aumento in più delle temperature.

Il mercato dei fitofarmaci è in mano a pochissime aziende, basti pensare che nel 2018, le Big Four – Syngenta group, Bayer, Corteva e Basf, controllavano circa il 70% del mercato mondiale, quando venticinque anni prima controllavano il 29% del mercato. Allo stesso tempo, nella filiera delle sementi, la quota di queste quattro aziende leader, è aumentata dal 21% al 57% nel medesimo periodo.

 

 

 

 

Questo è avvenuto anche tramite concentrazioni sempre più grandi, come l’acquisto della statunitense Monsanto da parte della tedesca Bayer che a sua volta ha venduto parte del business alla chimica tedesca Basf.

Il mercato delle sementi è parallelo al mercato dei fitofarmaci. Alle multinazionali dei fitofarmaci interessa che vengano impiegati nella coltivazione le loro sementi. Principalmente soia e mais rappresentano il 75% delle vendite delle sementi, che si basano su una riproduzione selettiva e sulla modificazione genetica. Per Bayer la vendita di sementi di queste colture vale il 75%. Per Syngenta, che dal 2017 è controllato dal colosso di Stato cinese ChemChina, vale il 55%, mentre per Corteva, nata nel 2015 dalla fusione tra Dupont e l’americana Dow Chemicals, vale l’85%.

Nel 2000, il 70% dei fitofarmaci erano formulazioni chimiche brevettate o di proprietà esclusiva. I brevetti sono quasi tutti scaduti e non rimpiazzati, tanto che oggi solo il 15% è brevettato. I prodotti pesticidi più venduti sono l’erbicida glifosato, il paraquat, l’atrazina e neonicotinoidi, tutti caratterizzati per la loro pericolosità.

La vendita globale dei cinque principali produttori di questi pesticidi è ormai indirizzata verso il paesi non industrializzati e del sud del mondo. Se in Germania rappresenta il 12% delle vendite e in Francia l’11%, in Brasile la vendita rappresenta il 49% e in India il 59%.

L’Europa, nonostante il divieto di utilizzo dell’uso dei pesticidi ad alto rischio (HHP) nei suoi confini, produce tantissimi HHP per l’esportazione. Sul totale dei pesticidi prodotti in Ue, il 30% è HHP e il valore dell’export è passato da 3,2 miliardi di euro nel 1989 a 15,3 miliardi nel 2020.

La situazione in Europa della vendita dei pesticidi è stabile da circa dieci anni e vengono usati circa 360mila tonnellate all’anno. Quasi un quarto di tutti i pesticidi a livello mondiale è venduto in Europa, per un mercato di 12 miliardi di euro, contro i 53 miliardi a livello globale.

Questo ha provocato seri problemi all’ambiente. Basti ricordare la contaminazione delle acque in Italia, dove nel 55,1% dei punti di monitoraggio delle acque superficiali e nel 23,3% delle acque sotterranee sono state trovate 406 sostanze chimiche diverse, di cui 183 legate agli erbicidi. In Italia il glifosato e il suo metabolita Ampa sono le sostanze più rilevate nelle acque italiane.

L’uso dei fitofarmaci corre di pari passo con l’uso degli OGM. L’invenzione degli OGM è sempre stata spacciata dai politici e dalle industrie agrochimiche come la soluzione per ridurre l’uso di pesticidi. Ciò non è assolutamente veritiero e abbiamo visto l’esatto contrario.

Il 74% della soia coltivata a livello mondiale è geneticamente modificata ed è legato ad un aumento indiscriminato di glifosato. Negli Usa dal 1995 al 2014, il glifosato è aumentato di nove volte, raggiungendo 113mila tonnellate all’anno. Globalmente è aumentato di 15 volte. Questo uso massiccio di glifosato ha provocato una maggiore resistenza da parte di piante erbacee.

Come si può veder benissimo, l’aumento degli OGM è andato di pari passo all’aumento di fitofarmaci.
Da anni ci hanno fatto credere che gli OGM avrebbero risolto il problema della fame nel mondo. Ma è stato veramente così? Tutti i dati ci dicono l’esatto contrario, visto che l’uso degli OGM per l’agricoltura intensiva è servita principalmente per le coltivazioni di soia destinata agli allevamenti e mais per l’agroenergetico.

La fame non si è risolta con l’aumento delle colture intensive, ma sono aumentate la povertà e la non capacità di accedere a cibo sano e nutriente, nonostante il sistema attuale produce cibo per 12 miliardi di persone, come ci ricorda la FAO.

Gli OGM sono l’espressione di un regime monopolistico dell’agricoltura in mano a pochissime aziende, alla sete di profitti estrema e a un modello del tutto drogato, esasperato e irrazionale.

A Gennaio, la Commissione Europea ha dato il via libera alle NGT (New Genomic Techniques), nuove tecniche genomiche per piante più resistenti. A tutti gli effetti si possono paragonare a nuovi OGM.
Quasi tutto il quadro politico, imprenditoriale, finanziario, ha spacciato queste nuove tecniche come la soluzione di tutti i mali, a partire dalla lotta al cambiamento climatico, con la creazione di piante resistenti agli eventi estremi.

Come nel caso degli OGM, attualmente quasi banditi in UE, le NGT potrebbero provocare le stesse dinamiche del mercato OGM. Il rischio è un’ulteriore monopolizzazione del mercato agricolo in mano alle solite note multinazionali della chimica agraria. Il rischio di una imposizione ulteriore di piante destinate alle colture intensive è altissimo, con una ulteriore perdita della biodiversità.

Attorno ai brevetti ci sono enormi profitti, oltre al rischio di impollinazione di piante non NGT, con la creazione di nuove piante ibride.

Quasi tutte le categorie degli agricoltori in rivolta hanno sostenuto queste nuove tecniche, alla faccia della lotta alle multinazionali.

Tutti questi dati sull’industria chimica legata all’agricoltura, delle sementi e della stessa ricerca agraria, ci dimostrano una semplice verità. Il profitto privato è il vero scopo e non esiste nessun scopo sociale e nessun tentativo di risolvere la fame nel mondo o risolvere problemi legati all’impatto sull’ambiente, la salute, o sui cambiamenti climatici.

L’unica soluzione risiede solo nella nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori di questa importante fetta di industria mondiale, per creare una industria non basata sui profitti, ma su un modello razionale di produzione.

Il problema dei costi nel settore agricolo e lo scontro con la grande distribuzione

L’enorme concentrazione in poche mani dei terreni coltivati, la scomparsa di due terzi delle piccole aziende e la crisi generale di tutte le aziende medio piccole, sono frutto della politica sui costi di produzione e dei prezzi bassi delle materie prime pagate all’agricoltore, che spesso, nel caso delle piccole e medie aziende, vede un superamento dei costi rispetto ai guadagni. La crisi del capitalismo e la congiuntura economica e internazionale degli ultimi anni, con il ritorno dell’inflazione, ha dato un ulteriore colpo al settore agricolo. Il risultato è un ulteriore impoverimento di chi era già piccolo, che non riesce neanche a ricavare un reddito per vivere.

La questione dei costi alti e dei guadagni nulli non può essere fatta a spese dell’ambiente, come molti agricoltori pretendono. Non è massimizzando le coltivazioni con pesticidi e fitofarmaci, per produrre di più, che si risolve il problema. Anzi, il rischio è di accentuare una crisi ambientale e climatica che porta all’aumento della perdita della fertilità del suolo e ad ulteriori patogeni indotti dal cambiamento climatico, oltre alle maggiori perdite per gli eventi estremi climatici.

Il problema dei costi e dei guadagni è serio e deve essere affrontato attentamente e una parte di verità esiste nel mondo agricolo in rivolta. I passaggi che avvengono tra i campi dove si produce il bene e la tavola dove si consuma devono essere del tutto rivisti. Questi passaggi sono completamente slegati dai costi di produzione e schiacciano il produttore, favorendo le speculazioni finanziarie delle commodity e le multinazionali della grande distribuzione.

Il mondo del mercato contadino non esiste più da anni, proprio per l’evoluzione del capitalismo nella sua fase imperialista, con la concentrazione della produzione e dei capitali in grandi trust e monopoli.

Secondo la FAO, nel 1910 la percentuale del prezzo di un bene agricolo, portava nelle tasche del produttore circa il 40%. Nel 1997 questa quota si è ridotta al 7% e ora ancor di più. I passaggi di filiera, i futures delle merci agricole, hanno completamente stravolto e ridotto il guadagno del produttore, mentre la speculazione ha aumentato i profitti degli investitori finanziari. Oltre a questo ha guadagnato la grande distribuzione nella compravendita dalle grandi commodity.

Per eludere questo problema, molti agricoltori hanno ben pensato di riunirsi in consorzi, in modo da mantenere i propri guadagni. Ma le leggi del mercato capitalista hanno portato le multinazionali della grande distribuzione a trattare direttamente con i consorzi e non sul prezzo di produzione del singolo agricoltore.

Prendiamo per esempio il prezzo del latte in Francia. Nel 2001 mezzo litro di latte costava 55 centesimi: 25 andavano all’allevatore, 22 al consorzio e 0,8 al distributore. Nel 2022, mezzo litro di latte costa 83 centesimi, ma solo 24 vanno all’allevatore, mentre 36 vanno al consorzio e 23 al distributore.

Sono le leggi del capitalismo, che portano inesorabilmente alla concentrazione sempre in meno mani. È così nella distribuzione, dove abbiamo visto la scomparsa delle botteghe di paese o quartiere per far posto a ipermercati e centri commerciali, è così nell’agricoltura, dove i piccoli periscono e aumentano le dimensioni delle aziende grandi, spesso legate alle dirigenze di consorzi o addirittura di gruppi finanziari o multinazionali stesse della distribuzione.

Quale soluzione?

La tendenza alla concentrazione di capitali e di terreni ci indica una sola strada che è solo nella nazionalizzazione di tutte le aziende sopra i 50 ettari di dimensione e la nazionalizzazione del sistema della grande distribuzione e di tutta la filiera che va dal campo alla tavola, compreso le aziende alimentari di trasformazione di prodotti, nonché delle grandi aziende che producono sementi e fitofarmaci.

Queste nazionalizzazioni sotto il controllo diretto dei lavoratori possono gettare le basi per un sistema più razionale di tutto il mondo dei beni agricoli e dei prodotti finali che ci arrivano in tavola. Il controllo dei lavoratori è fondamentale e può benissimo esser applicato anche al mondo agricolo, visto l’aumento del salariato agricolo in generale.

Oltre a questa questione deve essere affrontata la questione di stimolare i piccoli agricoltori a forme cooperativistiche, in modo da permettere loro redditi di base decenti.

La soluzione non è un sistema capitalista con politiche di greenwashing come vuol farci credere l’Europa, così come non si può continuare con un sistema agricolo irrazionale basato sull’impoverimento del suolo. C’è bisogno di un sistema del tutto differente, che potrebbe affrontare seriamente la questione dell’ambiente e del cambiamento climatico, oltre alla questione della povertà assoluta e della fame.

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