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16 Ottobre 2015La lotta dei rifugiati e la solidarietà della classe operaia alle porte dell’Europa – 3 giorni a Horgos
“Quando vendi il sogno americano, o europeo, al resto del mondo, e nel frattempo rendi la vita di tutti quelli che sono fuori da quei continenti un incubo insopportabile, non puoi davvero sorprenderti se a un certo punto inizia un movimento di massa verso quelle autoproclamate terre promesse.”
La cosiddetta crisi dei rifugiati è stata, negli ultimi tempi, al centro dell’attenzione pubblica, soprattutto in quei paesi che vengono attraversati da queste persone disperate, in cerca di un futuro pacifico e sicuro. All’inizio, avevo pensato di andare a Belgrado e unirmi all’associazione di volontariato Refugee Aid (Aiuta i rifugiati) per dare una mano a distribuire i viveri, mentre contemporaneamente avrei fatto delle interviste ai rifugiati e diffuso notizie sulla loro condizione. Ma gli scontri avvenuti al confine ungherese, a Horgos, dove la polizia ha attaccato i rifugiati con una brutalità senza precedenti, mi hanno fatto cambiare i miei piani e quindi ho deciso di dirigermi la con alcuni compagni. Siamo arrivati che gli scontri erano finiti, portando quanti più viveri potevamo, e abbiamo deciso di restare per dare una mano.
Chi sono questi rifugiati?
Il 16 Settembre, appena arrivati a Horgos, al valico di frontiera trasformato in campo di accoglienza, io e i compagni di Crveni e Sombor abbiamo incontrato migliaia di persone provenienti da tutto il Medio Oriente, tutti impegnati in una lotta continua per i beni di prima necessità, per la sopravvivenza propria e, spesso, della propria famiglia, che molti di loro hanno portato con sé in questo viaggio verso l’ignoto. Ci abbiamo messo un po’ a sistemarci, ma ancora più tempo è servito a me per trovare il coraggio di avvicinarmi ai rifugiati e parlare con loro, non perchè fossi spaventato, non lo sono mai stato, nemmeno per un attimo, ma perchè mi sembrava una cosa un po’ invadente parlare con delle persone così in costante affanno nel tentativo di sopravvivere, che ogni loro secondo sembrava prezioso. A parte alcuni casi in cui ho aiutato delle persone, per lo più siriani e afghani, a trovare tende, coperte o una connessione internet (ho attivato la funzione hotspot sul mio cellulare, che è rimasta attiva praticamente fino alla fine), è stato solo il giorno seguente che ho potuto avere una vera e propria conversazione che gli abitanti del campo di Horgos.
Al mattino le cose sembravano essersi calmate. Non c’era quasi più traccia del caos che si era scatenato alcune ore prima, quando la polizia aveva picchiato e intossicato di gas lacrimogeni i rifugiati che tentavano di attraversare il confine, quale ne fosse l’età. Mi sono allora avvicinato ad alcuni gruppi di persone che avevano dormito li fuori, in tenda, e gli ho chiesto di raccontarmi le loro storie. C’era una famiglia di Hazara, proveniente dall’Afghanistan, fuggita dalla guerra permanente che affligge il loro paese a causa dell’ingerenza imperialista. Gli Hazara sono un minoranza sciita che vive in Afghanistan e in Pakistan, si pensa abbiano origini mongole, e in quanto tali subiscono molteplici forme di oppressione, sia come minoranza etnica che come minoranza religiosa, sono perseguitati dall’imperialismo, dal nuovo regime, dai talebani. Infatti, tutte queste fazioni erano viste per quello che sono, dall’Hazara con cui ho parlato. Quando gli ho chiesto se fosse scappato a causa dell’America o dei talebani, lui ha unito le mani e ha detto: “America e talebani, sono lo stesso. Bin Laden era un prodotto della CIA”. Mentre parlavano, l’uomo si stava mettendo i guanti e si preparava a pulire l’area intorno alla tenda dove avrebbe dormito con la sua famiglia. L’autorganizzazione dei lavori di pulizia era un fenomeno diffuso, anche se era praticamente impossibile avere un ambiente davvero pulito in un campo profughi dove i sacchi di rifiuti si impilano uno sull’altro, a fianco degli escrementi umani. Ma era comunque un tentativo che dimostrava disciplina e cooperazione – in questo modo quelle persone dimostravano che se anche avevano perso tutto, non avevano comunque perso la dignità.
Il campo c’erano tutti i tipi di famiglia. Qualcuna che aveva viaggiato insieme fin dall’inizio, qualcun’altra si era formata per strada, famiglie di amici incontrati lungo il viaggio e riuniti insieme per non stare da soli e guardarsi a vicenda le spalle. Erano una famiglia di questo nuovo tipo il gruppo di siriani che ho incontrato. Mi hanno invitato a sedere con loro, intorno al fuoco che avevano acceso per riscaldare la mattinata, e mi hanno detto di essere arabi sunniti che avevano deciso di non combattere con nessuna delle fazioni in guerra. Una cosa che ho notato rispetto a loro e anche rispetto agli altri siriani, a parte i curdi, era la loro ritrosia a farsi fotografare, temendo ancora i servizi segreti di Assad. Nonostante questo, hanno accettato di farsi una foto insieme a me, come ricordo, dopo avermi fatto promettere di non pubblicarla.
Contrariamente al pregiudizio diffuso nell’opinione pubblica che i rifugiati sono tutti giovani e in buona forma fisica, tra le persone che ho visto nel campo c’erano molti bambini, donne e anziani, e anche un numero impressionante di disabili sia affetti da problemi congeniti che da amputazioni conseguenti alla guerra, persone a cui mancavano gambe o braccia, e che si muovevano su sedie a rotelle o con le stampelle.
Comunque, non tutti i rifugiati che ho incontrato scappavano da una guerra. Molti avevano iniziato il loro viaggio verso l’Europa per scappare dalla povertà, in cerca di quella vita normale e dignitosa che gli veniva negata nei loro paesi d’origine. Molte di queste persone provenivano da paesi africani, come il Sudan, o da altri paesi del Maghreb. La stampa reazionaria occidentale ha tentato spesso di introdurre la distinzione tra i rifugiati e cosiddetti migranti economici. Questa distinzione pretestuosa esiste persino nella legislazione internazionale. Si basa sulla falsa promessa che la vita di una persona è in pericolo, abbastanza da poter essere considerata un rifugiato, solo in una zona di guerra. In realtà, la vita di tutti i giorni in estrema povertà è altrettanto pericolosa, se non di più, per chi lavorando cerca di avere una vita dignitosa. Lo stress, le malattie, il crimine, l’indigenza, sono tutte cose che minacciano pesantemente la vita delle persone, e non c’è niente di più cinico che dire loro “non sei una zona di guerra e quindi stai bene”. Imbrogli legali come questo servono solo a restringere il campo delle responsabilità della cosiddetta comunità internazionale e delle sue istituzioni, che agiscono quasi come se fossero delle compagnie di assicurazioni, dicono che il loro scopo è aiutare le persone che ne hanno bisogno, ma in realtà sono per lo più preoccupate a trovare un modo per evitare o per minimizzare i propri obblighi.
Il recinto invalicabile della “società aperta”
Anche se questi obblighi non sono sempre facili da evitare. Quando vendi il sogno americano, o europeo, al resto del mondo, e nel frattempo rendi la vita di tutti quelli che sono fuori da quei continenti un incubo insopportabile, non puoi davvero sorprenderti se a un certo punto inizia un movimento di massa verso quelle autoproclamate terre promesse.
Per decenni, fino ad oggi, le nazioni imperialiste dell’Europa occidentale e del nord America hanno presentato il loro sistema liberal democratico come quello di “società aperte”, società di “individui liberi” dove era possibile il “libero movimento delle merci e delle persone”. E andava tutto bene finchè i mercati erano in espansione, durante la cosiddetta età dell’oro del riformismo, resa possibile dal boom del secondo dopoguerra e dall’integrazione nel mercato mondiale dei paesi ex-stalinisti.
Ma una volta che il capitalismo è entrato in crisi, e il mondo del capitale si arrimpicava sugli specchi per fermare la caduta del saggio di profitto, la maschera dell’apertura e della libertà si è rivelata essere quello che era sempre stata, una patina di libertà astratta che nascondeva una forma di sfruttamento estremamente spietata e concreta. Una maschera che aveva uno scopo durante la Guerra Fredda, quando serviva all’imperialismo per presentarsi come un’alternativa vivace e colorata alla triste e grigia vita “comunista” degli stati operai deformati. Ma quando questi stati sono tornati ad essere stati capitalisti, pronti alla “transizione”, cioè al saccheggio delle privatizzazioni ad opera dei burocrati locali e dei loro compari oligarchi, questa maschera non ha più avuto uno scopo. La faccia sorridente della “democrazia” e della “libertà di scelta” è stata rapidamente sostituita dalla frusta del “non c’è altra alternativa”. Le politiche riformiste che facevano concessioni alla classe operaia sono state presto sostituite dall’austerità e dalle privatizzazioni, che hanno impedito a milioni di persone di accedere ai benefici minimi della civiltà, come servizi gratuiti e di qualità per la salute, l’educazione e la casa.
Guerre imperialiste sono cominciate in Africa e nel Medio Oriente, da cui non erano mai provenute delle vere minacce per le popolazioni occidentali. Fin dall’inizio, sono state solo un modo per sostenere i mercati in crisi e fare soldi veloci, senza una strategia a lungo termine per quelle regioni, senza preoccuparsi minimamente per quello che sarebbe accaduto a quei popoli una volta che le loro risorse fossero state drenate e una volta che i loro “liberatori” occidentali avessero finito di fare i loro comodi.
Ma il mondo è rotondo, per quando questi signori facciamo per dimenticarsi di questo semplice fatto, e il casino che fai in una parte del mondo inevitabilmente alla fine tornerà a colpirti alle spalle nel tuo comodo salotto. Il concetto europeo di “libera circolazione delle persone e delle merci” era stato inizialmente pensato per aumentare le esportazioni tedesche e per assicurarsi mano d’opera a basso costo e non sindacalizzata attraverso l’immigrazione controllata. E’ stata una decisione tattica del capitale europeo occidentale che ha facilitato la colonizzazione dell’Europa orientale attraverso il processo noto come “integrazione europea”. Ma per essere venduta alle masse dell’Europa dell’est e del resto del mondo, questa decisione tattica del tutto economica doveva essere presentata come una scelta di principio, come un “valore europeo”, parte integrante dell’ideologia dominante europea. Non stupisce, quindi, che milioni di disperati nel tentativo di salvarsi la vita abbiano preso alla lettera questo “valore” e abbiamo chiesto ai paesi europei di mantenere le loro false promesse.
Sfortunatamente, nel mondo dominato dal libero mercato, una promessa è buona solo in proporzione al potere che la sostiene, che sia economico o politico. Se le masse di rifugiati non portano alcun profitto al capitale europeo, se loro, infatti, mettono più che altro pressione sullo stato sociale, e non solo finanziariamente, chiedendo più servizi sociali dal loro arrivo, ma anche politicamente, difendendolo come istituzione, se lo fanno in massa, come un collettivo e non come individui atomizzati che arrivavano dall’immigrazione controllata, allora vanno a costituire un nuovo alleato naturale per i movimenti anti-austerità, guidati dalla classe operaia europea. Inoltre, un’alleanza del genere favorirà la piena integrazione della maggioranza dei rifugiati nelle organizzazioni operaie, una volta che la loro permanenza in Europa sarà diventata più stabile e sicura. Ci sono molte ragioni per aspettarsi questo.
Prima di tutto, il mercato del lavoro delle principali economie europee, che si sta riducendo, non sarà in grado di assorbire tutti i rifugiati, ma nemmeno la maggioranza, per un lungo periodo di tempo. Per molti di loro sarà difficile trovare un lavoro prima di poter avere un indirizzo stabile, una volta verificato le loro capacità, appreso la lingua del paese che li ospita, ecc. E inoltre, molti di loro hanno con se famigliari non autosufficienti, che siano bambini o parenti disabili. Perchè diventino più adatti al mercato del lavoro, quindi autosufficienti, servirà molto tempo e un investimento da parte dello stato. Lo stesso in realtà si può dire dei milioni di disoccupati, privi di una educazione adeguata, o anche senzacasa che già vivono in Europa. C’è già quindi la necessità di una soluzione a tutto tondo di questi problemi economici che affliggono milioni di persone, rifugiati e autoctoni allo stesso modo.
In secondo luogo, non c’è formazione o educazione che possa essere veramente di aiuto in presenza di una mancanza cronica di lavoro. La riduzione del mercato del lavoro spingerà le organizzazioni operaie sempre più verso la ricerca di una soluzione politica alla crisi dell’occupazione, soluzione che non si può più trovare all’interno dell’economia di mercato. Il movimento operaio sarà sempre più portato a scegliere se capitolare definitivamente, o rovesciare il capitalismo. La scelta che dovrà essere fatta a questo bivio sarà molto influenzata dal modo in cui il movimento operaio si rapporterà la forza lavoro immigrata. Se si approccerà con ostilità e competizione, la borghesia avrà compito facile nell’utilizzare la manodopera dei profughi per peggiorare le condizioni di lavoro di tutti. Se invece cercherà, facendogli conoscere i loro diritti, di integrarli nelle strutture sindacali, queste persone, coraggiose e dalla tempra rinforzata dalle avversità, potranno diventare uno dei settori più combattivi della classe operaia.
Infine, la loro integrazione contrasterà la divisione culturale, farà crollare il mito dello “scontro tra civiltà”, che la classe dominante è così interessata a mantenere per giustificare i propri interventi imperialisti in tutto il globo. Il venire meno del sostegno alla guerra imperialista renderà davvero difficile, se non impossibile, per la classe dominante usare il pretesto dell’unità nazionale per introdurre nuove misure repressive nell’apparato statale e costringere il movimento operaio a fare un passo indietro di fronte all’autoritarismo della “sicurezza nazionale”, accettando una ulteriore diminuzione dei propri diritti.
Uno scenario che il capitale europeo eviterebbe volentieri, anche a costo di infrangere alcune delle sue legge e dei suoi accordi, come la convenzione di Ginevra del 1951 o il trattato di Schengen.
Non c’è quindi da stupirsi che tutte le nazioni periferiche della UE, come l’Ungheria, la Croazia e la Bulgaria, siano state usate come sentinelle di frontiera, spinte a fare tutto quello che potevano per impedire ai rifugiati di raggiungere i principali paesi imperialisti, come la Germania, l’Inghilterra o la Francia, o regioni come il Benelux e la Scandinavia. Sfruttare questi paesi come scudi è conveniente anche dal punto di vista politico, visto che sono “nuovi europei”, cioè membri recenti della UE, ancora sotto la tutela dei paesi fondatori della UE, in particolar modo della Germania, su questioni come la “democrazia” e “i diritti umani”. Grazie a questo escamotage, ogni tipo di abuso, di eccessivo uso di forza o altri atti da stato di polizia, che questi paesi applicano contro i rifugiati, può essere giustificato come un eccesso di zelo dovuto alla loro giovane “militanza democratica” per cui non hanno ancora assimilato bene i valori europei.
E nessuno si è trattenuto, con gli abusi. Faceva veramente straziare il cuore vedere le donne, i bambini, gli anziani e i disabili, colpiti indiscriminatamente dai manganelli e dai gas lacrimogeni dai poliziotti ungheresi iper-eccitati. Le immagini delle prigioni per immigrati che ricordavano molto i campi di concentramento, come il fatto che sia stato impedito ai gruppi auto-organizzati di solidarietà di portare aiuti all’interno dei campi, o l’eccesso impressionante di forza bruta impiegata dalla polizia sono tutti segni dell’obbedienza cieca, del desiderio incontenibile di Viktor Orban di accreditarsi come il nuovo soldato di ferro anti-immigrati di Berlino. La violenza e il disprezzo per i diritti umani e la legge internazionale erano sfacciati, non è stato fatto alcun tentativo per nasconderle. La polizia ungherese si è spinta fino a irrompere oltre i confini della Serbia per sparare lacrimogeni e arrestare chi protestava sul suolo serbo. La stampa ungherese ha fatto la sua parte nel diffondere la paranoia razzista pubblicando storie sensazionalistiche e prive di fondamento, come quella in cui si diceva di un treno proveniente dalla Croazia in cui, sostenevano, i rifugiati avevano disarmato i poliziotti e preso in ostaggio un ingegnere. Queste favole spaventose, a cui solo un bambino di sei anni potrebbe, forse, credere, la dicono lunga sullo stato mentale del governo reazionario ungherese.
Grazie al lavoro sporco svolto da Orban, Angela Merkel e il governo tedesco potevano permettersi, almeno all’inizio, di mandare messaggi di benvenuto ai rifugiati in pasto all’opinionr pubblica, e di pretendere allo stesso tempo che quelle persone fossero fermate ai confini con ogni mezzo a disposizione. Solo un ingenuo poteva credere che sia l’Ungheria che la Bulgaria avessero cominciato a costruire barriere di filo spinato ai propri confini, in modo indipendente l’uno dall’altro, semplicemente per volontà dei loro leader. Anche un illusione del genere sarebbe comunque stata destinata a crollare presto visto che, una volta che la prima linea di difesa della “Fortezza Europa” era stata sfondata dalla combinazione della forza e determinazione delle masse dei rifugiati e di un crescente movimento di solidarietà di cittadini europei intenzionati ad aiutarli ad entrare, i paesi fondatori della UE hanno cominciato ad agire in modo molto simile a quello delle “giovani democrazie” dell’est, facendo carta straccia di Schengen, stabilendo nuove regole alle frontiere, ognuna per conto proprio.
La risposta popolare
Quello che la maggior parte degli stati europei non aveva messo in conto è stat la straordinaria risposta spontanea alla “crisi dei rifugiati” da parte di masse di lavoratori comuni in tutto il continente. Nonostante siano state travolte dalla più becera propaganda razzista e anti-islamica per decenni, i popoli europei si sono espressi in una straordinaria manifestazione di solidarietà. A migliaia hanno donato vestiti, e portato cibo e medicine, e a dozzine si sono diretti verso i campi profughi per dare una mano come volontari. Quando sono arrivato, mi aspettavo di incontrare volontari per lo più serbi, presto mi sono dovuto ricredere. La maggior parte dei volontari serbi erano rimasti a Belgrado, dove c’era già un’ampia rete di solidarietà, che raccoglieva donazioni ogni giorno, insieme alle nuove richiesta di volontariato. Anche alcune compagnie di taxi si sono offerte di aiutare, garantendo viaggi gratuiti a chi portava aiuti ai rifugiati. Uno dei centri più importanti di questa rete belgradese era sicuramente Miksaliste, un locale di musica alternativa nel quartiere di Savamala, una parte di Belgrado occupata da diversi collettivi di artisti e ONG, sulla riva meridionale del fiume Sava.
Quanto ad Horgos, qui c’erano volontari Cechi, americani, svedesi, britannici e di molti altri paesi, organizzati per arrivare qui e fare quanto era in loro potere per rendere la vita dei rifugiati più sopportabile. Durante la notte, quasi senza dormire, i volontari, delle ong o meno, lottavano per assicurarsi che la maggioranza dei rifugiati avesse tende, lenzuola e sacchi a pelo, e che più persone possibile avessero almeno un piatto caldo al giorno. In mancanza di una struttura ufficiale, abbiamo occupato un ristorante abbandonato lungo il confine, dove lavoravamo e dormivamo. L’unica differenza tra la nostra sistemazione e quella dei rifugiati era che noi dormivamo, quando dormivamo, in un posto chiuso. Ma a parte questo, mangiavamo lo stesso cibo, dormivamo negli stessi sacchi a pelo, e lottavamo per lo stesso fine.
Tra le cose più ambite nel campo c’erano internet e le informazioni. Una volta che si è sparsa la voce che ero in grado di fornire una connessione gratuita tramite il mio cellulare, ho dovuto abbandonare in fretta l’idea di poterlo ricaricare oltre il 20%. Whatsapp, Viber, e Facebook erano tutte grandi fonti di tranquillità, essendo solo attraverso questi mezzi che i rifugiati potevano sia avere informazioni sui loro cari che avevano lasciato nei paesi d’origine, sia comunicare a questi che erano vivi e vegeti. Internet era anche la maggiore fonte di notizie sulle rotte dell’immigrazione, con le informazioni su dove andare e cosa aspettarsi che cambiavano praticamente ogni 12 ore, anche se noi cercavamo di distinguere tra i fatti e le voci.
Inoltre, una grande fonte personale di forza e determinazione è stata per me la risposta degli amici e dei compagni, che pur non potendo partecipare di persona, per motivi di lavoro o di studio, non hanno mai smesso di spargere la voce su quanto accadeva, contribuendo così, ognuno a modo suo, a creare quel sentimento di solidarietà tra le masse serbe, così determinato e risoluto da resistere a ogni isterica propaganda razzista o stramba teoria cospirativa.
“Grazie, Serbia!”
A prima vista, la posizione del governo serbo rispetto ai rifugiati può sembrare peculiare e sorprendentemente progressista. Mentre gli altri paesi confinanti esprimevano da subito diversi gradi di xenofobia ufficiale, guidati dalla Macedonia e dall’Ungheria, la Serbia si proponeva come un posto sicuro per i rifugiati, un paradiso dove i loro diritti venivano rispettati, dove anche la polizia era stranamente accogliente e rispettosa, e dove il governo e i vari mass media spiegavano che la persone che passavano attraverso il nostro paese non erano una minaccia, e dovevano essere accolte e aiutate il più possibile. Spesso veniva fatto un parallelo tra i rifugiati proveniente dal Medio Oriente e dall’Africa e i nostri rifugiati della guerra civile jugoslava, colpendo nel segno e toccando un nervo scoperto, riuscendo a convincere la maggioranza della popolazione ad offrire assistenza. Per questo “Thank you, Serbia!” (Grazie, Serbia!) era uno degli slogan più ripetuti dai rifugiati, urlato così spesso che anche i bambini lo avevano imparato.
Qual era però la ragione principale di questo comportamento? Com’è possibile che Aleksander Vucic (il primo ministro serbo, ndt), uno spietato sciovinista ai tempi della guerra, ora vestito con panni dai colori più attenutati ma pur sempre patriottici,abbia dato istruzioni alle istituzioni serbe di trattare i rifugiati in modo umano e dignitoso? La risposta è piuttosto ovvia, come spesso accade con le istituzioni borghesi: profitto a breve termine, in questo caso politico. Tentando di dare alla Serbia la reputazione di un paese accogliente e inclusivo, Vucic sperava di guadagnare qualche punto, dal punto di vista politico, sia con l’elettorato che con la cosiddetta comunità internazionale. Punti che potrà utilizzare in seguito, in particolare nei conflitti regionali, come nella questione del Kosovo o nella disputa mai risolta con la Croazia sul confine, o sulla questione del modo in cui vengono trattate in Serbia le minoranze albanesi e gitana. Ogni volta che un politico borghese sorride, sta in realtà solo allenando le mascelle per il prossimo morso.
L’ipocrisia del governo serbo era solo vagamente nascosta: ha offerto un sostegno minimo, dei rifornimenti minimi, e il tutto era comunque sull’orlo del collasso ogni giorno, nonostante lo sforzo davvero eroico delle poche istituzioni ufficiali che erano state mandate ad aiutare sul campo, soprattuto i lavoratori del sistema sanitario, che sono riusciti ad evitare che si diffondessero serie epidemie nonostante la condizioni igieniche impossibili. Non solo queste persone disinteressate hanno fatto un lavoro incredibile ma lo hanno fatto in modo davvero esemplare, con calma e rispetto, mostrando un atteggiamento davvero professionale. Ma a parte loro, il compito di provvedere alla maggior parte delle necessità era in capo ai municipi, a diversi gruppi auto-organizzati, ong e singoli individui. Il più grande merito del governo serbo è stato quello di non ostacolare questo enorme sforzo diffuso. Devo ammettere che sono stato tanto orgoglioso della solidarietà espressa dalle persone comuni, quanto sono stato imbarazzato dal poco che ha fatto il nostro governo. Quando i rifugiati mi dicevano “Grazie mille! La Serbia è così buona con noi!”, io non potevo fare a meno di pensare: quanto può essere davvero buono un governo che costruisce la sua immagine di “grande paese umanitario” solo sulla mancanza di abusi e violenze? Quanto può essere accogliente per i rifugiati un paese che continua a farli dormire nei campi, al freddo e circondati dalla sporcizia?
Questa sottile patina umanitaria è stata comunque presto spazzata via una volta aperti i nuovi corridoi attraverso la Slovenia e la Croazia, e una volta che il regime dell’ungherese Orban ha capitolato e ha deciso di permettere al resto dei rifugiati che provenivano da questi paesi di transitare verso l’Austria. Gil accordi sono stati fatti in pochissimo tempo, mostrando quanta fretta avesse il governo di liberarsi di questi ospiti verso cui, evidentemente solo per finta, aveva dimostrato calore e accoglienza. Negli ultimi giorni, la polizia ha cercato di mandare via il più in fretta possibile i volontari rimasti, mentre allo stesso tempo spingeva i rifugiati sui bus. La presenza dei media era una bella seccatura per loro, perchè li obbligava a minimizzare l’uso della forza, a non avere alcun contatto fisico con i rifugiati. All’improvviso (e ancora, in modo facilmente prevedibile), poliziotti poco prima rispettosi e cooperativi si sono trasformati in furiosi e minacciosi cani da guardia del regime, ringhiando e abbaiando a chiunque gli capitasse a tiro. E dal momento che io ero una delle persone che più si era avvicinata ai rifugiati e che li aveva aiutati con dei consigli, sono presto diventato uno dei bersagli principali dell’intimidazione. Hanno cominciato prendendomi da parte chiedendomi i documenti. Cosa che avrei fatto molto volentieri, una volta che mi avessero mostrato i loro. A questa richiesta, uno di loro ha risposto in modo volgare, muovendomi false accuse, per cui io avrei estorto soldi ai rifugiati, e infine, dicendomi che i suoi “scagnozzi” nella mia città si sarebbero presi cura di me. Al momento della mia partenza, hanno cercato di spaventarmi dicendo che sarei potuto essere arrestato per aver oltrepassato la frontiera, e che avrei fatto meglio a mettere un po’ di distanza tra me e Horgos. Ho risposto di non aver oltrepassato un bel niente, dal momento che i loro superiori avevano dato il permesso ai volontari di stare li, e che comunque io non me ne sarei andato prima di aver salutato i miei amici tra i rifugiati. Mi hanno lasciato stare, dopo questo, almeno per il momento.
Avvoltoi
I governanti però non sono gli unici a dimostrare una falsa solidarietà ai migranti solo per difendere il proprio piccolo interesse. Purtroppo, le disgrazie umanitarie sono state spesso come magneti che attirano ogni tipo di parassita. A Horgos ho avuto il dispiacere di incontrare almeno tre tipi di questi parassiti. Il primo era rappresentato sicuramente dai giornalisti, per lo più indifferenti e disinteressati alle difficoltà dei rifugiati (con poche onorevoli eccezioni). Alcuni, specialmente quelli ungheresi, erano apertamente ostili e caratterizzati da un atteggiamento di superiorità. La loro missione era chiaramente quella di diffamare, non di testimoniare. E a parte la loro mancanza di solidarietà, hanno dimostrato anche un atteggiamento da lupi, pronti a sbranarsi tra di loro e con i volontari, tipico degli yuppie della classe media benestante.
Un altro tipo di vili personaggi erano un gruppo di registi slovacchi, che avevano avvicinato i volontari dicendo di voler fare un documentario, in cui, secondo la loro idea, i rifugiati “camminavano per una ventina di chilometri su un’autostrada” mentre questi li avrebbero intervistati per farsi raccontare le loro storie. Quando gli ho fatto notare che i rifugiati qui di solito si spostano con dei bus, loro hanno risposto che sarebbe stato più d’effetto riprenderli mentre vanno a piedi, e che così il documentario sarebbe stato di aiuto per “risvegliare le coscienze”. A loro non interessavano le vere storie dei campi, sulla vita quotidiana dei rifugiati, con cui si potrebbero riempire intere biblioteche di libri e film. Gente del genere sono l’esempio perfetto della natura perversa e sfruttatrice dell’arte sotto il capitalismo – far camminare centinaia se non migliaia di persone esauste e sfinite per chilometri per farsi un nome, sembrava loro perfettamente ragionevole; si erano anche convinti che sarebbe stato di aiuto.
Il terzo tipo di parassita era, ovviamente, l’immancabile missionario cristiano. Per loro le traversie terribili che vivono i rifugiati non son che un’altra “ottima occasione per far conoscere il Vangelo”. Mai a corto di fondi, sono sempre molto zelanti a mandare non solo aiuti in termini di materiale e viveri ma anche, insieme ai loro preti, copie tradotte in farsi e in arabo del nuovo testamento, nella speranza che la povertà e l’indigenza avrebbe fatto convertire qualche musulmano, o druso, cattolico od ortodosso, alla loro chiesa, garantendosi per il futuro donazioni o nuovi volontari. I disastri delle nazioni sono sempre opportunità per le chiese.
Manifestazioni al confine
A dispetto di tutti quelli che vedono i rifugiati come meri oggetti da sfruttare, o, nel migliore dei casi, di cui prendersi cura in modo caritatevole, un buon numero di rifugiati ha deciso di avere un ruolo attivo e di lottare per i propri diritti, organizzando manifestazioni.
All’inizio, il 16 settembre, i rifugiati si sono scontrati con la polizia ungherese e sono anche riusciti a forzare la barriera di filo spinato. Ma questa tattica si è rivelata troppo costosa e pericolosa, finendo per fare molti feriti e facendone arrestare molti. Nei giorni successivi, i rifugiati hanno deciso di avere un approccio più tranquillo, guidati da uno di loro, un uomo molto razionale ed intelligente proveniente dalla Siria. Così, hanno deciso di organizzare un sit-in, con un gruppo di loro che formava una barriera umana proprio di fronte alla barriere del confine ungherese. Tutti hanno concordato di non parlare con giornalisti in quel momento. Una decisione a dir poco geniale, che ha costretto i giornalisti a pregarli per avere un intervista. Gli slogan che, in un inglese impreciso, avevano scritto a mano su pezzi di cartone, rivendicavano pace, diritti umani e passaggi sicuri.
Quando li ho visti organizzare queste proteste, ho subito chiesto di poter stare insieme alla catena umana, richiesta che hanno subito accettato, felici che qualcuno del luogo volesse unirsi a loro. Mentre ero li con loro tenevo alzata la bandiera della sezione jugoslava della TMI, Crveni (Rossa). Ho spiegato ai rifugiati che tipo di bandiera fosse e, anche se molti di loro non sapevano molto del comunismo, l’hanno subito fatta loro, aiutandomi a portarla e facendola diventare un elemento integrante della protesta, così come lo ero diventato io. Considerando la mia volontà di stare con loro e la mia dimostrazione di solidarietà (e, bisogna dire, ero l’unico volontario che lo faceva), e visto che parlavo inglese, i manifestanti hanno deciso di eleggermi loro portavoce, per parlare ai mass media una volta finita la fase iniziale di silenzio. Il mio comportamento li aveva convinti che non ero andato la solo per fare delle foto e poi andarmene, ma che ero la davvero per fare tutto quello che potevo per aiutare. Visto che non sapevano ancora il mio nome, mi chiamavano solo “il serbo”.
Com’era facile prevedere, la risposta dei media inizialmente è stata infantile. Un giornalista inglese della Routers, particolarmente borioso e non molto sveglio, mi ha avvicinato, prima che fosse dato l’ordine di non parlare, mentre i rifugiati si stavano raccogliendo, e mi ha chiesto, con tono di rimprovero e senza vergogna: ”Sei tu che organizzi questa gente?”. È incredibile la quantità di boria e di razzismo contenuta in questa frase. Aveva visto che ero l’unico europeo nei dintorni, e naturalmente ha pensato che i rifugiati avessero bisogno di me per organizzarsi! È proprio la separazione dalla realtà che emerge da episodi come questo che fa si che agli occhi delle masse i mass media appaiano sempre di più come un mucchio di pagliacci. Un altro giornalista inglese ha provato a farmi della domande una volta che avevamo già deciso di non parlare. Per dire che non potevo parlare, mi sono messo la mano davanti alla bocca. Allora lei ha cercato di fare leva sulla mia vanità dicendo “Ah, quindi sei sordo e muto”. Ho fatto si con la testa mentre lei se ne andava.
Una volta che il periodo di silenzio era finito, i leader della protesta hanno dato indicazione ai giornalisti di parlare con me. Ho sempre risposto in inglese, anche quando ero intervistato dalle televisioni serbe e ungheresi, perchè era importante che le persone che mi avevano dato il mandato di parlare per loro capissero ogni singola parola che dicevo.
Ho cercato di parlare con i giornalisti in modo da riflettere l’orgoglio e la dignità che avevano i rifugiati. Quindi, ho evitato di rispondere a domande stupide come “Quali sono le vostre rivendicazioni?” e mi sono limitato a dire che le rivendicazioni dei rifugiati sono sempre le stesse dall’inizio della crisi, non sono cambiate, e sono ampiamente note a tutti e non era necessario alcun chiarimento a chiunque avesse un minimo di decenza.
Alcuni giornalisti hanno cercato di deviare il discorso facendo domande sulla bandiera rossa e me invece che sui rifugiati. Questo è il motivo per cui mi sono rifiutato di dire alcunché su di me o su Crveni finchè non fosse stata fatta un intervista adeguata sulla questione della protesta dei rifugiati.
Naturalmente, la protesta è andata scemando via via che le persone prendevano gli autobus verso la Croazia, nonostante il prezzo da rapina. Ad ogni modo, la protesta è continuata fino all’ultimo giorno, e alla fine, la barriera di filo spinato della Fortezza Europa ha fallito nel tentativo di fermare l’arrivo dei rifugiati. L’Ungheria ha prima dovuto accettare di far entrare le famiglie che avevano con sé dei bambini, e alla fine non ha potuto fare altro che capitolare e accettare di aprire il corridoio dalla Croazia e dalla Slovenia. Mi piace pensare che quello che abbiamo fatto a Horgos abbia avuto una parte in questo, per quanto piccola.
Il ruolo dei marxisti
Ora il valico di Horgos può essere anche stato abbandonato, ma la questione dei rifugiati è lungi dall’essere conclusa. Le persone che hanno lottato per raggiungere i paesi più ricchi della UE ora si troveranno di fronte altre sfide, come l’integrazione e il lavoro. Infatti, queste due cose non possono essere affrontate separatamente.
La classe operaia europea, come il resto del mondo, a di fronte a sè eventi di portata epocale. Il ruolo che i lavoratori migranti avranno in questi eventi sarà tutt’altro che trascurabile, e sarà determinato in gran parte, se non del tutto, dall’atteggiamento che il movimento operaio organizzato avrà nei confronti loro e dei loro problemi. Quello che la base del movimento operaio deve capire è che non è possibile risolvere alcun tipo di problema tramite qualsivoglia richiamo xenofobo e reazionario della burocrazia sindacale per limitare o prevenire l’immigrazione. Più questi personaggi seguiranno quella strada, più cercheranno di presentarsi come difensori di un qualche immaginario “interesse nazionale”, più debole diventerà la posizione della classe operaia. I capitalisti lucrano sulla divisione della classe operaia.
Il movimento operaio si formato in origine intorno all’idea che i lavoratori possono ottenere di più lottando uniti contro i padroni invece che competere individualmente gli uni contro gli altri. E’ nell’unità il potere della classe operaia. Non lo si trova nelle mezze vie, non lo si trova nella lotta di gruppi selezionati. Questa semplice verità è la base reale dell’approccio che il movimento operaio organizzato deve avere verso i lavoratori immigrati. L’unico modo per evitare che la borghesia li utilizzi per peggiorare le condizioni di lavoro e i salari è quello di integrarli pienamente nel movimento operaio organizzato il più velocemente possibile. La maggior parte dei rifugiati non accetterà di lavorare per più ore e per un salario più basso se gli sarà offerta la guida e la protezione dei sindacati, se saranno informati dei loro diritti sul lavoro. Inoltre, la questione del lavoro per i rifugiati può essere risolta solo come parte di una strategia generale per ottenere la piena occupazione.
D’altra parte, il modo in cui una nazione tratta i rifugiati è sempre solo un’anticipazione del modo in cui tratterà i senzatetto “nativi”, i suoi disoccupati e, infine, i suoi lavoratori impoveriti e indeboliti dalla crisi. Anche per questo, è essenziale che il movimento operaio e la sinistra abbandonino ogni illusione in qualsivoglia soluzione particolare e abbraccino i lavoratori immigrati come propri alleati naturali, o ancora meglio, come propri nuovi colleghi e compagni. La trappola più pericolosa in cui la sinistra può cadere in questa situazione è quella dell’opportunismo e della falsa idea che in qualche modo può rafforzarsi nei confronti dei lavoratori dei rispettivi paesi con un qualche cedimento alla xenofobia, non importa quanto annacquata. Ogni tentativo del genere non farà che creare conflitto, allontanando i lavoratori immigrati e spingendoli sempre più nel campo della borghesia, proprio come i gruppi dirigenti delle organizzazioni operaie, che gradualmente si arrenderanno a ogni tipo di legge antioperaia nel nome della “pace” e della salvaguardia della sicurezza nazionale mano a mano che il conflitto tra i lavoratori autoctoni e quelli immigrati andrà intensificandosi. Gli unici vincitori in questo scenario sarebbero i padroni.
Durante le proteste al valico di Horgoss, ho discusso con i manifestanti e abbiamo concordato che la nostra linea doveva essere quella di collegare i problemi dei rifugiati con quelli che già affliggono le popolazioni europee. Gli stessi rifugiati mi hanno chiesto di scandire slogan e di cantare canzoni in ungherese, per indirizzarli al popolo ungherese ed europeo, per chiedere solidarietà e dimostrare che i rifugiati non sono una minaccia. Per questa ragione, ho cantato alcune canzoni antifasciste ungheresi (spiegandole loro prima), mentre loro tenevano il ritmo battendo le mani. Dopo abbiamo concordato di urlare “Free, free Hungary!” (Libertà, libertà in Ungheria), per dire che i muri non sono solo costruiti per tenere fuori i rifugiati ma anche per sostenere il regime repressivo di Orbàn. Abbiamo anche deciso di cantare la vecchia canzone comunista jugoslava “Bratsvo, jedinstvo!” (Fratellanza, unità!), sia in serbo-croato che in inglese, per ricordare alla classe operaia europea le sue tradizioni internazionaliste.
I rifugiati, molti dei quali hanno un’estrazione conservatrice e religiosa, erano molto aperti verso le idee del comunismo, non solo perchè suonavano sensate nella loro condizione, ma anche perché le avevo mostrate loro nella pratica ancora prima che nella teoria, dopo avergli spiegato cosa significassero per la nostra organizzazione e cosa significassero per loro e per la loro posizione. E anche persone che all’inizio avevano avuto reazioni molto negative al solo menzionare Karl Marx, che per alcuni era un “senzadio”, alla fine ci tenevano ad ascoltarmi, perchè spiegavo come fossero proprio le idee del marxismo a motivare persone come me a stare li con loro in solidarietà e ad unirmi alla loro causa. Più ci mettiamo alla prova nella pratica, più i nostri fratelli del Medio Oriente e dell’Africa saranno aperti alle nostre idee e alle tradizione del movimento operaio.
Quindi, il movimento operaio deve prendere una posizione chiara e senza compromessi contro ogni forma di restrizione alla libertà di movimento, e difendere le politiche di apertura delle frontiere e che garantiscano il diritto di ogni rifugiato a vivere nel paese in cui sceglie di vivere, con accesso a un programma statale di piena integrazione e a un lavoro dignitoso. L’internazionalismo non è una questione di sentimenti, ma di comprensione della realtà politica, il miglior modo di difendere gli interessi dei lavoratori, che possono essere tutelati solo se sono difesi per la totalità della classe lavoratrice.
23 settembre 2015