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6 Novembre 2017di Francesco Merli
Da anni nel Mediterraneo è in corso una specie di guerra silenziosa e unilaterale. Non è una guerra in senso tradizionale, perché non ci sono due eserciti a combattersi, ma una guerra del “mondo civile”, armato fino ai denti contro centinaia di migliaia di persone disarmate. Il loro unico crimine è il tentativo disperato di fuggire dalla povertà, da condizioni di vita insopportabili e dalla distruzione dei propri mezzi di sussistenza nei paesi d’origine e seguire il sogno di una vita migliore per se stessi e per le loro famiglie in Europa.
Negli ultimi 15 anni 30mila uomini, donne e bambini hanno perso la vita annegando nel tentativo di raggiungere le coste europee. E ogni anno il numero delle vittime è in aumento. Tuttavia molti di più riescono a entrare in Europa attraverso le rotte che portano sulle coste della Grecia, dell’Italia o della Spagna. Altri, invece, vengono fermati ancora prima di poter iniziare il loro viaggio oppure vengono catturati in mare prima di poter raggiungere le acque internazionali; sono cosi riportati indietro e imprigionati in campi di concentramento – in condizioni disumane – in Turchia, Libia o Marocco. Questi sfortunati aspettano per mesi che succeda qualcosa, mentre in molti muoiono di privazioni e malattie facilmente curabili.
Molti altri ancora scompaiono sulla strada attraverso il deserto, o sono schiavizzati da trafficanti di esseri umani in Libia, che li catturano per farli lavorare in cambio di un passaggio sui barconi. Le donne sono spesso costrette alla prostituzione e uomini, donne e bambini vengono picchiati, brutalizzati e uccisi. Tutto ciò avviene con poco o nessun controllo da parte della cosiddetta comunità internazionale, e cioè da parte di esercito, polizia, guardie di confine, guardia costiera e, naturalmente, criminali ‘ufficiali’ che beneficiano del traffico di esseri umani.
In realtà nessuno sa veramente quante persone stanno perdendo la loro vita o sono scomparse perché nessuno è in grado di verificare quello che sta succedendo in grosse parti dei territori controllati da bande criminali e signori della guerra.
Mentre questa tragedia si consuma giorno e notte, i governi europei stanno facendo il solito gioco cinico di rimbalzarsi le responsabilità l’un l’altro. Hanno sparso lacrime di coccodrillo su questa immensa tragedia, presentandola come se fosse un disastro naturale con cui non hanno niente a che fare. Come se le ingerenze dell’imperialismo o il suo intervento diretto non avessero nulla a che vedere con la guerra siriana, la guerra saudita contro lo Yemen, nella distruzione dello stato libico o nei numerosi conflitti che affliggono i popoli dell’Africa sub-sahariana.
Le morti nel Mar Mediterraneo hanno raggiunto il loro picco storico nel corso degli ultimi 12 mesi. Le ultime cifre pubblicate a settembre dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati stimano che nell’ultimo anno siano annegate 4.337 persone mentre tentavano di raggiungere l’Europa, soprattutto dalle coste libiche. Si tratta di un aumento dalla già tragica cifra dei 12 mesi precedenti (4.185). Tuttavia, dobbiamo tener presente che questi dati rappresentano solo quello di cui si è venuti a conoscenza; il numero reale di morti molto probabilmente è assai più alto.
Non è difficile intuire la causa di questa ondata di immigrazione. È il risultato dell’instabilità generale in cui sono stati gettati uno dopo l’altro i paesi del Medio Oriente, del NordAfrica e dell’Africa sub-sahariana. In alcuni casi, l’intervento militare diretto delle potenze imperialiste europee e occidentali, con i loro alleati e agenti, ha fortemente contribuito a precipitare questi popoli nel caos.
Ciò non ha solo provocato un crescente afflusso di persone che cercano di fuggire da condizioni disumane, ma ha anche fornito il terreno di coltura per le organizzazioni criminali e i signori della guerra locali, che stanno traendo profitto dalla tratta di esseri umani.
Il saccheggio dell’Africa
Lo sfruttamento imperialista delle risorse naturali africane (sia sotto la diretta dominazione coloniale sia con i regimi post coloniali tuttora al potere) ha sottratto risorse e ricavi dal continente e minato i mezzi di sostentamento di milioni di persone. Regole commerciali inique hanno destabilizzato le economie più deboli, rovinando l’agricoltura e le piccole aziende locali.
La corruzione endemica delle élite locali – che si prendono la propria fetta del saccheggio – è diventata il mezzo prevalente con cui gli imperialisti assicurano i propri interessi. Una misura della partecipazione delle élite africane al saccheggio imperialista dell’Africa ci viene da uno studio del 2014, in cui si stima che gli africani ricchi abbiano 500 miliardi di dollari nascosti in paradisi fiscali, mentre la maggioranza della popolazione affonda nella povertà.
Questo da solo non sarebbe però sufficiente a spiegare la gravità dei danni provocati dalla dominazione imperialista. La concorrenza fra potenze imperialiste rivali per l’influenza, le risorse e i mercati produce innumerevoli colpi di stato, conflitti e guerre civili, con ripercussioni che vanno anche oltre i confini del continente.
Ma non è solo la guerra ciò da cui fuggono milioni di persone: è la povertà e il deterioramento generale delle condizioni di vita. Sono solo una farsa i tentativi ipocriti dei governi europei di giustificare le attuali politiche repressive sull’immigrazione introducendo una distinzione artificiale tra i “legittimi” profughi politici (in fuga dalla guerra e da regimi oppressivi) e i presunti migranti economici “illegittimi”.
“Fortezza” Europa
Il bilancio quotidiano dei morti in mare fa a malapena notizia, tranne quando la tragedia diventa semplicemente troppo grande per essere completamente ignorata, come nel maggio scorso, quando in due incidenti separati nella stessa notte, si sono rovesciate due barche e sono annegate 210 persone. Allo stesso modo, l’11 ottobre 2016 le chiamate di soccorso provenienti da una nave che stava affondando con 260 persone a bordo sono state intenzionalmente trascurate dalla guardia costiera italiana, la cui nave di pattuglia Libra era a poche miglia di distanza, in attesa di un ordine di intervento. Il motivo del ritardo era una controversia con le autorità di Malta su chi doveva intervenire, con il risultato che dozzine di rifugiati sono annegati. Le registrazioni delle chiamate di soccorso, che rivelano l’atteggiamento di disinteresse delle autorità italiane, sono state poi scoperte e divulgate dall’Espresso, causando un forte scandalo.
Cosa è successo dopo la crisi dei rifugiati del 2015, quando centinaia di migliaia di persone decise a raggiungere l’Europa attraverso la Turchia e la Grecia hanno attraversato i Balcani per raggiungere l’Ungheria, l’Austria e, infine, la Germania? La promessa di Angela Merkel di accogliere i profughi siriani è stata subito dimenticata. Pochi mesi dopo, nel marzo 2016, l’UE ha firmato un accordo con la Turchia, in base al quale tutti i rifugiati (compresi i richiedenti asilo) che raggiungevano il suolo greco, venivano automaticamente rimandati indietro in Turchia.
Le organizzazioni per i diritti umani hanno inutilmente denunciato l’accordo per le violazioni sia della legge europea che della Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati. Ciò dimostra che la “legalità” internazionale è piegata a soddisfare gli interessi dei potenti, indipendentemente dai costi umani. In cambio, l’Unione Europea ha promesso 6 miliardi di euro al governo turco, per aiutarlo a sostenere il costo di 2,7 milioni di profughi siriani che in quel momento si supponeva fossero in Turchia.
Ma anche chiudendo ermeticamente la rotta attraverso l’Egeo, i governi europei non hanno scoraggiato l’immigrazione. Ciò che hanno ottenuto è di creare rotte più difficili e pericolose – come quella che attraversa il deserto in Libia o in Marocco: uniche opzioni rimaste.
Non esiste un modo in cui l’immigrazione possa essere fermata. Considerando le cifre ufficiali1 fornite dall’ONU che stimano il numero di rifugiati a livello mondiale in oltre 65 milioni, solo una percentuale minima di questi tenta di arrivare in Europa. Della popolazione globale dei rifugiati, 5,3 milioni di siriani sono in Libano, Giordania, Turchia, Iraq ed Egitto. In Turchia ce ne sono più di tre milioni, in Libano oltre un milione.
I rifugiati cercano di restare vicini alle loro case, sperando di tornarvi prima o poi. Nel frattempo, il loro status nei paesi che li ospita è incerto. Non gli è permesso lavorare legalmente e la maggior parte di loro non ha reddito, ha poco o nessun accesso al sistema sanitario locale e quasi nessun accesso all’istruzione per i propri figli. Gli vengono dati pochi spiccioli, a parte contributi occasionali provenienti da aiuti internazionali, e vivono consumando i loro risparmi.
Dopo sette anni di guerra in Siria, sempre più rifugiati stanno abbandonando l’idea di poter tornare e in numero crescente cercano di andare in Europa. Un processo simile si verifica ovunque ci siano grandi popolazioni di sfollati per guerre, carestie o altre calamità.
Scene con dozzine o centinaia di imbarcazioni di ogni tipo strapiene di uomini, donne e bambini affamati, impauriti, disidratati che si avventurano dalla costa libica nell’oscurità del mare aperto, simboleggiano il calvario dei migranti. Migliaia di persone vengono raccolte da queste imbarcazioni dalla guardia costiera italiana o greca o dalle numerose ONG che hanno colmato il vuoto lasciato dalla decisione delle autorità europee di ritirarsi dalle missioni di ricerca e di salvataggio in acque internazionali. Questa decisione ha portato immediatamente a un forte aumento del numero di morti in mare.
Amnesty International ha denunciato le conseguenze mortali di queste politiche in un rapporto pubblicato lo scorso luglio2. Cedendo gran parte della responsabilità nelle attività di ricerca e salvataggio alle ONG e aumentando la cooperazione con la guardia costiera libica, i governi europei stanno incrementando volontariamente le morti in mare e chiudendo gli occhi di fronte agli abusi cui gli immigrati rimandati in Libia sono sottoposti, compresi stupri e torture.
“Gli stati europei hanno progressivamente voltato le spalle a una strategia di ricerca e salvataggio, che stava riducendo la mortalità in mare, a favore di una che sta invece provocando migliaia di annegamenti“, ha osservato John Dalhuisen, direttore europeo di Amnesty International.
Al contrario i governi della UE hanno spostato la loro attenzione sulla “regolazione” dei flussi migratori e sulla “distruzione del sistema d’affari dei contrabbandieri” – eufemismi ipocriti che significano una repressione più dura, controlli di frontiera più asfissianti e un flusso di soldi e risorse alle autorità turche, libiche e marocchine per bloccare gli immigrati prima che osino entrare in Europa. Questa strategia fallimentare ha portato ad un aumento di tre volte della mortalità (dallo 0,89% nella seconda metà del 2015 al 2,7% nel 2017).
Libia – uno Stato fallito
Ciò che sta succedendo nel Mediterraneo è l’illustrazione evidente di quanto sia malato il capitalismo ed è solo la punta dell’iceberg. Migliaia di persone muoiono in viaggio anche prima di raggiungere la costa della Turchia o dell’Africa settentrionale. Quelli salvati in mare dalla guardia costiera libica nelle acque territoriali libiche vengono riportati in Libia. Sono considerati immigrati clandestini e imprigionati in baracche di lamiera, esposti al caldo, in condizioni disumane, senza assistenza medica, privi di acqua e cibo, brutalizzati da guardie che nel migliore dei casi sono impreparate ad affrontare questa situazione, e semplicemente dimenticati.
Secondo un resoconto della giornalista Francesca Mannocchi, nel febbraio 2017 il centro di detenzione ufficiale Garian a Tripoli ospitava 1.400 persone (250 bambini) distribuite in 15 capannoni. La giornalista racconta che non c’era nemmeno abbastanza spazio sul pavimento perché le persone potessero sdraiarsi e dormire, le condizioni sanitarie erano pessime e c’era scarsità di acqua e cibo – e queste erano le condizioni di un centro di detenzione ufficiale.
La Gran Bretagna, la Francia e gli USA hanno sostenuto ipocritamente che la loro campagna di bombardamento nel 2011 contro il regime di Gheddafi fosse dettata da motivi umanitari. Ma dal momento che il regime è crollato, la Libia è stata gettata nel caos, con le milizie ribelli che si schierano con i vari governi o operano da sole ritagliandosi feudi sotto il loro controllo diretto. Il crollo del controllo statale e del pattugliamento dei confini hanno reso la Libia la base ideale per ogni genere di traffico. Bloccando la rotta attraverso la Turchia e la Grecia, la rotta libica è diventata l’unica opzione possibile per i migranti africani. I signori della guerra e le milizie locali si affidano sempre più al traffico di migranti come fonte di reddito.
Si stima che tra 200 e i 300 mila immigrati africani siano attualmente presenti nel territorio libico. Sono sottoposti a ogni abuso possibile, sia che lavorino in Libia, tenuti in condizioni di semi-schiavitù, sia che restino in attesa di un possibile passaggio verso l’Europa.
I gruppi armati spesso imprigionano i migranti, fingendo di far rispettare la legge, ma in realtà solo per estorcere denaro o lavoro coatto in cambio di un passaggio in mare. Gestiscono i loro centri di detenzione senza rispondere alle cosiddette autorità centrali. Si stima che il 50% del PIL della costa libica sia collegato alle operazioni di traffico di migranti.
L’allarme immigrazione
Quelli che riescono a passare e sono intercettati in acque internazionali vengono mandati in Europa, nei cosiddetti campi profughi (prigioni a tutti gli effetti, tranne che per il nome), soprattutto in Italia, in quanto le altre rotte di migrazione sono state chiuse o rese più difficili negli ultimi anni. Rimangono lì, aspettando che le loro richieste siano esaminate o di essere espulsi. Molti cercano di andare verso il nord più ricco e raggiungere i parenti in Germania, Francia, Austria, Svezia o altri paesi dell’Europa settentrionale, ma sono bloccati al confine italiano dalla polizia di frontiera austriaca o francese e respinti.
L’afflusso di rifugiati non può essere fermato. Ogni singola misura adottata per bloccarlo (o “regolarlo”) ha portato a un aumento del costo in vite umane, rotte più pericolose e costose e un rafforzamento delle organizzazioni di trafficanti di esseri umani.
Mentre versano false lacrime sulla tragedia umana degli immigrati, le classi dominanti europee stanno andando verso una posizione più repressiva sull’immigrazione, promuovendo una campagna di allarmismo sui media allo scopo di promuovere ulteriori contro-riforme e mobilitare i settori più poveri della società a sostegno di un programma reazionario.
Lo scopo principale di questa campagna è il tentativo di sfruttare lo shock generato dagli attacchi terroristici degli ultimi anni in Europa per costruire una relazione tra il terrorismo fondamentalista islamico e l’immigrazione, come parte di una massiccia propaganda razzista e islamofobicaper la difesa reazionaria dei valori “cristiani” ed “europei”.
Un altro punto d’attacco è che i lavoratori stranieri, indipendentemente dalla loro origine o dalla loro religione, sono accusati dai mass media borghesi per quelli che sono in realtà gli effetti della crisi del capitalismo: l’abbassamento dei salari e il peggioramento delle condizioni di lavoro, l’aumento della disoccupazione e della sotto-occupazione, la precipitazione dello stile di vita e la mancanza di case a prezzi accessibili. “Non c’è abbastanza per tutti” è il mantra, mentre le élite europee capitalistiche diventano sempre più ricche.
I lavoratori immigrati rispondono con la lotta
La ragione di queste calunnie e falsificazioni è sempre la stessa. Ai capitalisti servono gli immigrati, ma gli servono deboli e dunque rendono più difficile l’integrazione dei lavoratori immigrati nel resto della classe lavoratrice e nelle sue organizzazioni; così facendo, espandono l’esercito di riserva dei disoccupati, dei sotto-occupati e dei settori più vulnerabili della società per dividere i lavoratori in una lotta per la sopravvivenza, in una guerra tra poveri.
I lavoratori immigrati, sia quelli legali che – soprattutto – quelli illegali, spesso forniscono la maggior parte della manodopera in settori come l’agricoltura, con salari e condizioni spinte al ribasso a causa delle condizioni di estrema ricattabilità. Ma inevitabilmente questo settore della classe operaia si sta organizzando per lottare, come è stato dimostrato nelle numerose lotte di lavoratori immigrati nell’Italia meridionale negli ultimi anni. La denuncia del tradizionale sistema di caporalato con i braccianti assunti a giornata ha rivelato condizioni terribili anche per gli immigrati legali provenienti da paesi più poveri della UE come Bulgaria o Romania. Questi lavoratori sono spesso soggetti a condizioni di semi-schiavitù e ad abusi, con i loro documenti ritirati e trattenuti dai loro sfruttatori. Normalmente lavorano per 12-14 ore al giorno, in estate sotto il sole cocente, in cambio di 10-15 euro.
Queste condizioni alimentano una crescente combattività da parte dei lavoratori immigrati. Nel gennaio 2010, centinaia di lavoratori stagionali africani impiegati nella raccolta delle arance si sono ribellati contro le minacce costanti della criminalità organizzata, dopo che alcuni di loro erano stati uccisi o feriti a colpi d’arma da fuoco. Hanno risposto lottando e hanno acceso la rivolta nella città di Rosarno, armati di bastoni e pietre, o a mani nude.
Sempre nel 2010, c’è stato uno sciopero dei braccianti a giornata a Castelvolturno. I lavoratori si sono riuniti nei punti di prelievo e hanno incrociato le braccia, richiedendo condizioni migliori e sfidando tutte le minacce. Un simile sciopero si è sviluppato l’anno successivo nel Salento, quando i lavoratori hanno abbandonato i punti di raccolta per molti giorni. A partire dal 2015 circa 50mila dei 160mila braccianti giornalieri hanno conquistato un regolare contratto, ma la lotta è ben lungi dall’essere vinta.
Negli ultimi dieci anni sempre più lavoratori immigrati sono entrati a far parte della classe operaia nelle fabbriche e in altri settori e stanno guadagnando fiducia nella loro capacità di organizzarsi e difendere i propri diritti. Gli scioperi nella logistica e nell’edilizia e in altri settori mostrano la partecipazione di un numero crescente di lavoratori immigrati.
Quando la lotta di classe si radicalizzerà in tutto il continente vedremo l’impatto della lotta dei lavoratori immigrati sulla propria coscienza e sulla coscienza della classe lavoratrice nel suo complesso. Questi proletari acquisiranno fiducia nella loro forza quando si mobiliteranno uniti, sfidando non solo le condizioni in cui sono costretti a vivere, ma le fondamenta del sistema che crea queste condizioni: il capitalismo.
Note:
- 1.http://data.unhcr.org/syrianrefugees/regional.ph
- 2.Una tempesta perfetta: il fallimento delle politiche europee nel Mediterraneo centrale, http://viedifuga.org/wp-content/uploads/2017/08/Una-tempesta-perfetta-AMNESTY-6-7-2017.pdf