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27 Luglio 2022Il dibattito al Senato di mercoledì scorso ha segnato la fine del governo Draghi. Il “governo dei migliori”, intensamente voluto e sostenuto dalla borghesia, godeva fino a due settimane fa di una larghissima maggioranza parlamentare di 554 deputati su 630 e 265 senatori su 321. Si è sbriciolato in quattro ore di discussione lasciandosi alle spalle una frammentazione insolubile.
Mattarella è stato costretto a sciogliere le camere e a convocare le elezioni per il prossimo 25 settembre. È la prima volta nella storia della Repubblica che si tengono elezioni politiche in autunno, cioè quando si scrive la legge di bilancio.
Questo brusco ribaltamento può sembrare incredibile a chi ragiona solo con il pallottoliere dei deputati, ma in realtà esprime un tratto strutturale di questa epoca: l’incapacità della classe dominante di garantirsi strumenti stabili di governo politico in un contesto ormai protratto di crisi del capitalismo. Basti pensare al governo britannico, crollato anch’esso rovinosamente solo poche settimane fa, in quella che era la patria della stabilità istituzionale.
Fuori controllo
A ben guardare il governo Draghi era precisamente un prodotto di questa instabilità: a un parlamento eletto nel 2018 in nome del rifiuto dei partiti dell’establishment, in cui si sono succedute le alleanze più spregiudicate e che era infine caduto nello stallo politico, la borghesia, con un colpo di palazzo gestito da Mattarella, ha imposto il proprio uomo.
Draghi saliva in carica come salvatore della patria e come tale imponeva la regola: “decido io”. Ma per dare questa ferrea stabilità al governo, la conseguenza inevitabile è stata la destabilizzazione dei partiti che si sono dovuti riallineare, soprattutto quindi della Lega e del M5S. Salvini ha visto un’emorragia di voti verso Fratelli d’Italia, a cui è stato sufficiente essere l’unica opposizione visibile e prendersi il monopolio della propaganda reazionaria per diventare primo partito, mentre il M5S andava a brandelli in parlamento e a picco nel voto, fra balbettii e scontri interni.
Con le elezioni sempre più vicine era necessario per questi partiti provare a distinguersi dal governo prendendo a pretesto un punto qualsiasi, come ha fatto il 5 stelle sul dl Aiuti, ma a quel punto Draghi ha ribadito che non era disposto a tollerare veti o ricatti e si è aperto lo scontro.
La mobilitazione della borghesia a sostegno di Draghi è stata, va detto, imponente. Una lista non completa degli appelli in suo sostegno comprende: dichiarazione di Bonomi e appello del Sole24Ore con amministratori delegati, ex ministri, e personaggi di alto rango assortiti; appoggio pubblico dei vescovi e del Vaticano; appello dei 2mila sindaci; appello dei rettori universitari; appello dei professionisti sanitari (più interessante sarebbe stata l’opinione dei lavoratori della sanità..); appello dell’associazionismo (Arci, Acli, Azione cattolica, ecc). A questi si sommano le innumerevoli dichiarazioni internazionali, dal Financial Times al premier spagnolo Sanchez passando per Zelenski. Persino il presidente del Coni si è sentito in dovere di dire che senza Draghi lo sport italiano non poteva andare avanti!
Ma proprio l’ampiezza di questa mobilitazione misura la fragorosità del suo fallimento. Draghi ha brandito questi appelli e ha dato un ultimatum ai partiti dissidenti, che avrebbero dovuto rispondere “agli italiani” delle loro scelte; ma, nonostante tutte le pressioni, Forza Italia e la Lega hanno fatto definitivamente saltare il banco.
Un sistema marcio
Non serve essere marxisti per vedere la natura marcia delle istituzioni che ci governano. È evidente a chiunque che queste persone sono pronte a dire una cosa e l’esatto contrario, a seconda della convenienza del momento. Il dettaglio che la crisi sia esplosa giusto pochi giorni dopo aver raggiunto la durata della legislatura che serviva a garantire le pensioni ai parlamentari è solo l’ultimo pezzo in un mosaico di squallore. In un recente sondaggio il 65,3% degli italiani ha affermato di avere poca o nessuna fiducia verso la classe politica, e solo il 6,3% ha detto di averne molta. Questa sfiducia verso le istituzioni è ampiamente meritata e ormai radicata nella coscienza di massa.
Tuttavia la fiaba dell’integerrimo Draghi che difende il paese nonostante le manovre dei politicanti è buona per Confindustria, il Pd, Calenda e pochi altri. Gli “italiani” innamorati di Draghi di cui si è tanto parlato in questi giorni sono i grandi proprietari di aziende, gli alti funzionari, i professionisti che hanno firmato quegli appelli. Non certo i lavoratori che vedono crollare il proprio potere d’acquisto davanti all’inflazione, o i disoccupati a cui si minaccia di togliere anche il misero reddito di cittadinanza. La crisi del governo Draghi si è manifestata sul terreno parlamentare ma è maturata giorno dopo giorno nella vita sempre più dura di decine di milioni di lavoratori, giovani e pensionati.
E infatti le mobilitazioni di piazza a favore di Draghi sono state degli squallidi ritrovi di qualche decina di amici di Renzi e Calenda in giacca e cravatta, con qualche giovane rampollo di buona famiglia al seguito.
Fuori dal mondo delle veline di regime, il consenso per Draghi e il suo governo era ormai stabilmente sotto il 50%. Dopo mesi di campagna bellicista asfissiante, solo il 16% degli italiani è favorevole all’invio di armi a Kiev e la retorica dei sacrifici in nome della pace è rifiutata a livello di massa.
Di questo governo ricorderemo i miliardi regalati alle grandi aziende, la riapertura dei licenziamenti, i tagli alla sanità, la svendita dell’istruzione alle aziende. Cade un governo nemico dei lavoratori.
Chi oggi discute di costruire un campo centrista “nel nome di Draghi” che vada dal Pd ai fuoriusciti di Forza Italia, oltre a doverne dimostrare la fattibilità, rivendica questa eredità e non altre.
La tempesta si avvicina
La classe dominante guarda all’orizzonte con preoccupazione, e ne ha tutte le ragioni. L’Italia si dirige verso una nuova recessione, con un’inflazione ai massimi storici e i salari al palo. È una ricetta fatta e finita per una esplosione di lotte sindacali e non solo, un processo che già vediamo dispiegarsi in diversi paesi: lo sciopero dei ferrovieri che ha paralizzato la Gran Bretagna è solo uno dei tanti esempi.
La decisione della Bce di alzare i tassi per la prima volta in dieci anni e il fatto che eventuali sostegni al debito italiano (al 152% del Pil) saranno subordinati a vincoli sul bilancio imporrà un progressivo ritorno a misure di austerità. Già Draghi aveva cominciato a tagliare i sussidi e la cosiddetta “spesa improduttiva”, espressione con cui nove volte su dieci intendono le risorse date alle classi più deboli, e ora bisognerà stringere ancora di più i cordoni.
In mezzo a questo campo minato, la classe dominante perde il suo uomo più affidabile.
Con ogni probabilità le prossime elezioni saranno vinte dal centrodestra, con un ruolo decisivo del partito della Meloni. Già nel dibattito sulla fiducia i suoi senatori hanno voluto rassicurare la borghesia: “basta con il racconto dei barbari alle porte, siamo persone responsabili che amministrano già enti locali, e abbiamo anche cambiato linea in politica estera”. La classe dominante in realtà non ha dubbi sul fatto che la destra difenderà i suoi interessi, ma è preoccupata perché lo farà provocando direttamente il movimento operaio e i giovani, in un contesto in cui qualunque elemento accidentale può far esplodere una tensione ormai al limite. Agli attacchi classisti su, diritti sindacali, licenziamenti, reddito di cittadinanza, scuola, sanità si affiancherà tutto l’armamentario reazionario di xenofobia, sessismo, omofobia e repressione. A questi attacchi i lavoratori e i giovani dovranno rispondere e risponderanno mobilitandosi in prima persona. La svolta che si è prodotta in questi giorni ci fa entrare a tappe accelerate in una fase esplosiva della lotta di classe.
L’entrata in scena della classe cambierà in profondità tutto il quadro politico e sindacale. Non è tollerabile una direzione della Cgil che in mezzo alla crisi di governo fa appello alla stabilità del governo Draghi facendo il controcanto alla campagna di Confindustria e che oggi è paralizzata dall’idea di perdere una sponda politica nel governo. Trent’anni di arretramenti sono una lezione sufficiente sugli esiti di questa linea. Vogliamo opporci alla destra rivendicando “i bei tempi” del governo Draghi o dei governi Conte? La forza su cui deve basarsi il sindacato è quella della classe lavoratrice, una forza in grado bloccare qualunque attacco e di condurre una controffensiva per riprenderci tutto quello che ci hanno tolto! La fase che si apre davanti a noi non farà sconti a nessuno, e bisogna prepararsi di conseguenza.
Così anche sul terreno politico serve porre un’alternativa complessiva a questo sistema politico ed economico. Non una generica riverniciata di progressismo in nome del reddito di cittadinanza come si appresta a fare Conte per far sopravvivere quel che è rimasto del cinque stelle, né operazioni elettoraliste di corto respiro basate su un miscuglio di riformismo e di populismo di sinistra.
Davanti a una crisi di questa portata, è necessario avanzare una chiara prospettiva rivoluzionaria, e investire le proprie energie perché questa prospettiva possa affermarsi nel terreno reale della lotta di classe che si prepara inevitabilmente davanti a noi. Questo è il lavoro che farà Sinistra Classe Rivoluzione, e invitiamo chi ne condivide la necessità a unirsi a noi per portarlo avanti in forma organizzata. Su questa linea è necessario prepararsi da subito all’autunno che abbiamo davanti, con la consapevolezza dello scontro che si prepara, la lucidità che deriva dall’analisi marxista, e l’ottimismo per l’incomparabile forza della nostra classe.