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23 Aprile 2018Poco prima delle elezioni spagnole del 2015 Felipe Gonzales aveva previsto “un parlamento all’italiana, ma senza politici italiani capaci di gestirlo”, riferendosi alla mancanza di una chiara maggioranza parlamentare e alla
difficoltà a trovare un accordo per dar luce a un governo. Il risultato delle elezioni del 4 marzo sta però mettendo alla prova anche la consolidata esperienza italiana.
Il risultato del M5S lo mette inevitabilmente al centro dello scenario. La borghesia italiana ha da tempo accettato di dover fare di necessità virtù e usarlo come strumento di governo. D’altronde Di Maio ogni giorno che passa si sforza di essere più realista del re, e dopo le rassicurazioni sull’affidabilità in campo economico, ha ribadito che vuol mantenere l’Italia saldamente nel quadro dell’alleanza atlantica, distanziandosi anche meno dello stesso Gentiloni dall’operazione militare in Siria. La verità è che per linea politica il M5S potrebbe trovare un accordo con chiunque in parlamento, ma mantiene il veto verso Forza Italia per non entrare in un accordo col centrodestra come azionista di minoranza. Un conto è dividersi le presidenze delle Camere o delle commissioni speciali altra cosa è rispondere alla domanda: chi fa il presidente del consiglio? Ovvero, chi comanda nel governo?
Per questo Salvini non rompe con Berlusconi, che è presenza scomoda ma necessaria per rivendicare la titolarità di governo alla Lega. Parla da sola la scena della conferenza stampa del centrodestra, con Salvini che legge la dichiarazione congiunta dopo la consultazione con Mattarella mentre Berlusoconi fa il controcanto e getta macigni nell’ingranaggio della trattativa con Di Maio.
Il Cavaliere, per quanto ai margini, ha ancora qualche carta da giocare. Il fatto che da Forza Italia dipendono i governi della Lega in diverse regioni del Nord è una di queste carte.
Lo stallo che si è protratto per un mese comincia ad avere un effetto logorante sui vincitori delle elezioni, che era la ragione per cui i principali commentatori borghesi subito dopo le elezioni invitavano alla calma. Su Radio24, canale di Confindustria, si era parafrasato il celebre appello “Fate in fretta” (che a suo tempo serviva a instaurare il governo Monti) in “Non fate in fretta”. Ovvero: dateci tempo per lavorare ai fianchi, per trovare una soluzione credibile per gli interessi del capitale – nazionale e internazionale – e soprattutto per diluire l’effetto della valanga di voti che il 4 marzo avevano punito tutti i partiti di governo. Intanto andiamo avanti con Gentiloni che offre garanzie su tutti i fronti, e poi si vedrà.
Rientra in campo il Pd?
Il Pd in questo quadro è stato tenuto fuori dalle discussioni di governo per tre ragioni. La prima era oggettiva, il ridimensionamento elettorale. La seconda era evitare l’effetto logoramento che invece doveva ricadere su M5S e Lega. La terza era la necessità di disinnescare Renzi, contrario a un’operazione che sarebbe un’ulteriore ridimensiona-mento per la propria carriera politica, e che gode tutt’ora di un’ampia maggiorana negli organismi del partito, almeno sulla carta. Da qui gli scontri interni sul congresso, sul rinvio dell’assemblea nazionale, ecc.
Ora potremmo essere agli inizi dello scongelamento per far tornare il Pd nei giochi e fargli fare da contrappeso di garanzia mentre si mette alla prova il M5S al governo evitando di averlo nella combinazione che può generare maggiore instabilità (con Salvini).
Lo scenario resta ancora aperto, ma il tempo gioca in questa direzione. Un esempio è stata la crisi siriana, dove le dichiarazioni atlantiste del M5S lo hanno avvicinato al Pd, mentre le dichiarazioni filorusse di Salvini non avranno certo fatto piacere ai diplomatici Usa che, si sa, una voce in capitolo nei governi italiani l’hanno sempre avuta.
Mentre scriviamo Mattarella si appresta a fare le prime mosse per smuovere lo scenario e verificare la fattibilità di questa ipotesi. Le modalità possono essere varie trattandosi di tattica parlamentare, da mandati esplorativi a preincarichi che spesso servono più a bruciare un candidato indesiderato che a fare un governo. Così come ci sarà poi il discorso delle truppe di complemento con i gruppi minori e singoli parlamentari, dalla Bonino al pigolante gruppo parlamentare di Liberi e Uguali, che fa appello a “uscire dai personalismi” e si dichiara aperto a ogni confronto e dialogo, a dimostrazione che se in natura tutto ha una funzione, in politica non sempre questa legge si applica…
Il cambiamento non arriva…
A trattativa ancora in corso ha scarso interesse azzardare ipotesi. Vanno però notati due punti importanti. Il primo è la plastica dimostrazione di ciò che scriviamo da diversi anni: nella crisi economica la classe dominante per mantenere la stabilità economica distrugge la stabilità politica, e in particolare logora e porta in crisi (a volte alla scomparsa politica) i partiti che ha usato per decenni. Questo si traduce sul piano istituzionale in una difficoltà endemica a creare dei governi stabili. In Germania sono serviti 169 giorni, in Spagna 10 mesi e due elezioni, in Olanda 7 mesi, per non riprendere l’esempio dei 535 giorni senza governo del Belgio. C’è persino chi su qualche giornale borghese scrive che non avere un governo non è poi così male, e anzi dimostrerebbe le virtù della “mano invisibile” (A. Smith). Ma è solo la solita ipocrisia del liberale che giura sul libero mercato e parla male dello Stato e della politica solo fino a quando i suoi affari vanno bene: quando invece vanno male pretende a gran voce soldi pubblici per le sue imprese e manganelli per mantenere l’ordine…
Il secondo aspetto però è che dal punto di vista della classe lavoratrice queste difficoltà istituzionali sono del tutto insufficienti di per sé a cambiare qualcosa. La borghesia ha affinato nel corso dei secoli la propria macchina statale e l’ha dotata di efficaci meccanismi di controllo. La divisione dei poteri è uno di questi, e in queste crisi istituzionali si vede come sia un elemento di stabilizzazione, come dimostra ampiamente il ruolo di Mattarella.
Il quadro salterà davvero solo con l’irruzione della classe lavoratrice sulla scena politica. Il risultato elettorale di marzo ne è un’anticipazione, con il distacco di massa dai partiti tradizionali di governo. Le manovre istituzionali in corso e la messa alla prova del prossimo governo e del M5S sono un’ulteriore, necessario passaggio in questa direzione.
17 aprile 2018