Rivoluzione n° 77
22 Aprile 2021In difesa del materialismo
23 Aprile 2021In poco più di 48 ore dal suo annuncio notturno, il progetto di Superlega promosso da dodici tra i più importanti club di calcio europei sembra essersi squagliato come neve al sole. I membri fondatori che secondo Andrea Agnelli, uno dei suoi principali propugnatori, avevano stretto “un patto di sangue”, hanno invece abbandonato la nave dopo la pioggia di critiche, probabilmente oltre le aspettative.
Tuttavia, sebbene fortemente ridimensionata, la vicenda Superlega consente di svolgere alcune riflessioni sulla situazione del calcio professionistico che lo stesso Agnelli, sul suo giornale, ha definito non più come uno sport ma come un vero e proprio settore industriale. Era in effetti un segreto di Pulcinella. Questo anno di pandemia da Covid-19, che ha fatto esplodere definitivamente una crisi latente già da molti anni in tutto il sistema capitalista, ha fatto emergere le contraddizioni anche di questo importante settore dell’economia continentale.
L’idea di creare un campionato che coinvolgesse in via esclusiva le più blasonate squadre di calcio del continente europeo non è certo una novità. Il progetto sotto varie forme circolava già dal 1998 e carsicamente riemerge di tanto in tanto nei periodi di crisi. Di fronte all’aggravamento dei conti imposto dalla pandemia, l’idea ha subito una clamorosa accelerazione, culminata con l’annuncio congiunto fatto nella notte fra il 18 e il 19 aprile dalle dodici squadre aderenti al progetto: sei inglesi, tre spagnole e tre italiane.
Nella spirale del debito
Le dodici società originariamente coinvolte nel progetto sono ai vertici dei ranking non solo (e non tutte) per i risultati sportivi ma soprattutto per l’ammontare dei loro debiti: dai 173.2 milioni del Manchester City agli 898 del Tottenham (dati 2020). Con il blocco dei campionati della seconda metà della stagione 2019-2020 la situazione è precipitata e la ripresa dei match a porte chiuse ha solo rallentato la caduta, che neppure i generosi contributi di sponsor e broadcaster sono riusciti a frenare.
Ormai da decenni, gran parte delle società professionistiche sopravvivono unicamente grazie al ricorso sistematico al debito, in misura sempre crescente. A nulla sono valsi trattamenti fiscali agevolati, controlli laschi e ogni sorta di “trucchi” da finanza creativa, come il meccanismo delle plusvalenze gonfiate che guida ormai le scelte di “calciomercato” assai più delle esigenze sportive. A nulla sono serviti i fallimenti a ripetizione anche di società di prima fascia. I club calcistici sono seduti sopra una bolla finanziaria non diversa in sostanza da quella dei mutui subprime, che si è gonfiata vertiginosamente negli ultimi anni anche grazie alla crescita costante della dipendenza dai proventi televisivi e da quelli provenienti dal settore parassitario dell’industria dell’azzardo: una bolla che rischia da un momento all’altro di esplodere travolgendo l’intero sistema.
Un rischio dalle conseguenze tanto più catastrofiche per i club più esposti, che sono precisamente quelli che hanno portato avanti il progetto della Superlega. Nel comunicato di lancio della competizione non si fa mistero dello scopo dell’operazione: in cambio della partecipazione a un torneo che avrebbe previsto partite di altissimo livello tutte le settimane, i club avrebbero ricevuto un finanziamento totale di 3,5 miliardi di euro dalla banca d’investimento JP Morgan. Lo avrebbero restituito in una ventina d’anni (con gli interessi naturalmente) grazie ai proventi della competizione, legati soprattutto alla vendita dei diritti televisivi.
La rivoluzionaria soluzione che i club hanno trovato per risolvere i loro problemi di debito è stata quella di ricorrere a ulteriore indebitamento. Le società più blasonate del continente si sono ridotte come uno sfortunato scommettitore all’ippodromo che dopo aver perso tutto cerca di risollevarsi scommettendo soldi che non ha sul cavallo dal nome promettente: Superleague. Uno con nome così non può certo perdere!
Un mito del passato che non esiste: l’ipocrisia della UEFA e della FIFA
Come era facile aspettarsi il progetto è stato accolto da una levata di scudi da parte di tutti gli esclusi. Sia a causa dell’onore ferito per non essere stati invitati alla festa dei migliori sia, soprattutto, per non poter mangiare una fetta della torta. Se infatti nonostante tutto la superlega dovesse vedere la luce, questo metterebbe in grosse difficoltà i campionati nazionali e le coppe della UEFA che perderebbero non solamente le squadre più famose e con più seguito ma anche il senso stesso delle competizioni venendo a mancare il vero premio in denaro e prestigio.
Nelle ore convulse seguite all’annuncio, UEFA e FIFA hanno ovviamente preso posizione contro la Superlega. La Federazione europea ha minacciato le società di esclusione da qualsiasi torneo nazionale e continentale, fino addirittura a proporre il bando dei giocatori dalle rispettive nazionali. Anche queste minacce sono subito sembrate più una posa che una reale possibilità. Escludere i 12 top club europei da ogni competizione avrebbe fatto perdere valore anche ai vecchi tornei e di conseguenza ai contratti televisivi che costituiscono la principale fonte dei guadagni dei club.
Si è quindi assistito ad uno scontro tra due modi di massimizzare i profitti sulla pelle del calcio come sport e non certo fra un modello di calcio buono “di una volta” e un calcio aggressivo dei cattivi. Infatti è ridicolo che UEFA e FIFA si presentino come i baluardi dell’etica quando, tra le altre cose, i mondiali che si stanno organizzando in Qatar per il 2022 sono già costati la vita a oltre 6.000 lavoratori.
Anche la rinunzia al progetto della Superlega di Bayern Monaco e Paris Saint Germain (quest’ultimo legato a doppio filo proprio con la monarchia qatariota) ha poco a che vedere con la difesa del merito sportivo, quanto piuttosto ad interessi differenti da tutelare.
E del resto non è difficile prevedere che la contesa finirà per comporsi con un compromesso che riconosca alla UEFA l’autorità sul sistema calcio continentale e ai grandi club una fetta ancora maggiore dei guadagni o una posizione privilegiata nei tornei.
Un rifiuto di massa
Uno degli aspetti più notevoli di questa vicenda è rappresentato dalle reazioni di opposizione che ha suscitato. Non quelle pelose e ipocrite delle istituzioni calcistiche e degli stessi governi europei, ma quelle spontanee di milioni di appassionati, a partire dagli stessi tifosi delle società coinvolte.
Il progetto della Superlega ha immediatamente scatenato un’ondata di proteste realmente di massa, soprattutto in Inghilterra: il sentimento di gran lunga prevalente è che questa operazione rappresenti l’ennesima tappa della progressiva espropriazione del calcio da parte di un pugno di arroganti super-ricchi ai danni dei tifosi.
Allo stesso tempo, però, in pochi si sono lasciati convincere dalla retorica diffusa dalla Uefa e dalle altre istituzioni, calcistiche e non, che mirano a rappresentare se stesse come i “buoni” che vogliono difendere lo sport dai soprusi dei “cattivi”. Non sfugge ai più che le istituzioni e i dirigenti che in questi giorni si sono scagliati contro “l’egoismo” dei top club sono gli stessi che negli ultimi decenni non hanno fatto altro che preparare il terreno a questa ulteriore svolta.
Con che credibilità parlano di “meritocrazia” istituzioni come la Premier League inglese nata trent’anni fa con la scissione delle squadre di prima divisione che non volevano più dividere con le serie minori i proventi televisivi? E come può essere presa sul serio la Uefa, che ha contribuito in modo significativo a foraggiare i club più ricchi aumentando a dismisura il divario tra il vertice e la base della piramide? E i dirigenti che da anni soffiano nella bolla delle plusvalenze, salvo poi aumentare vertiginosamente i prezzi dei biglietti negli stadi?
È ormai evidente a uno strato sempre più ampio di appassionati che è tutto il sistema calcio a essere marcio fino al midollo: la Superlega è soltanto la punta di un iceberg, alla radice del problema sono “i soldi”, cioè l’idea di gestire lo sport secondo le leggi del mercato, con il profitto come unica stella polare, a tutti i livelli.
Sempre più persone percepiscono, magari ancora in forma embrionale e contraddittorio, che la scelta non è fra un modello di sfruttamento buono e uno cattivo ma tra un modello di calcio “industriale” e capitalistico rappresentato sia dalla Superlega che dalla Uefa e uno di calcio popolare sportivo che anima le passioni dei tifosi e delle tifose.
Lo sport, e il calcio in particolare, è visto da decine di milioni di persone come un bene comune, non diversamente dall’ambiente o dalla salute. Le proteste di massa contro il progetto della Superlega risuonano allora con quelle a cui abbiamo assistito in questi anni contro i responsabili del riscaldamento globale e con il crescente malcontento verso la gestione privatizzata della campagna vaccinale a livello globale.
In tutti questi casi, il nemico è sempre lo stesso: il capitalismo, che come un parassita contagia con le sue dinamiche di disuguaglianza ogni aspetto della vita umana. L’indignazione contro la Superlega porta con sé una critica implicita al sistema del mercato ed è proprio per questa ragione, non certo spinti dal senso di giustizia, che i leader politici europei, da Macron a Johnson fino a Draghi, l’hanno cavalcata in queste ore nel tentativo di imbrigliarla e ricondurla nei confini delle compatibilità di sistema, esattamente come hanno fatto in questi anni promuovendo la “green economy” per addomesticare il movimento ambientalista.
Il compito dei marxisti è precisamente l’opposto: spiegare che anche la lotta per uno sport davvero “democratico” e popolare passa inevitabilmente dalla lotta contro il capitalismo.