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Il mondo capovolto – Un sistema in crisi

di Internazionale Comunista Rivoluzionaria

Stiamo vivendo in un periodo di svolte brusche e cambiamenti repentini nella situazione mondiale. L’elezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti e le sue politiche hanno introdotto un’enorme instabilità nella politica mondiale, nell’economia mondiale e nelle relazioni tra le potenze.

Trump non ha causato questo sconvolgimento, che è il risultato della crisi del capitalismo, ma le sue azioni hanno accelerato enormemente il processo. Contraddizioni che si erano accumulate sotto la superficie per molto tempo sono improvvisamente venute allo scoperto, sconvolgendo l’intera situazione. Il cosiddetto ordine mondiale liberale, che esisteva da decenni, ora sta crollando sotto i nostri occhi.

Nell’analizzare la situazione mondiale dobbiamo partire dai fondamentali. Il capitalismo è un sistema che ha esaurito da tempo il suo ruolo storico. Nella sua epoca di decadenza produce guerre, crisi e distruzione ambientale, che a lungo andare minaccia l’esistenza stessa della vita sul pianeta. Lo scopo di questo documento è quello di delineare le caratteristiche principali di questa crisi e di sottolineare la necessità di costruire un’organizzazione rivoluzionaria in grado di rovesciarla, unico modo per garantire un futuro all’umanità.

In ultima analisi, l’incapacità del sistema capitalista di sviluppare le forze produttive è la causa della crisi. L’economia è limitata dai limiti dello Stato nazionale e dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. Per decenni i capitalisti hanno utilizzato vari metodi per cercare di superare questi limiti: aumento della liquidità, sviluppo del commercio mondiale, ecc. Tutte queste misure si stanno ora trasformando nel loro contrario.

L’elezione di Trump

L’elezione di Donald Trump nel novembre 2024 ha rappresentato un cambiamento politico significativo e una manifestazione della crisi di legittimità della democrazia borghese, che non riguarda unicamente gli Stati Uniti ma esiste in tutti i Paesi. Nonostante gli sforzi notevoli da parte dal settore principale della classe dominante e dell’establishment statunitensi per impedire la sua vittoria, Trump si è assicurato una vittoria decisiva.

Questo risultato è stato largamente interpretato, in particolare dai commentatori liberali, dai media mainstream e da settori della “sinistra”, come prova di un più generale spostamento a destra della politica statunitense e globale.

Tali “spiegazioni” sono superficiali e fuorvianti. Inoltre, ci invitano a trarre conclusioni estremamente pericolose. Ad esempio, che Joe Biden e i Democratici rappresentino in qualche modo un’alternativa più progressista e “democratica” – un’affermazione che è in completa contraddizione con i fatti.

L’amministrazione Biden è stata completamente reazionaria, un fatto particolarmente evidente nel campo della politica estera. Ricordiamo che “Genocide Joe” ha dato a Netanyahu carta bianca per procedere al massacro di massa dei palestinesi a Gaza. Ha condotto una campagna di feroce repressione contro gli studenti e chiunque osasse opporsi a questa politica reazionaria.

In modo simile, nel caso dell’Ucraina, è stato responsabile di aver deliberatamente provocato un conflitto che ha portato a un sanguinoso massacro, di aver elargito miliardi di dollari in contanti e aiuti militari al regime reazionario di Kiev e di aver intrapreso una pericolosa politica di provocazione contro la Russia.

In campagna elettorale, Trump si è posizionato come il “candidato della pace”, in opposizione alle politiche guerrafondaie della cricca di Biden. Questa distinzione ha avuto un impatto particolarmente tra gli elettori dei distretti elettorali con una significativa presenza musulmana e araba.

Se è vero che un settore di elementi reazionari ha contribuito a sostenere Trump, questi fattori da soli non spiegano la portata del suo successo e il fatto che abbia aumentato la sua percentuale di voti in quasi tutti i gruppi demografici, in particolare anche tra le comunità operaie nere e latine. Difatti, in diversi stati in cui Trump ha ottenuto risultati ottimi o ha aumentato la sua percentuale di voti, gli elettori hanno contemporaneamente approvato iniziative elettorali progressiste, come provvedimenti per proteggere i diritti all’aborto o aumentare il salario minimo.

Il fattore chiave della vittoria di Trump risiede nella sua capacità di attingere, articolare e mobilitare un sentimento anti-sistema diffuso e profondamente radicato che permea la società americana.

Un esempio eclatante di questo fenomeno può essere visto nella risposta pubblica all’assassinio dell’amministratore delegato della United Healthcare da parte di Luigi Mangione. Se l’atto in sé è stato scioccante, la reazione dell’opinione pubblica – segnata dall’empatia per l’aggressore piuttosto che per la vittima – è stata ancora più rivelatrice. Mangione è stato visto da molti come una sorta di eroe popolare. In particolare, questa reazione non si è limitata alla sinistra politica, ma è stata condivisa anche da una parte dei conservatori e degli elettori repubblicani, compresi i sostenitori di Trump.

Questa situazione presenta un paradosso. Trump, nonostante sia un miliardario e si circondi di altri miliardari, si è posizionato con successo come voce della rabbia anti-sistema. Questa contraddizione evidenzia la natura incoerente e distorta dell’ambiente politico attuale. Tuttavia, riflette una disaffezione autentica e generalizzata verso le istituzioni tradizionali: verso le grandi imprese, verso le élite politiche e verso l’apparato statale nel suo complesso.

La causa principale di questa rabbia anti-sistema va ricercata nella crisi del capitalismo. Questa ha raggiunto proporzioni enormi dopo la crisi del 2008, dalla quale il sistema non si è ancora completamente ripreso. Non stiamo attraversando semplicemente un’altra crisi ciclica del capitalismo, ma una crisi organica del capitalismo. Il sostegno alla democrazia borghese nei Paesi a capitalismo avanzato è stato costruito per decenni sull’idea che il capitalismo fosse in grado di soddisfare alcuni dei bisogni fondamentali della classe lavoratrice (sanità, istruzione, pensioni…) e sull’aspettativa che il tenore di vita di ogni generazione migliorasse, anche se di poco, rispetto a quello della generazione precedente.

Oggi non è più così. Negli Stati Uniti, nel 1970, oltre il 90% dei trentenni aveva un reddito superiore a quello dei genitori alla loro età. Tuttavia, nel 2010 questa percentuale era scesa al 50%. Nel 2017, solo il 37% degli americani prevedeva che i propri figli avrebbero raggiunto un tenore di vita migliore di quello che avevano loro stessi.

Secondo il Bureau of Labour Statistics, dall’inizio degli anni ’80 i salari reali degli americani appartenenti alla classe operaia sono rimasti invariati o sono diminuiti, soprattutto a causa dell’esternalizzazione dei posti di lavoro in altri paesi. Analogamente, l’Economic Policy Institute riferisce che i salari delle famiglie a reddito medio-basso sono cresciuti poco o nulla dalla fine degli anni ’70, mentre il costo della vita ha continuato ad aumentare.

Allo stesso tempo si assiste a un’oscena polarizzazione della ricchezza. Da un lato, una piccola manciata di miliardari sta aumentando il proprio patrimonio. Dall’altro, un numero crescente di lavoratori ha sempre più difficoltà ad arrivare a fine mese. Devono affrontare i tagli dell’austerità, il potere d’acquisto dei salari divorato dall’inflazione, l’aumento delle bollette dell’energia, la crisi degli alloggi, ecc.

I media, i politici, i partiti istituzionali, i parlamenti, la magistratura, tutti sono giustamente visti come rappresentanti degli interessi di una piccola élite privilegiata, che prende decisioni per difendere i propri interessi ristretti ed egoistici piuttosto che servire i bisogni della maggioranza della popolazione.

La crisi del 2008 è stata seguita da tagli brutali ed austerità in tutti i Paesi. Tutte le conquiste del passato sono state attaccate. Le masse hanno visto attacchi al loro tenore di vita mentre le banche venivano salvate. Ciò ha dato origine a un’enorme rabbia, a movimenti di protesta di massa e, soprattutto, a una crisi di legittimità senza precedenti di tutte le istituzioni borghesi.

In primo luogo, questo stato d’animo, esemplificato dai movimenti di massa contro l’austerità intorno al 2011, ha trovato espressione a sinistra. Si è assistito a un’ascesa di figure e partiti di sinistra e anti-establishment in tutta Europa e negli Stati Uniti: Podemos, Syriza, Jeremy Corbyn, Bernie Sanders, tra gli altri. Tuttavia, ognuno di questi movimenti alla fine ha tradito le aspettative che aveva creato. I limiti della politica riformista dei loro dirigenti sono stati messi a nudo.

È stato il fallimento totale di queste figure di sinistra a spianare la strada all’ascesa di demagoghi reazionari come Trump.

Gli stessi processi sono in atto nella maggior parte dei Paesi a capitalismo avanzato: la crisi del capitalismo, gli attacchi alla classe operaia, il fallimento della sinistra e l’ascesa di demagoghi di destra che cavalcano l’onda di un ambiente anti-sistema.

Pericolo di fascismo o bonapartismo?

Già prima dell’elezione di Trump, i media borghesi e la sinistra hanno condotto una campagna rumorosa per denunciarlo come fascista.

Il marxismo è una scienza. Come tutte le scienze, possiede una terminologia scientifica. Parole come “fascismo” hanno per noi un significato preciso. Non sono semplici termini da abusare, o etichette che possono essere comodamente appiccicate a qualsiasi individuo che non incontra la nostra approvazione.

Cominciamo con una definizione precisa di fascismo. In senso marxista, il fascismo è un movimento controrivoluzionario – un movimento di massa composto principalmente dal sottoproletariato e dalla piccola borghesia inferocita. Viene usato come ariete per schiacciare e atomizzare la classe operaia e stabilire un regime totalitario in cui la borghesia consegna il potere statale a una burocrazia fascista.

La caratteristica principale dello Stato fascista è l’estrema centralizzazione e il potere statale assoluto, in cui le banche e i grandi monopoli sono protetti, ma sottoposti a un forte controllo centrale da parte di una grande e potente burocrazia fascista. In Che cos’è il nazionalsocialismo?, Trotskij spiega:

Il fascismo tedesco, come quello italiano, è giunto al potere appoggiandosi sulla piccola borghesia, che ha trasformato in ariete contro le organizzazioni della classe operaia e contro le istituzioni della democrazia. Ma il fascismo al potere è tutt’altro che un governo della piccola borghesia. Al contrario, è la dittatura più spietata del capitale monopolistico.

Queste, in termini generali, sono le caratteristiche principali del fascismo. Cosa ha a che fare tutto ciò con l’ideologia e il contenuto del fenomeno Trump? Abbiamo già avuto l’esperienza di un governo Trump, che – secondo gli avvertimenti disperati dei democratici e dell’intero establishment liberale – avrebbe proceduto all’abolizione della democrazia. Non ha fatto nulla del genere.

Non sono state prese misure significative per limitare il diritto di sciopero e di manifestazione, né tanto meno per mettere al bando i sindacati liberi. Le elezioni si sono svolte come di consueto e alla fine, pur tra il clamore generale, a Trump è succeduto Joe Biden tramite un’elezione. Dite quello che volete del primo governo Trump, ma non aveva niente a che fare con alcun tipo di fascismo.

Inoltre, I rapporti di forza tra le classi sono cambiati in modo significativo dagli anni ‘30. Nei paesi a capitalismo avanzato i contadini, che rappresentavano un’ampia fetta della popolazione, si sono ridotti a numeri molto esigui, e le professioni che prima erano considerate “classe media” (impiegati pubblici, medici, insegnanti) si sono proletarizzate, e questi settori si sono iscritti ai sindacati e hanno scioperato. Il peso sociale della classe operaia è stato enormemente rafforzato dallo sviluppo delle forze produttive durante l’enorme ripresa economica seguita alla fine della seconda guerra mondiale.

L’ideologia del trumpismo – nella misura in cui essa esiste – è molto lontana dal fascismo. Lungi dal desiderare uno Stato forte, l’ideale di Donald Trump è quello del capitalismo di libero mercato, in cui lo Stato gioca un ruolo minimo o nullo (eccezion fatta per i dazi protezionistici).

Altri hanno avanzato l’idea che Trump rappresenti un regime bonapartista. Anche in questo caso, l’idea è quella di dipingere Trump come un dittatore avviato a schiacciare la classe operaia. Ma questa forma di etichettatura non spiega nulla. In realtà, lungi dal voler schiacciare la classe operaia, Trump si rivolge ad essa in modo demagogico e cerca di ingraziarsela. Certo, essendo un politico borghese, rappresenta interessi fondamentalmente opposti a quelli dei lavoratori. Ma questo non fa di lui un dittatore.

È possibile indicare questo o quell’elemento della situazione attuale che possa essere considerato un elemento del bonapartismo. È possibile. Ma commenti simili potrebbero essere fatti per quasi tutti i recenti regimi democratici borghesi.

Il solo fatto che esistano alcuni elementi di un fenomeno non significa ancora l’effettiva comparsa di quel fenomeno in quanto tale. Si potrebbe, ovviamente, dire che nel trumpismo sono presenti elementi del bonapartismo. Ma ciò non equivale affatto a dire che negli Stati Uniti esista effettivamente un regime bonapartista.

Il problema è che “bonapartismo” è un termine molto elastico. Copre un’ampia gamma di cose, a partire dal concetto classico di bonapartismo, che è fondamentalmente il dominio della spada. Non è utile analizzare in questo modo l’attuale governo Trump a Washington, che, nonostante le sue numerose peculiarità, rimane comunque una democrazia borghese. Il nostro compito non è quello di assegnare etichette alle cose, ma di seguire il processo nel suo svolgimento e di comprenderne gli aspetti essenziali.

Movimenti tettonici nelle relazioni mondiali

La politica estera di Trump rappresenta una svolta importante nelle relazioni mondiali e la fine dell’ordine mondiale liberale che era esistito per 80 anni dopo la Seconda guerra mondiale. È un riconoscimento del declino relativo dell’imperialismo statunitense e dell’esistenza di potenze imperialiste rivali, la Russia e in particolare la Cina, il suo principale rivale imperialista nell’arena mondiale.

Alla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti ne uscirono enormemente rafforzati. Con l’Europa e il Giappone rovinati dalla guerra, gli USA rappresentavano il 50% del PIL mondiale e il 60% della produzione manifatturiera mondiale. L’unico serio rivale sulla scena mondiale era l’Unione Sovietica, che era uscita rafforzata dalla guerra, acendo sconfitto la Germania nazista ed essendo avanzata in tutto il continente.

La rivoluzione cinese rafforzò ulteriormente il blocco stalinista. Gli Stati Uniti si adoperarono per ricostruire l’Europa occidentale e il Giappone nel tentativo di contenere l’“avanzata del comunismo”. La burocrazia sovietica non era interessata alla rivoluzione mondiale ed era pronta a raggiungere un modus vivendi con Washington, espresso nella politica della “coesistenza pacifica”.

Seguì quindi un periodo di relativo equilibrio tra gli Stati Uniti e l’URSS, due potenze nucleari, noto come guerra fredda. Sulla base del dominio americano, furono create una serie di istituzioni formalmente multilaterali per gestire le relazioni mondiali (le Nazioni Unite) e l’economia mondiale (il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, creati alla Conferenza di Bretton Woods). Questo equilibrio venne rafforzato dalla ripresa economica del dopoguerra, un periodo di straordinario sviluppo delle forze produttive e del mercato mondiale.

Questo periodo è durato fino al crollo dello stalinismo nel 1989-1991 e alla restaurazione del capitalismo in Russia e in Cina. Ciò produsse un’altra importante svolta nella situazione mondiale. Gli Stati Uniti erano diventati la potenza imperialista dominante, senza rivali.

La guerra imperialista contro l’Iraq del 1991 fu condotta con il beneplacito dell’ONU, con il voto favorevole della Russia e la semplice astensione della Cina. Non sembrava esserci opposizione al dominio dell’imperialismo statunitense. Da un punto di vista economico, Washington spinse la globalizzazione e il “neoliberismo”: cioè l’ulteriore integrazione del mercato mondiale, sotto il dominio dell’imperialismo statunitense, e l’arretramento dello Stato.

Quel periodo di dominio incontrastato dell’imperialismo statunitense è stato lentamente eroso nel corso degli ultimi 35 anni, al punto che ora è emersa una situazione completamente nuova.

Spinti dalla loro somma arroganza, gli Stati Uniti lanciarono le invasioni dell’Iraq e dell’Afghanistan. Ma qui la storia cominciò ad andare al contrario. Gli americani sono rimasti impantanati per 15 anni in queste guerre impossibili da vincere, con costi elevatissimi in termini di spesa e di perdita di personale. Nell’agosto 2021, furono costretti a un’umiliante ritirata dall’Afghanistan.

Queste esperienze hanno reso l’opinione pubblica statunitense poco propensa alle avventure militari all’estero e la classe dominante americana molto cauta nell’impegno delle proprie truppe di terra all’estero. Insieme all’ascesa di nuove potenze regionali e mondiali, l’equilibrio relativo delle forze a livello globale si stava spostando. L’imperialismo statunitense non ha imparato nulla da queste esperienze. Si è rifiutato di riconoscere i nuovi rapporti di forza e ha cercato invece di mantenere il proprio dominio, trovandosi così invischiato in una serie di conflitti che non poteva vincere.

Un mondo multipolare?

La situazione mondiale è dominata da un’enorme instabilità nelle relazioni mondiali. Questo è il risultato della lotta per l’egemonia mondiale tra gli Stati Uniti, la più forte potenza imperialista del mondo, che è in relativo declino, e la Cina, una potenza imperialista più giovane e dinamica in ascesa. Stiamo assistendo a un cambiamento enorme, paragonabile in scala al movimento delle placche tettoniche sulla crosta terrestre. Tali movimenti sono accompagnati da esplosioni di ogni tipo. La guerra in Ucraina – dove si sta preparando un’umiliante sconfitta per gli USA-NATO – e il conflitto in Medio Oriente sono espressioni di questo fatto.

L’approccio di Trump alle relazioni mondiali rappresenta un tentativo di riconoscere che gli Stati Uniti non possono essere l’unico poliziotto del mondo. Secondo lui e i suoi stretti collaboratori, il tentativo degli USA di mantenere l’egemonia e il dominio totale è estremamente costoso, impraticabile e dannoso per gli interessi fondamentali della sicurezza nazionale.

Ciò non significa che gli Stati Uniti cessino di essere una potenza imperialista o che le politiche di Trump siano nell’interesse dei popoli oppressi del mondo. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. La politica estera di Trump rappresenta una netta delimitazione di quelli che sono e non sono gli interessi fondamentali della sicurezza nazionale statunitense, a partire dal Nord America.

Quando Trump dice che gli Stati Uniti hanno bisogno di avere il controllo sul Canale di Panama e sulla Groenlandia, esprime le necessità dell’imperialismo statunitense. Il Canale di Panama è una rotta commerciale cruciale, che collega il Pacifico al Golfo del Messico e veicola il 40% del traffico di container degli USA.

Per quanto riguarda la Groenlandia, essa ha sempre avuto un impostante posizionamento geostrategico (che è la ragione per cui gli Usa hanno una presenza militare sull’isola) e il riscaldamento globale ha portato a un aumento del traffico marittimo tra il Pacifico e l’Atlantico attraverso l’Artico. Meno ghiaccio polare significa un accesso più facile ai fondali marini, dove si trovano enormi riserve di minerali e di terre rare. L’isola stessa possiede anche importanti giacimenti di minerali essenziali (terre rare, uranio), nonché di gas e petrolio, che ora stanno diventando più accessibili, anche questo grazie al riscaldamento globale. Gli Stati Uniti sono in competizione con Cina e Russia per il controllo di queste rotte commerciali e di queste risorse.

La politica estera di Trump si basa sul riconoscimento dei limiti del potere statunitense. La conseguenza è il tentativo di svincolarsi da una serie di conflitti costosi (Ucraina, Medio Oriente) attraverso accordi, per ricostruire il suo potere e concentrarsi sul suo principale rivale sulla scena mondiale, la Cina.

Per tutto il periodo successivo alla fine della Seconda guerra mondiale, o forse anche prima, l’imperialismo statunitense ha mantenuto la pretesa di agire in nome dei diritti umani, di diffondere la democrazia e l’“ordine basato sullo stato di diritto”, di difendere “il sacro principio dell’inviolabilità dei confini nazionali”, e così via.

Agivano attraverso istituzioni internazionali “multilaterali”, apparentemente neutrali, in cui tutti i Paesi avevano voce in capitolo: le Nazioni Unite, il WTO, il FMI e così via. In realtà, si trattava solo di uno specchietto per le allodole. È sempre stata una farsa. O gli interessi dell’imperialismo statunitense si esprimevano attraverso queste istituzioni, oppure le ignoravano completamente. La differenza ora è che a Trump non interessa affatto nessuna di queste finzioni. Sembra deciso a stracciare ogni convenzione e ad esprimere le cose più apertamente, come sono realmente.

Alcuni hanno sostenuto che, di fronte al potere senza limiti degli Stati Uniti, l’idea di un mondo multipolare fosse qualcosa di progressista, che avrebbe permesso ai Paesi oppressi un maggior grado di sovranità, un ideale per il quale dovremmo lottare. Ora possiamo vedere un assaggio di come potrebbe apparire un mondo “multipolare”: le potenze imperialiste si ritagliano il mondo in sfere di influenza, costringendo i Paesi a sottomettersi all’una o all’altra.

Il declino relativo dell’imperialismo statunitense

Dobbiamo sottolineare che quando parliamo di declino dell’imperialismo statunitense, ci riferiamo a un declino relativo. Cioè, un declino rispetto alla sua precedente posizione rispetto alle altre potenze rivali. Gli Stati Uniti rimangono, sotto ogni punto di vista, la forza più potente e reazionaria del mondo.

Nel 1985, gli Stati Uniti rappresentavano il 36% del PIL mondiale. Ora sono scesi al 26% (2024). Nello stesso periodo, la Cina è passata dal 2,5% del PIL mondiale al 18,5%. Il Giappone, che ha raggiunto un picco del 18% nel 1995, è ora crollato ad appena il 5,2%.

Gli Stati Uniti dominano ancora l’economia mondiale grazie al controllo dei mercati finanziari. Un enorme 58% delle riserve valutarie mondiali è detenuto in dollari (mentre solo il 2% è detenuto in renminbi cinesi), sebbene la cifra sia in calo rispetto al 73% del 2001. Il dollaro rappresenta anche il 58% della fatturazione delle esportazioni mondiali. In termini di deflusso netto di investimenti diretti esteri (un indicatore dell’esportazione di capitali), gli Stati Uniti sono al primo posto con 454 mila miliardi di dollari, mentre la Cina (compresa Hong Kong) è al secondo posto con 287 mila miliardi di dollari.

È il peso economico di un Paese a conferirgli potere internazionale, ma questo deve essere sostenuto dalla potenza militare. La spesa militare degli Stati Uniti rappresenta il 40% del totale mondiale, mentre la Cina è seconda con il 12% e la Russia terza con il 4,5%. Gli Stati Uniti spendono più dei 10 Paesi che li seguono in classifica messi insieme.

Tuttavia, gli Stati Uniti non possono più affermare di essere i padroni indiscussi del mondo. Il colossale potere economico della Cina e i suoi conseguenti progressi in termini di forza militare, insieme alla superiorità militare dimostrata dalla Russia sui campi di battaglia dell’Ucraina, rappresentano una sfida formidabile. Da tutte le parti, quindi, i limiti del potere globale degli USA vengono messi crudamente a nudo.

Questo declino relativo si esprime economicamente con la parziale fuga di capitali dal dollaro, dai titoli di Stato e dalle azioni americani. Con i monopoli statunitensi che affrontano una competizione maggiore da parte dei rivali internazionali, soprattutto dalla Cina, le azioni americane non sono più considerate dagli investitori una scommessa sicura come in passato. Analogamente, con la montagna del debito federale americano che cresce, e il ricorso da parte del governo americano a un maggiore finanziamento del deficit, i titoli di Stato americani (obbligazioni governative) non sono più considerate un porto sicuro finanziario come una volta. Questo ha portato a un indebolimento del dollaro – nonostante i dazi americani – e del suo dominio nell’arena della finanza globale.

Questo rappresenta una “correzione di mercato”, che porta i prezzi della monta, delle azioni e dei titoli americani più vicini alla reale e ridimensionata posizione economica del capitalismo Usa. Tuttavia, proprio come per il vecchio ruolo di poliziotto del mondo della potenza militare degli Usa, non c’è una alternativa praticabile al dollaro per quanto riguarda il commercio e la finanza mondiale. Da qui il crescente allarme fra gli strateghi borghesi per l’impatto caotico che si produrrebbe sul sistema finanziario globale e l’economica mondiale se crollasse la fiducia nel dollaro.

Questo è un altro modo in cui il declino relativo del capitalismo statunitense e l’emergente “multipolarità” contribuiranno ad aumentare l’incertezza e l’instabilità a livello mondiale. Uno dopo l’altro, tutti i pilastri dell’ordine del dopoguerra vengono erosi e minati, con conseguenze esplosive dal punto di vista economico, militare e politico.

Il potere militare della Russia

Pur non essendo un colosso economico paragonabile alla Cina, la Russia ha creato una solida base economica e tecnologica. Questo le ha permesso di resistere con successo all’aggressione economica senza precedenti che l’Occidente le ha inflitto all’insegna delle “sanzioni”. Inoltre, lo ha fatto mentre portava avanti una guerra che ha sconfitto tutti i sistemi di armamento scagliati contro di essa dall’imperialismo occidentale. Ha costruito un esercito potente che può competere con le forze combinate degli Stati europei; ha costruito una formidabile industria della difesa che sta superando sia gli Stati Uniti che l’Europa in carri armati, artiglieria, munizioni, missili e droni; e possiede il più grande arsenale nucleare del mondo, ereditato dall’URSS.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il saccheggio totale dell’economia pianificata, la classe dominante russa ha accarezzato l’idea di essere accettata al tavolo mondiale in condizioni di parità. Ha persino ventilato l’idea di entrare nella NATO. L’idea fu respinta. Gli Stati Uniti volevano esercitare un dominio completo e illimitato sul mondo e non vedevano la necessità di condividere il potere con una Russia debole e in crisi.

L’umiliazione della Russia si è rivelata chiaramente, prima quando la Germania e gli Stati Uniti hanno architettato la disgregazione reazionaria della Jugoslavia, tradizionalmente nella sfera di influenza della Russia, e poi con il bombardamento della Serbia nel 1999. Eltsin, un ubriacone buffone e un burattino dell’imperialismo statunitense, era un rappresentante di questo rapporto di subordinazione.

Tuttavia, con la graduale ripresa della Russia dalla crisi economica, i circoli dirigenti non erano più disposti ad accettare la loro umiliazione sulla scena internazionale. Questo è ciò che sta alla base dell’ascesa di Putin, l’astuto bonapartista che si è fatto strada verso il potere con ogni tipo di manovra.

I russi anno iniziato a opporsi all’avanzata della NATO verso est, una mossa che aveva infranto tutte le promesse fatte ai russi nel 1990, quando gli era stato assicurato che non ci sarebbe stata alcuna espansione della NATO verso est, in cambio dell’accettazione di una Germania unificata all’interno dell’alleanza.

Nel 2008, la Russia ha condotto una guerra breve ed efficace in Georgia, distruggendo l’esercito del Paese, che era stato addestrato ed equipaggiato dalla NATO. Questo è stato il primo colpo di avvertimento della Russia, che ha reso chiaro che non avrebbe più accettato le ingerenze dell’occidente. Poi è stato il turno di Siria ed Ucraina. In ognuno di questi Paesi, la forza della Russia rispetto all’imperialismo statunitense è stata messa alla prova. Il declino relativo dell’imperialismo statunitense, nel frattempo, è stato ulteriormente rivelato dall’umiliante ritiro dall’Afghanistan nell’agosto 2021.

L’invasione russa dell’Ucraina è stata la logica conclusione del rifiuto dell’Occidente di accettare le preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza nazionale, espresse nella richiesta di neutralità dell’Ucraina e di arresto dell’espansione verso est della NATO. Quando Donald Trump afferma che questa guerra non era necessaria e che se fosse stato presidente non avrebbe mai avuto luogo, probabilmente è vero. L’imperialismo statunitense e i suoi alleati europei sapevano bene che l’adesione dell’Ucraina alla NATO rappresentava una linea invalicabile dal punto di vista degli interessi di sicurezza nazionale della Russia. Nonostante ciò, hanno deciso di invitare gli ucraini a presentare domanda di adesione alla NATO nel 2008. Si trattava di una palese provocazione, che logicamente avrebbe portato a gravi conseguenze. È stato questo passo fatale a portare alla guerra.

L’Occidente ha insistito sul “diritto” dell’Ucraina di entrare nella NATO, quando lo status di neutralità, il divieto di basi militari straniere e la non partecipazione a blocchi militari erano stati concordati e persino scritti nella dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina. Il capo della CIA, William J. Burns, aveva ripetutamente avversato questa ipotesi, ma la cricca di guerrafondai che gestiva la politica estera dell’amministrazione Biden – e Joe Biden stesso – avevano altre idee.

Biden pensava di poter usare l’Ucraina come carne da cannone in una campagna volta a indebolire la Russia e ridurre il suo ruolo nel mondo. Non si poteva permettere che un Paese come la Russia, rivale dell’imperialismo statunitense, ne minacciasse l’egemonia globale Ma l’interferenza degli stati Uniti in Ucraina ha un altro obiettivo, sebene se meno evidente, ovvero la Germania e l’Unione Europea. Rompere il legame tra l’Unione Europea e la Russia significa indebolire le fondamenta del capitalismo tedesco. Questo spiega perché all’inizio, soprattutto la Germania, fosse molto meno desiderosa di una guerra ma, essendo troppo debole per una “terza posizione”, abbia inevitabilmente dovuto seguire l’imperialismo statunitense una volta scoppiata.

Nel marzo 2022, Biden, gonfio della sua stessa arroganza, ha persino sollevato l’idea di un cambio di regime a Mosca! Insieme agli europei, era convinto che le sanzioni economiche e l’affaticamento dal punto di vista militare avrebbero portato la Russia al collasso. Ma avevano seriamente sottovalutato la portata del potere economico e militare della Russia. Di conseguenza, l’imperialismo statunitense si è ritrovato invischiato in una guerra impossibile da vincere, che ha rappresentato un colossale prosciugamento delle sue risorse finanziarie e militari.

Trump insiste ora sul fatto che questo disastro non è opera sua. Dice: “Questa non è la mia guerra. È la guerra di Joe Biden”. E ciò è corretto. Gli strateghi del capitale sono abbastanza capaci di commettere errori basati su calcoli sbagliati. E questo è un caso emblematico. Quando Trump dice che la guerra in Ucraina non rappresenta gli “interessi fondamentali” degli Stati Uniti, ha assolutamente ragione. Gli USA si trovano ad affrontare una minaccia ben più grave in Asia e nel Pacifico, rappresentata dalla crescente potenza cinese, oltre ad altri problemi in Medio Oriente e a una crescente crisi economica. Questo spiega la fretta con cui Trump ha cercato di far uscire l’imperialismo statunitense dall’insidiosa palude dell’Ucraina. Ma i problemi creati da Biden e dai suoi tirapiedi europei si stanno rivelando difficili da risolvere.

Gli uomini e le donne che dirigono lo spettacolo a Washington e Londra, hanno sistematicamente sabotato ogni tentativo di trovare una soluzione pacifica prima ancora che cominciasse la guerra. Nell’aprile del 2022, i negoziati in Turchia tra Ucraina e Russia erano a uno stadio piuttosto avanzato e avrebbero potuto portare alla fine della guerra, sulla base dell’accettazione di una serie di richieste russe. L’imperialismo USA, sostenuto dal suo cagnolino britannico, nella persona di Boris Johnson, ha fatto fallire i negoziati, facendo pressione su Zelensky affinché non firmasse, con la promessa di un sostegno illimitato che avrebbe portato alla piena vittoria dell’Ucraina.

Oggi sono gli europei, guidati da Germania, Francia e di nuovo Regno Unito, a fare pressione su Trump affinché continui a sostenere l’Ucraina, alimentando a loro volta le fiamme della guerra. Il calcolo per loro è tanto semplice quanto cinico: vogliono vincolare gli Stati Uniti ed evitare che si ritirino dall’Europa. Allo stesso tempo, con il sangue di decine di migliaia di ucraini e russi, vogliono guadagnare tempo, prima di tutto per far entrare in azione il loro riarmo.

All’inizio della guerra, l’amministrazione Biden credeva di poter trasformare la Russia in un paria sulla scena mondiale e Putin in una persona non grata. La guerra ha invece aggravato le tensioni esistenti nelle relazioni internazionali e, a sua volta, smascherato la menzogna di una “comunità internazionale” onnipotente schierata a sostegno dell’imperialismo statunitense.

Oltre all’Unione Europea, al Giappone, alla Gran Bretagna e al Canada, gli Stati Uniti hanno faticato a convincere la stragrande maggioranza delle classi dominanti mondiali a sostenere la loro guerra per procura contro la Russia. Questa è stata una lampante conferma che gli Stati Uniti non sono in grado di esercitare la loro influenza politica come facevano trent’anni fa. Come ha detto Larry Summers, ex segretario al Tesoro degli Stati Uniti, mettendo in guardia dall’ulteriore isolamento dell’Occidente: “C’è una crescente accettazione della frammentazione e, cosa forse ancora più preoccupante, credo che ci sia una crescente sensazione che il nostro potrebbe non essere il frammento migliore a cui essere associarti.”

Oggi gli Stati Uniti devono affrontare una sconfitta umiliante in Ucraina. Le sanzioni non hanno avuto l’effetto desiderato. Anziché subire un collasso economico, la Russia ha goduto di tassi di crescita economica costanti, di gran lunga superiori a quelli dell’Occidente. Lungi dall’essere isolata, ha stabilito legami economici più stretti con la Cina e con una serie di Paesi chiave che dovrebbero invece rientrare nella sfera di influenza degli Stati Uniti. Paesi come l’India, l’Arabia Saudita, la Turchia e altri l’hanno aiutata ad aggirare le sanzioni.

La Cina e la Russia sono ora diventate alleate molto più strette, unite dall’opposizione al dominio degli USA sul mondo, e hanno raccolto intorno a sé tutta una serie di altri Paesi. Quando la sconfitta degli Stati Uniti in Ucraina si realizzerà definitivamente, avrà conseguenze enormi e durature sulle relazioni mondiali, indebolendo ulteriormente il potere dell’imperialismo statunitense in tutto il mondo.

La sconfitta degli Stati Uniti e della NATO in Ucraina invierà un messaggio potente. La più grande potenza imperialista del mondo non può sempre imporre la sua volontà. Inoltre, la Russia ne è uscita con un grande esercito, collaudato nei metodi e tecniche di guerra moderna più recenti, e con un potente complesso militare-industriale.

La politica di Trump rappresenta una netta svolta rispetto alla precedente politica dell’imperialismo statunitense. Ha riconosciuto che questa guerra contro la Russia non può essere vinta e quindi sta cercando di tirarne fuori gli Stati Uniti. Si calcola inoltre che il raggiungimento di un accordo con la Russia che riconosca i suoi interessi di sicurezza nazionale (cioè quelli dell’imperialismo russo) potrebbe farla retrocedere dalla sua stretta alleanza con la Cina, il principale rivale dell’imperialismo statunitense sulla scena mondiale. Tuttavia è improbabile che questo calcolo funzioni, da l momento che nei tre anni di guerra l’Occidente ha spinto la Russia troppo vicina alla Cina, e le recenti dichiarazioni e azioni sia della direzione russa sia di quella cinese indicano che entrambe vedono questo riavvicinamento come strategico.

L’ascesa della Cina come potenza imperialista

La rapida trasformazione della Cina da estrema arretratezza economica a potente Paese capitalista ha pochi paralleli nella storia moderna. In un lasso di tempo incredibilmente breve, ha raggiunto una posizione tale da poter sfidare il potere del poderoso imperialismo statunitense.

La Cina di oggi non ha assolutamente nulla in comune con la nazione debole, semi-feudale, semi-coloniale e dominata che era nel 1938. In realtà, attualmente la Cina non è solo un paese capitalista, ma ha tutte le caratteristiche di una potenza imperialista a tutti gli effetti.

È impossibile spiegare questa trasformazione senza comprendere il ruolo cruciale svolto dalla Rivoluzione Cinese del 1949, che ha abolito il latifondismo e il capitalismo e ha creato le basi per un’economia pianificata nazionalizzata, che è stata la condizione preliminare per trasformare la Cina da una nazione arretrata e semicoloniale alla sua attuale posizione di gigante economico.

Giunta in ritardo sulla scena internazionale, ha dovuto lottare per controllare le fonti di materie prime ed energia per la sua industria, i campi di investimento per i suoi capitali, le rotte commerciali per le sue importazioni ed esportazioni e i mercati per i suoi prodotti. In tutti questi terreni ha ottenuto notevoli successi.

L’ascesa trentennale della Cina è stata il risultato di massicci investimenti nei mezzi di produzione e della dipendenza dai mercati mondiali. Inizialmente, ha sfruttato le sue grandi riserve di manodopera a basso costo per esportare sul mercato mondiale merci come tessuti e giocattoli.

Oggi è un’economia capitalista tecnologicamente avanzata, che detiene una posizione di dominio mondiale in una serie di mercati ad alta tecnologia (veicoli elettrici e batterie EV, celle fotovoltaiche, tecniche antibiotiche, droni commerciali, infrastrutture di comunicazione cellulare 5G, centrali nucleari, ecc.), non solo in termini di volume di vendite, ma anche di innovazione.

La Cina è anche leader mondiale nel campo della robotica. È al terzo posto al mondo per concentrazione di robot industriali, con 470 ogni 10.000 lavoratori del settore manifatturiero, sebbene la sua forza lavoro sia di oltre 37 milioni. Questo dato la colloca dietro solo alla Corea del Sud (1012) e a Singapore (770), e davanti alla Germania (429) e al Giappone (419), mentre è ben al di sopra del livello degli Stati Uniti (295). Questi dati si riferiscono al 2023 e la posizione della Cina è probabilmente migliorata da allora, dato che nel 2023 ha registrato il 51% di tutte le nuove installazioni di robot industriali nel mondo.

In termini di esportazione di capitali, la Cina è seconda solo agli Stati Uniti. Nel 2023, gli Stati Uniti rappresentavano il 32,8% dei flussi di investimenti esteri diretti (IDE) a livello mondiale, mentre Cina e Hong Kong rappresentavano complessivamente il 20,1%. In termini di stock di IDE accumulati, gli Stati Uniti avevano il 15,1% del totale globale, mentre Cina e Hong Kong rappresentavano l’11,3%. Nonostante il predominio americano in questo settore, il piano strategico a lungo termine per queste esportazioni di capitali ha permesso alla Cina, negli ultimi due decenni, di attuare un significativo processo di controllo sulle rotte commerciali marittime e sulla produzione e raffinazione di minerali fondamentali per la stragrande maggioranza delle tecnologie moderne. La Cina domina l’estrazione globale di terre rare (69%) e la loro raffinazione (92%). Domina anche la raffinazione di minerali critici come il cobalto (80%), il nichel (68%) e il litio (60%). Inoltre, la Cina sta avanzando nel controllo dell’estrazione di importanti riserve, come in Congo (dove controlla 15 delle 19 migliori miniere di cobalto del paese) e in Argentina (il 43% delle sue esportazioni di litio è andato alla Cina, rispetto all’11% agli Stati Uniti). Questo è stato essenziale non solo per dominare la produzione dei settori tecnologici importanti sopra menzionati, ma anche per stabilire determinati controlli sull’esportazione di questi minerali verso gli Stati Uniti, il che rappresenta un’importante merce di scambio nei negoziati con Trump sui dazi.

Come risultato delle modalità di restaurazione del capitalismo in Cina, lo Stato svolge un ruolo importante nell’economia. Ha adottato una politica consapevole di promozione e finanziamento dello sviluppo tecnologico. Il piano “Made in China 2025” aveva l’obiettivo di far compiere un grande balzo in avanti ai settori chiave e di rendere il Paese autosufficiente e non dipendente dall’Occidente. La spesa cinese per la ricerca e lo sviluppo è aumentata in modo significativo ed è quasi alla pari con quella degli Stati Uniti.

Questo successo non è stato ottenuto senza creare crescenti contraddizioni e conflitti con altre nazioni capitaliste, portando infine all’attuale guerra commerciale con gli Stati Uniti.

In seguito al crollo dell’Unione Sovietica e all’apertura di nuovi mercati nell’ambito della politica di globalizzazione, la crescita dell’economia capitalista in Cina è stata inizialmente vista da economisti e investitori occidentali come un’opportunità d’oro.

Gli investitori occidentali si sono affrettati a creare fabbriche in Cina, dove avrebbero potuto sfruttare un’offerta apparentemente infinita di manodopera a basso costo. Tra il 1997 e il 2019, il 36% della crescita dello stock di capitale globale è avvenuto in Cina. La penetrazione della Cina da parte del capitale statunitense è stata tale che le due economie sembravano indissolubilmente unite.

La crescita della Cina ha effettivamente svolto un ruolo cruciale nello sviluppo dell’economia mondiale per diversi decenni. Nel 2008, i borghesi occidentali speravano addirittura che la Cina avrebbe contribuito a far uscire l’economia mondiale dalla recessione. Tuttavia, come abbiamo sottolineato all’epoca, questo avrebbe avuto un risvolto negativo molto grave e minaccioso per loro.

Queste fabbriche, utilizzando la tecnologia moderna, avrebbero inevitabilmente prodotto grandi quantità di merci a basso costo che dovevano essere esportate, poiché la domanda di tali beni in Cina rimaneva limitata. In definitiva, ciò ha causato seri problemi agli Stati Uniti e alle altre economie occidentali.

Tutto è cambiato nel suo contrario. Sorgeva sempre più spesso la domanda: chi sta aiutando chi? È vero che gli investitori occidentali stavano realizzando grandi profitti, ma la Cina stava creando capacità produttive avanzate, competenze tecnologiche, infrastrutture e una forza lavoro qualificata. Tutto ciò è stato visto sempre più come una minaccia, soprattutto negli Stati Uniti.

La Cina è diventata un fornitore insostituibile per i produttori mondiali, sia per la produzione di prodotti di consumo finiti come gli iPhone, sia per la produzione di beni strumentali e componenti essenziali. La Cina è il principale fornitore per il 36% delle importazioni statunitensi, soddisfacendo oltre il 70% della domanda di tali prodotti.

La Cina ora è diventata un rivale sistemico degli Stati Uniti sulla scena mondiale. Questo è il vero significato della guerra commerciale di Trump contro il paese asiatico. Si tratta di una lotta tra due potenze imperialiste per affermare la loro forza relativa sul mercato mondiale.

Washington ha utilizzato le misure più estreme per farlo, vietando la vendita dei microchip più avanzati alla Cina, impedendo la vendita delle macchine litografiche più avanzate, impedendo a società come Huawei di partecipare a gare d’appalto per infrastrutture 5G in diversi Paesi, ecc.

Ma i tentativi degli Stati Uniti di bloccare lo sviluppo della Cina nelle tecnologie di avanguardia hanno avuto l’effetto opposto. In risposta, la Cina ha accelerato il percorso verso l’autosufficienza. Sebbene si trovi ancora di fronte a dei nodi da sciogliere, ad esempio perché non ha accesso alle più avanzate macchine per la litografia EUV, utilizzate per produrre i microprocessori più avanzati, la Cina ha usato l’ingegno per trovare delle soluzioni parziali.

È vero che, nonostante i suoi progressi, l’economia cinese presenta molte contraddizioni. La produttività del lavoro in Cina è cresciuta grazie allo sviluppo della scienza, dell’industria e della tecnologia, mentre in Europa è rimasta stagnante per un lungo periodo e negli Stati Uniti ha registrato solo una modesta crescita negli ultimi anni. Tuttavia, la produttività del lavoro cinese nel suo complesso è ancora notevolmente inferiore a quella degli Stati Uniti. Ci vorrà tempo per colmare questo divario.

È anche lecito supporre che i tassi di crescita senza precedenti raggiunti dalla Cina negli ultimi decenni non saranno mantenuti. Anzi, il rallentamento è già iniziato. Negli anni ’90, la Cina è cresciuta a un ritmo mozzafiato del 9% all’anno, con picchi del 14%. Tra il 2012 e il 2019 è cresciuta tra il 6 e il 7%. Ora si aggira intorno al 5%. Tuttavia, l’economia cinese nel suo complesso continua a crescere più velocemente dei Paesi capitalisti avanzati dell’occidente.

Naturalmente, per il fatto stesso di essere diventata un’economia capitalista e fortemente integrata nel mercato mondiale, la Cina deve affrontare tutti i problemi che questo comporta. Esistono già disparità regionali nello sviluppo economico e una massiccia disuguaglianza di reddito. La disoccupazione è aumentata tra i lavoratori migranti e i giovani.

Enormi pacchetti di incentivi economici, misure keynesiane, hanno portato a un aumento del debito. Il debito pubblico in rapporto al PIL, che era solo del 23% nel 2000, è salito al 60,5% nel 2024. Si tratta di un aumento significativo, ma è ancora inferiore a quello della maggior parte delle economie capitalistiche avanzate. Il debito totale (statale, delle aziende e delle famiglie), tuttavia, ha raggiunto il 300% del PIL.

L’aumento del protezionismo e il rallentamento del commercio mondiale avranno indubbiamente un impatto sulla Cina. L’unico modo per superare questa crisi sarà quello di spingere maggiormente per scaricare la propria sovrapproduzione sul mercato mondiale, il che a sua volta aumenterà le tensioni su scala mondiale e allo stesso tempo approfondirà la crisi del sistema nel suo complesso.

In questa lotta titanica tra due giganti dell’economia, la domanda è posta a bruciapelo: chi prevarrà? Le colonne della stampa occidentale sono piene di valutazioni negative e di avvertimenti funesti per il futuro dell’economia cinese.

La stampa occidentale cerca sempre di presentare un quadro molto negativo dell’economia cinese – come fa immancabilmente per l’economia russa, che tuttavia continua a mantenere un sano tasso di crescita di circa il 4-5% all’anno. Questo non fa decisamente pensare a un’economia sull’orlo del collasso.
La Cina – certo – non è immune dalle crisi, ma dispone anche di notevoli risorse per affrontare questa sfida e uscirne con molti meno danni di quello che millanta la stampa occidentale. Soprattutto, bisogna tenere presente che la Cina, pur essendo un Paese capitalista, ha ancora molte peculiarità.

Si tratta, infatti, di un’economia che mantiene ancora notevoli elementi di controllo, intervento e pianificazione da parte dello Stato. Questo gioca a suo favore, se paragonato a paesi come gli Stati Uniti.
Esistono anche importanti fattori politici, culturali e psicologici che possono giocare un ruolo decisivo in qualsiasi conflitto con potenze imperialiste straniere. Il popolo cinese ha ricordi lunghi e amari della sua passata dominazione, sfruttamento e umiliazione per mano dell’imperialismo.

Per quanto possa disprezzare la propria classe dominante, l’odio verso gli imperialisti stranieri è molto più profondo e può fornire un potente sostegno al regime nella sua lotta con gli Stati Uniti.

I circoli dominanti degli Stati Uniti hanno osservato l’ascesa della Cina con panico crescente. Hanno adottato un atteggiamento bellicoso, espresso da un lato dagli scandalosi aumenti dei dazi di Trump, dall’altro dalle continue provocazioni rispetto a Taiwan.

I guerrafondai di Washington accusano costantemente la Cina di pianificare l’invasione di quella che i cinesi considerano un’isola ribelle che è loro di diritto.

Ma i circoli dominanti cinesi sono gestiti da uomini che hanno imparato da tempo l’arte della pazienza nella diplomazia. Non hanno bisogno di invadere Taiwan. Sanno che, prima o poi, si riunirà alla Cina continentale. Hanno aspettato decenni per riprendere il controllo di Hong Kong dagli inglesi. E non vedono alcun motivo per cercare una soluzione militare affrettata al problema.

Solo un grave errore di calcolo da parte dei guerrafondai di Washington, o una decisione avventata di proclamazione dell’indipendenza dei nazionalisti taiwanesi, li indurrebbe a intraprendere un’azione militare. In tali circostanze, gli uomini di Pechino avrebbero tutte le carte in regola per farlo.

Non c’è modo che Taiwan possa resistere a lungo contro la forza dell’esercito e della marina cinese, che si trovano a poche miglia di distanza, mentre gli americani dovrebbero spostare una forza di dimensioni notevoli, affrontando condizioni difficili e pericolose attraverso tutto l’oceano.

In ogni caso, nulla indica che lo stesso Donald Trump stia cercando un conflitto militare con la Cina. Preferisce altri metodi: l’imposizione di sanzioni paralizzanti e di dazi elevati, per costringere la Cina a sottomettersi. Ma la Cina non ha alcuna intenzione di sottomettersi, né in una guerra economica né in un vero e proprio conflitto militare.

Fino a poco tempo fa, la Cina aveva promosso il suo potere principalmente attraverso mezzi economici, ma sta anche costruendo una potenza militare. La Cina ha recentemente annunciato un aumento del 7,2% della spesa per la difesa. Possiede già un esercito di terra enorme e potente e sta ora sviluppando una marina altrettanto potente e moderna per difendere i suoi interessi in alto mare.

Un recente articolo della BBC afferma che il Paese possiede ora la più grande marina militare del mondo, superando quella degli Stati Uniti. Non è corretto nemmeno dire che le sue forze armate si basano su tecnologie ed equipaggiamenti antiquati. Lo stesso articolo afferma che:

La Cina è ora pienamente impegnata nello sviluppo di una guerra ‘intelligente’, o di futuri metodi militari basati su tecnologie dirompenti – in particolare sull’intelligenza artificiale, secondo il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti”.

Viene aggiunto che:

L’Accademia di Scienze Militari della Cina ha ricevuto il mandato di assicurarsi che ciò avvenga, attraverso la ‘fusione civile-militare’, in altre parole unendo le aziende tecnologiche del settore privato cinese con le industrie militari del Paese. I report suggeriscono che la Cina potrebbe già utilizzare l’intelligenza artificiale nella robotica militare e nei sistemi di guida dei missili, oltre che nei veicoli aerei e nelle navi militari senza equipaggio“.

Inoltre, la Cina ha uno dei programmi spaziali più attivi al mondo. Tra le altre missioni, ha piani ambiziosi per costruire una stazione spaziale sulla Luna e arrivare su Marte. A parte il loro intrinseco interesse scientifico, questi piani sono chiaramente collegati a un programma di riarmo molto ambizioso.

Lo sviluppo delle forze produttive in Cina è ormai un fatto assodato. È inutile negarlo. Oggettivamente non si tratta nemmeno di uno sviluppo negativo dal punto di vista della rivoluzione mondiale, perché ha creato una classe operaia molto grande, abituata a un aumento costante del proprio tenore di vita per un periodo prolungato. Si tratta di una classe operaia giovane e nuova, non condizionata dalle sconfitte e non legata a organizzazioni riformiste.

“La Cina è un drago che dorme. Lasciate che la Cina dorma, perché quando si sveglierà, scuoterà il mondo” è un’affermazione spesso attribuita a Napoleone. Che l’abbia detta o meno, di certo si applica al potente proletariato cinese in questo momento. Il momento della verità può essere ritardato per qualche tempo. Ma quando questa forza possente comincerà a muoversi, provocherà un’esplosione di proporzioni sismiche.

Equilibrandosi tra le potenze

Il declino relativo dell’imperialismo statunitense e l’ascesa della Cina hanno creato una situazione in cui alcuni Paesi possono trovare un equilibrio tra l’uno e l’altro e ottenere un piccolo grado di autonomia per perseguire i propri interessi, almeno a livello regionale. Questo include paesi come la Turchia, l’Arabia Saudita, l’India e altri, in diversa misura.

L’ascesa dei BRICS, lanciati formalmente nel 2009, rappresenta un tentativo da parte di Cina e Russia di rafforzare la propria posizione sulla scena mondiale, di proteggere i propri interessi economici e di legare tutta una serie di Paesi alla propria sfera di influenza.

L’ implementazione di sanzioni economiche di ampia portata da parte dell’imperialismo statunitense contro la Russia ha accelerato questo processo. Nell’elaborare meccanismi per evitare e superare le sanzioni, la Russia ha stretto una serie di alleanze con altri Paesi, tra cui Arabia Saudita, India, Cina e molti altri.

Piuttosto che dimostrare la forza degli Stati Uniti, il fallimento delle sanzioni ha rivelato i limiti della capacità dell’imperialismo statunitense di imporre la propria volontà e ha spinto diversi Paesi a considerare alternative al dominio statunitense sulle transazioni finanziarie. Si è ampliata l’adesione ai BRICS e nuovi Paesi sono stati invitati o hanno chiesto di aderire.

Nell’affrontare la questione è importante avere un senso delle proporzioni. Per quanto importanti siano questi cambiamenti, i BRICS sono pieni di contraddizioni di ogni tipo. Il Brasile, pur facendo parte dei BRICS, è allo stesso tempo parte del Mercosur, il blocco di libero scambio sudamericano, che sta negoziando un accordo di libero scambio con l’UE.

L’India ne fa parte, ma è riluttante a consentire l’ingresso di nuovi membri perché ciò diminuirebbe il suo peso nel blocco. L’India ha anche un “partenariato strategico” con gli Stati Uniti; fa parte dell’alleanza militare e di sicurezza “Quad” con gli Stati Uniti, il Giappone e l’Australia; la sua Marina militare conduce regolarmente esercitazioni militari con gli Stati Uniti.

L’aspetto significativo è che un Paese come l’India, alleato degli Stati Uniti e rivale della Cina, ha svolto un ruolo importante nell’aiutare la Russia ad aggirare le sanzioni statunitensi. L’India acquista il petrolio russo a prezzo scontato e poi lo rivende all’Europa sotto forma di prodotti raffinati a un prezzo più alto. Per ora, gli Stati Uniti hanno deciso di non prendere misure contro l’India.

Finora i BRICS non sono stati altro che un’alleanza di paesi senza molti vincoli. La prepotenza imperialista degli USA nei confronti dei suoi rivali è ciò che li spinge ad avvicinarsi e incoraggia altri ad aderire.

Crisi in Europa

Mentre gli Stati Uniti hanno subito un declino relativo della loro forza e influenza a livello globale, le vecchie potenze imperialiste europee – Regno Unito, Francia, Germania e le altre – hanno subito un ulteriore declino rispetto ai loro giorni di gloria, diventando potenze mondiali di secondo piano. Vale la pena notare che il ruolo imperialista dei paesi europei, si è particolarmente indebolito nell’ultimo decennio. Una serie di colpi di Stato militari, ad esempio, ha allontanato la Francia dall’Africa centrale e dal Sahel, perlopiù a vantaggio della Russia.

Le potenze europee hanno seguito l’imperialismo statunitense nella sua guerra per procura in Ucraina contro la Russia, una cosa che ha avuto un impatto devastante sulla loro economia. Dal crollo dello stalinismo nel 1989-1991, la Germania aveva perseguito una politica di espansione della propria influenza a est e aveva stabilito stretti legami economici con la Russia. L’industria tedesca aveva beneficiato dell’energia russa a basso costo. Prima della guerra in Ucraina, più della metà del gas naturale tedesco, un terzo del petrolio e metà delle importazioni di carbone provenivano dalla Russia.

Questa è stata una delle ragioni del successo dell’industria tedesca nel mondo, le altre due sono la deregolamentazione del mercato del lavoro (attuata sotto i governi socialdemocratici) e gli investimenti effettuati nell’industria nella seconda metà del secolo scorso. Il dominio dell’Unione Europea da parte della classe dominante tedesca e il libero scambio con Cina e Stati Uniti hanno completato un circolo virtuoso che ha permesso alla Germania di uscire apparentemente indenne dalla crisi del 2008.

La situazione era simile per l’UE nel suo complesso, per la quale la Russia era il principale fornitore di petrolio (24,8%), gas (48%) e carbone (47,9%). Le sanzioni europee imposte alla Russia dopo l’inizio della guerra in Ucraina hanno portato a prezzi dell’energia molto più alti, con un effetto a catena sull’inflazione e sulla perdita di competitività delle esportazioni europee. Alla fine, l’Europa ha dovuto importare gas naturale liquefatto (GNL) molto più costoso dagli Stati Uniti e prodotti petroliferi russi molto più costosi attraverso l’India.

In realtà, gran parte del gas tedesco proviene ancora dalla Russia, solo che ora lo fa sotto forma di GNL, a un prezzo molto più alto. Le classi dominanti tedesche, francesi e italiane si sono date la zappa sui piedi e ora stanno pagando un prezzo molto alto. Già sotto la presidenza Biden, gli Stati Uniti hanno ripagato i loro alleati europei scatenandogli contro una guerra commerciale attraverso una serie di misure protezionistiche e sussidi alla propria industria.

La Comunità Economica Europea, e in seguito l’Unione Europea, hanno rappresentato un tentativo da parte delle potenze imperialiste indebolite del continente di raccogliersi in gruppo dopo la seconda guerra mondiale, nella speranza di avere più voce in capitolo nella politica e nell’economia mondiale. Nella pratica, il capitale tedesco ha sottomesso le altre economie più deboli. Finché c’è stata crescita economica, è stato raggiunto un certo grado di integrazione economica e persino una moneta unica.

Tuttavia, le diverse classi dominanti nazionali che la compongono sono ancora in vita, ognuna con i propri interessi particolari. Nonostante tutti i discorsi, non esiste una politica economica comune, una politica estera unitaria e un esercito unico per attuarla. Mentre il capitale tedesco si basa su esportazioni industriali competitive e i suoi interessi sono a est, la Francia riceve grandi somme in sussidi agricoli dall’UE e i suoi interessi imperialisti si trovano nelle ex colonie francesi, principalmente in Africa.

La crisi del debito pubblico in seguito alla recessione del 2008 ha portato l’UE ai suoi limiti. Ora la situazione è ulteriormente peggiorata. Il rapporto recente dell’ex presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, dipinge la crisi del capitalismo europeo in termini allarmanti, ma non ha torto. In fondo, il motivo per cui l’UE non è in grado di competere con i suoi rivali imperialisti nel mondo è il fatto che non è un’unica entità economico-politica, ma piuttosto un insieme di diverse economie di piccole e medie dimensioni, ognuna con la propria classe dominante, le proprie industrie nazionali, i propri regolamenti, ecc. L’economia europea è sclerotica ed è stata superata dai suoi rivali in termini di crescita della produttività.

Le forze produttive hanno superato lo stato-nazione e questo problema è particolarmente acuto nelle economie europee, piccole ma altamente sviluppate.

Il declino prolungato delle potenze imperialiste europee è stato mascherato dal fatto che gli Stati Uniti si occupavano della loro difesa e sostenevano politicamente l’UE. Per quasi 80 anni, l’imperialismo statunitense ha sostenuto l’Europa, sotto il suo dominio, come baluardo contro l’Unione Sovietica. Si è trattato di un accordo molto utile per il capitalismo europeo, che ha potuto esternalizzare una parte consistente dei costi per la difesa al potente cugino dall’altra parte dell’Atlantico.

Ciò ora è finito. L’imperialismo statunitense sotto Trump ha deciso di gestire il suo declino relativo cercando di raggiungere un accordo con la Russia per concentrarsi meglio sul suo principale rivale sulla scena mondiale: la Cina. Il centro della politica e dell’economia mondiale non è più l’Atlantico ma il Pacifico. Questo spostamento è in atto dalla fine della seconda guerra mondiale, ma ora è venuto alla ribalta in modo esplosivo.

Si tratta di uno shock importante per le relazioni mondiali che nessuno può ignorare. Se gli Stati Uniti trovassero un’intesa con la Russia, l’imperialismo europeo si troverebbe in una posizione di forte svantaggio. Gli Stati Uniti non sono più loro amici e alleati. Alcuni sono arrivati a dire che Washington considera l’Europa come un rivale o un nemico.

Come minimo, Trump ha chiarito che gli Stati Uniti non sono più disposti a sovvenzionare la difesa dell’Europa. Il ritiro dell’ombrello protettivo degli Stati Uniti, come è stato descritto da alcuni, ha messo in evidenza tutte le debolezze accumulate dall’imperialismo europeo, consolidate in decenni di declino.

La crisi del capitalismo europeo ha importanti implicazioni politiche e sociali. L’ascesa delle forze populiste, euroscettiche e anti-establishment di destra in tutto il continente ne è un risultato diretto. La classe operaia europea, che ha le sue forze in gran parte integre e non ha conosciuto la sconfitta, non accetterà un nuovo ciclo di tagli, austerità e licenziamenti di massa senza lottare. Tutto è pronto per un’esplosione della lotta di classe.

La guerra in Medio Oriente

L’attuale conflitto in Medio Oriente può essere compreso solo nel contesto della situazione mondiale. L’imperialismo statunitense si è indebolito in Medio Oriente, mentre la Russia, la Cina e anche l’Iran si sono rafforzati. Israele si sentiva minacciato. L’attacco del 7 ottobre è stato un duro colpo per la classe dominante israeliana. Ha distrutto il mito dell’invincibilità e ha messo in dubbio la capacità dello Stato sionista di proteggere i suoi cittadini ebrei, la questione chiave che la classe dirigente israeliana aveva usato per raccogliere la popolazione dietro di sé.

Inoltre, ha messo chiaramente in luce il fallimento degli accordi di Oslo, firmati all’indomani del crollo dello stalinismo. L’intera faccenda è stata un cinico imbroglio dall’inizio alla fine. La classe dirigente sionista non ha mai avuto l’idea di concedere ai palestinesi una patria stabile. Ha considerato l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) semplicemente come un modo per esternalizzare l’attività di repressione dei palestinesi. Questo screditamento di Fatah e dell’Autorità Palestinese – visti giustamente come semplici burattini di Israele – ha portato, con l’acquiescenza di Israele, all’ascesa di Hamas, che è stata vista da molti come l’unica forza a portare avanti la lotta per i diritti nazionali palestinesi.

In realtà, però, i metodi reazionari di Hamas hanno condotto i palestinesi in un vicolo cieco da cui è difficile vedere una via d’uscita.

Gli accordi di Abramo, firmati nel 2020 sotto la pressione della prima amministrazione Trump, avrebbero dovuto stabilire la posizione di Israele nella regione come attore legittimo e normalizzare le relazioni commerciali tra Israele e i Paesi arabi. Ciò avrebbe significato seppellire le aspirazioni nazionali palestinesi, cosa che i regimi arabi reazionari erano ben felici di fare. L’attacco del 7 ottobre è stato una risposta disperata a questa situazione.

L’attacco è stato inizialmente accolto con giubilo dai palestinesi, ma ha avuto le conseguenze più terribili. Ha dato a Netanyahu, che subito prima aveva dovuto affrontare una lunga ondata di proteste di massa, una scusa perfetta per lanciare una campagna genocida contro Gaza. Netanyahu, Ben Gvir, Smotrich e compagni hanno visto nell’attacco del 7 ottobre un’occasione d’oro. Con la scusa della “sicurezza” e della “protezione” di Israele, si sono posti l’obbiettivo della pulizia etnica del maggior numero possibile di palestinesi dalla loro terra. Hanno anche cercato di riaffermare il loro ruolo imperialista nella regione aprendo la guerra su più fronti.

Un anno dopo, gli israeliani avevano ridotto Gaza a un cumulo di macerie fumanti, ma non avevano raggiunto i loro obiettivi dichiarati: il rilascio degli ostaggi e la distruzione di Hamas. Questi due obiettivi di guerra erano in aperta contraddizione tra loro. Il primo richiedeva un accordo negoziato con Hamas, mentre il secondo impediva che tali negoziati avessero luogo. C’è una rabbia diffusa per il fatto che il governo israeliano fosse interessato unicamente a distruggere il suo nemico. Questo ha portato a manifestazioni di massa da parte di centinaia di migliaia di israeliani e persino a un sciopero generale di breve durata nel settembre 2024.

Il carattere di queste manifestazioni non era di sostegno alla causa palestinese, né di opposizione alla guerra in sé. Tuttavia, il fatto che ci sia stato un tale livello di opposizione di massa al primo ministro nel bel mezzo della guerra è un’indicazione della profondità delle divisioni all’interno della società israeliana.

Il crollo del proprio appoggio ha spinto Netanyahu a inasprire la situazione con l’invasione del Libano e l’attacco a Hezbollah, accompagnato da continue provocazioni contro l’Iran. Per salvarsi politicamente, ha ripetutamente dimostrato che sarebbe pronto a scatenare una guerra regionale, che costringerebbe gli Stati Uniti a intervenire direttamente al suo fianco.

Nonostante il pericolo che il massacro di Gaza potesse portare alla destabilizzazione rivoluzionaria dei regimi arabi reazionari (in Arabia Saudita, Egitto e soprattutto Giordania), Biden ha chiarito che il suo sostegno a Israele fosse “ferreo”, e Netanyahu ha incassato questo assegno in bianco ripetutamente, perseguendo un percorso di escalation verso una guerra regionale. Oltre al massacro genocida di Gaza, ha lanciato un’invasione di terra del Libano, attacchi aerei contro l’Iran, lo Yemen e la Siria, e poi un’invasione di terra della Siria.

Sebbene la motivazione principale di Netanyahu per estendere il conflitto all’Iran fosse la sua salvezza politica a causa dei suoi problemi interni, sembra chiaro che la guerra limitata di 12 giorni tra Israele e Iran dello scorso giugno abbia goduto di un ampio sostegno tra la classe dirigente israeliana. Il rafforzamento del regime iraniano nella regione negli ultimi 20 anni era visto dalla borghesia sionista come una minaccia per Israele. Ma l’Iran si è trovata in una posizione più fragile nella regione con l’eliminazione del regime siriano di Al-Assad e con Hezbollah e Hamas gravemente indeboliti. Pertanto, una mini-guerra che potesse distruggere il programma nucleare iraniano, o addirittura portare al rovesciamento del regime, era una causa che valeva la pena sostenere. Alla fine, Israele non è riuscito a raggiungere questo obiettivo, e il ripetersi di un nuovo confronto militare tra i due paesi è solo una questione di tempo.

Il crollo improvviso e inaspettato del regime di Assad in Siria ha cambiato ancora una volta I rapporti di forza a livello regionale. La Turchia è una potenza capitalista minore in termini economici globali, ma ha grandi ambizioni regionali. Erdogan ha sfruttato molto abilmente a proprio vantaggio il conflitto tra l’imperialismo statunitense e la Russia.

Avvertendo che l’Iran e la Russia, con cui Erdogan aveva stretto un accordo in Siria nel 2016, erano altrimenti impegnati (la Russia in Ucraina e l’Iran in Libano), Erdogan ha deciso di sostenere l’offensiva dei jihadisti dell’HTS da Idlib. Con grande sorpresa di tutti, ciò è bastato a provocare il completo collasso del regime. Il livello di erosione prodotto dalle sanzioni economiche, dalla corruzione e dal settarismo era molto più grande di quanto si potesse immaginare. L’attuale spartizione della Siria è la continuazione di oltre 100 anni di ingerenze imperialiste che risalgono all’accordo Sykes-Picot.

In definitiva, non ci potrà essere pace in Medio Oriente finché non verrà risolta la questione nazionale palestinese. Ma questo non può essere raggiunto sotto il capitalismo. Gli interessi della classe dominante sionista in Israele (sostenuta dalla più potente potenza imperialista del mondo) non consentono la formazione di una vera patria per i palestinesi e ancor meno il diritto al ritorno a casa di milioni di rifugiati.
Da un punto di vista puramente militare, i palestinesi non possono sconfiggere Israele, una moderna potenza imperialista capitalista con la più sofisticata tecnologia militare e un servizio di intelligence che non è secondo a nessuno. Oltretutto, riceve il pieno sostegno dall’imperialismo statunitense.

Su quali altre forze possono contare i palestinesi? Nessuna fiducia può essere riposta nei regimi arabi reazionari, che forniscono un sostegno a parole alla causa palestinese, ma che l’hanno tradita e hanno collaborato con Israele e l’imperialismo ad ogni passo.

Gli unici veri amici dei palestinesi si trovano tra le piazze arabe – le masse oppresse di operai, contadini, piccoli commercianti e poveri nelle città e nelle campagne. Ma il loro compito immediato è quello di regolare i conti con i loro governanti reazionari. Ciò pone la questione dell’abolizione del capitalismo attraverso l’espropriazione dei proprietari terrieri, dei banchieri e dei capitalisti. Senza questo, la rivoluzione nel Nord Africa e in Medio Oriente non potrà mai avere successo.

Nella regione esiste una forte classe operaia, soprattutto in Egitto e in Turchia, ma anche in Arabia Saudita, negli Stati del Golfo e in Giordania. Un’insurrezione riuscita in uno di questi Paesi, che porti la classe operaia al potere, cambierebbe i rapporti di forza. Creerebbe quindi condizioni più favorevoli alla liberazione dei palestinesi e preparerebbe la strada a una guerra rivoluzionaria contro Israele, che scaturirebbe inevitabilmente dall’intera situazione.

Lo Stato di Israele e la sua classe dominante sionista possono essere sconfitti solo dividendo la popolazione del Paese lungo linee di classe. Al momento, la prospettiva di una scissione su basi di classe in Israele sembra lontana. Tuttavia, la guerra e i conflitti costanti possono alla fine portare una parte delle masse israeliane a trarre la conclusione che l’unica via per la pace è una giusta soluzione della questione nazionale palestinese.

Senza una prospettiva di trasformazione socialista rivoluzionaria della società, le guerre infinite, condotte da governi reazionari con le potenze imperialiste che tirano le fila, non risolveranno nulla. Sotto il dominio dell’imperialismo, cessate il fuoco e accordi di pace temporanei non faranno altro che preparare la strada a nuove guerre. Ma l’instabilità generale, che è sia la causa delle guerre sia la loro conseguenza, creerà le condizioni per un movimento rivoluzionario delle masse nel prossimo periodo.

La rivoluzione palestinese trionferà come rivoluzione socialista e come parte di un’insurrezione generale della massa di operai e contadini poveri contro i regimi reazionari della regione, oppure non trionferà affatto. I paesi del Medio Oriente e del Nord Africa possiedono colossali risorse non sfruttate che potrebbero garantire una società prospera e fiorente. Invece, l’intera storia del Medio Oriente e del Nord Africa dopo la cosiddetta indipendenza dal dominio imperialista diretto non è stata altro che un incubo per la maggior parte della popolazione. La borghesia si è dimostrata incapace di risolvere tutti i problemi fondamentali.

Un ruolo estremamente pernicioso è stato svolto dagli stalinisti che si sono basati sulla falsa teoria delle “due fasi”, che separa artificialmente la rivoluzione proletaria dalla cosiddetta rivoluzione democratico-borghese. Questa teoria reazionaria ha portato a una sconfitta disastrosa dopo l’altra, creando le condizioni per l’ascesa di governi dittatoriali reazionari e oppressivi e per la follia del fondamentalismo religioso in un paese dopo l’altro. Solo una rivoluzione socialista vittoriosa può porre fine a questo incubo.

Solo una federazione socialista può risolvere la questione nazionale una volta per tutte. Tutti i popoli, palestinesi ed ebrei israeliani, ma anche curdi, armeni e tutti gli altri, avrebbero il diritto di vivere in pace all’interno di una federazione socialista. Il potenziale economico della regione verrebbe sfruttato al massimo in un piano di produzione socialista comune. La disoccupazione e la povertà sarebbero un ricordo del passato. Solo su questa base, i vecchi odi nazionali e religiosi potrebbero essere superati. Sarebbero come il ricordo di un brutto sogno.

Questa è l’unica vera speranza per i popoli del Medio Oriente.

Corsa al riarmo e militarismo

Storicamente, qualsiasi cambiamento significativo nella forza relativa delle diverse potenze imperialiste tendeva a risolversi attraverso la guerra, soprattutto le due guerre mondiali del ventesimo secolo. Oggi, l’esistenza di armi nucleari esclude una guerra mondiale aperta nel prossimo periodo.

I capitalisti entrano in guerra per assicurarsi mercati, campi di investimento e sfere di influenza. Una guerra mondiale oggi porterebbe alla distruzione totale di infrastrutture e vite umane, da cui nessuna potenza trarrebbe vantaggio. Per arrivare a una guerra mondiale occorrerebbe un leader bonapartista folle al comando di una grande potenza nucleare. Questo sarebbe possibile solo sulla base di sconfitte decisive della classe operaia. Non è questa la prospettiva che abbiamo davanti.

Tuttavia, il conflitto tra le potenze imperialiste, che riflette la lotta per affermare una nuova suddivisione del pianeta, domina la situazione mondiale. Ciò si esprime in diverse guerre regionali, che causano distruzioni massicce e uccidono decine di migliaia di persone, nonché in tensioni commerciali e diplomatiche, che aumentano continuamente. L’anno scorso si è registrato il numero maggiore di guerre dalla fine della seconda guerra mondiale.

Questo ha portato a una nuova corsa agli armamenti, alla crescita del militarismo nei paesi occidentali e a una maggiore pressione per ricostruire, riequipaggiare e modernizzare le forze armate ovunque. Gli Stati Uniti sono pronti a spendere circa 1.700 miliardi di dollari in 30 anni per rinnovare il loro arsenale nucleare. Ora hanno deciso di schierare missili da crociera sul suolo tedesco per la prima volta dai tempi della guerra fredda.

Tutti i Paesi della NATO sono sottoposti a forti pressioni per aumentare la spesa per la difesa. La Cina ha annunciato un aumento del 7,2% della spesa per la difesa. A seguito della guerra, nel 2024 la spesa militare della Russia è cresciuta del 40%, raggiungendo il 32% della spesa federale totale e il 6,68% del PIL. La spesa militare globale nel 2023 ha raggiunto i 2,44 migliaia di miliardi di dollari, con un aumento del 6,8% rispetto al 2022. Si tratta dell’aumento maggiore dal 2009 e del livello più alto mai registrato.

Si tratta di cifre da capogiro, per non parlare dello spreco di forza lavoro e di sviluppo tecnologico, che avrebbero potuto essere utilizzati per scopi socialmente necessari. Questo è un punto che i comunisti devono sottolineare nella nostra propaganda e agitazione.

Sarebbe semplicistico affermare che i capitalisti stanno intraprendendo una nuova corsa agli armamenti per stimolare la crescita economica. In realtà, la spesa per gli armamenti è intrinsecamente inflazionistica e qualsiasi effetto sull’economia sarà di breve termine e verrà compensato da tagli in altri settori. Nel lungo periodo, costituisce un salasso per l’economia produttiva, attraendo plusvalore. È piuttosto il conflitto tra le potenze imperialiste per la spartizione del mondo ad alimentare l’aumento delle spese militari. Il capitalismo nella sua fase imperialista porta inevitabilmente a conflitti tra le potenze e, in ultima analisi, alla guerra.

La lotta contro il militarismo e l’imperialismo è diventata un punto centrale della nostra epoca. Siamo convinti oppositori delle guerre imperialiste e dell’imperialismo, ma non siamo pacifisti. Dobbiamo sottolineare che l’unico modo per garantire la pace è l’abolizione del sistema capitalista che genera la guerra.

La corsa al riarmo del capitalismo europeo

Nel caso dell’Europa, la spinta al militarismo e alla spesa per gli armamenti è il risultato del rafforzamento dell’imperialismo russo che esce vittorioso dalla guerra in Ucraina, del ritiro del sostegno militare degli Stati Uniti e del tentativo delle potenze europee di dimostrare di avere ancora un ruolo sulla scena mondiale.

La spesa militare russa per il 2024 è stata di circa 13,1 migliaia di miliardi di rubli (145,9 miliardi di dollari), pari al 6,68% del PIL nazionale. Si tratta di un aumento di oltre il 40% rispetto all’anno precedente. A parità di potere d’acquisto, questa cifra si avvicina a 462 miliardi di dollari.

Nel frattempo, l’Europa ha aumentato sostanzialmente la spesa militare del 50% in termini nominali dal 2014, raggiungendo un totale complessivo di 457 miliardi di dollari nel 2024. In questo caso, adeguare la cifra russa rispetto al potere d’acquisto ha senso, dal momento che stiamo confrontando la quantità di carri armati, pezzi di artiglieria o munizioni che ogni dollaro può acquistare, in Russia e in Europa. In altre parole, la Russia sta spendendo più di tutta l’Europa in campo militare.

La Russia sta anche superando tutta la NATO, compresi gli Stati Uniti, in termini di munizioni, razzi e carri armati. Secondo le stime dei servizi segreti della NATO, la Russia produce 3 milioni di munizioni di artiglieria all’anno. L’intera NATO, compresi gli Stati Uniti, ha la capacità di produrne solo 1,2 milioni, meno della metà della cifra russa.

Inoltre, la guerra in Ucraina ha completamente trasformato il modo di condurre la guerra. Come sempre, la guerra permette di testare nuove tecnologie e tecniche in condizioni reali, che vengono rapidamente migliorate e adattate sul campo di battaglia. Gli eserciti impegnati nei combattimenti sono costretti a sviluppare rapidamente mezzi e tattiche per contrastarle. Abbiamo assistito all’introduzione di un gran numero di droni (aerei, terrestri e marittimi), di tecniche di sorveglianza elettronica e di disturbo, ecc.

Gli unici eserciti ad avere un’esperienza reale di questi nuovi metodi sono quelli dell’Ucraina e della Russia. L’Occidente è in grave ritardo in tutti questi campi. La guerra in Ucraina ha drammaticamente spostato l’equilibrio militare delle forze a favore della Russia.

Ciò non significa che la Russia abbia interesse a invadere l’Europa, e nemmeno parte di essa. Questa cosiddetta minaccia è stata massicciamente ingigantita dalla classe dominante per giustificare un forte aumento delle spese militari e nel tentativo di ridurre l’opposizione dell’opinione pubblica. La Russia non ha alcun interesse a invadere l’Ucraina occidentale – che sarebbe un’impresa molto più costosa e gravosa dell’attuale campagna militare russa – né tanto meno a invadere i Paesi della NATO.

La minaccia dal punto di vista del capitalismo europeo non è realmente quella di un’invasione russa o di un conflitto militare aperto tra gli eserciti russi ed europei. Sarebbe molto costoso per entrambe le parti. Inoltre, sarebbero coinvolte potenze nucleari da entrambe le parti, una prospettiva molto pericolosa.

La vera minaccia per l’imperialismo europeo in crisi è quella di essere stato abbandonato o declassato dalla più grande potenza imperialista del mondo, mentre allo stesso tempo si trova vicino a un altro potente imperialista, che sta uscendo massicciamente rafforzato dall’attuale guerra.

La Russia ha un grande potere (militare e in termini di risorse energetiche) e sta già esercitando una forte influenza sulla scena politica europea. Paesi come l’Ungheria e la Slovacchia hanno già rotto le fila dell’orientamento atlantista delle potenze europee dominanti. In altri paesi, alcune forze politiche si muovono in una direzione simile (Germania, Austria, Romania, Repubblica Ceca, Italia).

Ciò che l’imperialismo europeo difende non sono le vite e le case dei popoli europei, ma i profitti delle sue multinazionali e le ambizioni imperialiste predatorie delle sue classi dirigenti capitaliste. La Russia è un rivale del capitalismo tedesco nell’Europa orientale e centrale. La Russia è un rivale dell’imperialismo francese in Africa.

La crisi prolungata del capitalismo europeo significa che, una volta rimossa la protezione degli Stati Uniti, esso non sarà in grado di reggersi da solo. Rischia di essere spartito tra gli interessi rivali di Stati Uniti, Russia e Cina. Le tendenze centrifughe stanno diventando sempre più forti, poiché ogni classe capitalista inizia ad affermare i propri interessi nazionali. Non è affatto escluso che queste tendenze portino alla fine alla disgregazione dell’Unione Europea.

L’economia mondiale: dalla globalizzazione alle guerre commerciali e al protezionismo

L’introduzione di dazi ad ampio raggio da parte di Trump il 2 aprile ha segnato una svolta nell’economia mondiale. Ma il processo di rallentamento della globalizzazione e di passaggio al protezionismo erano iniziati prima.

La recessione mondiale del 2008 ha rappresentato un punto di svolta nella crisi capitalistica. Nel periodo immediatamente precedente la crisi, l’economia mondiale cresceva di circa il 4% all’anno. Tra la crisi del 2008 e lo shock pandemico del 2020, la crescita è stata solo del 3%. Prima dei dazi di Trump, la tendenza era già intorno al 2%, il tasso di crescita più basso degli ultimi trent’anni.

In realtà, l’economia mondiale non si è mai ripresa dalla recessione del 2008. All’epoca ci fu un massiccio salvataggio delle banche, una misura disperata per salvare il settore finanziario. Gli Stati europei hanno accumulato debiti e deficit di bilancio enormi e sono stati costretti ad attuare misure di austerità. La classe operaia è stata costretta a pagare il prezzo della crisi del capitalismo.

La classe dominante, in preda al panico, ha risposto con un massiccio programma di quantitative easing, l’iniezione di un’enorme quantità di denaro nell’economia e l’abbassamento senza precedenti dei tassi di interesse a zero o addirittura negativi. Tuttavia, ciò non ha prodotto una ripresa, poiché anche le famiglie sono sommerse dai debiti. Senza campi di investimento produttivi nell’industria, l’eccesso di liquidità ha prodotto bolle inflattive nei prezzi delle azioni, nelle criptovalute, ecc.

Le misure di austerità attuate dai governi di tutto il mondo hanno portato a movimenti di massa in tutto il mondo nel 2011: la rivoluzione nel Nord Africa e in Medio Oriente, il movimento Occupy negli Stati Uniti, il movimento degli “indignados” in Spagna, il movimento di piazza Syntagma in Grecia, ecc.

Questo rifletteva un crescente malcontento contro il sistema capitalista che stava facendo pagare alla classe operaia le misure di salvataggio delle banche e che ha portato al discredito di tutte le istituzioni borghesi. Questo cambiamento di coscienza – come abbiamo visto – ha trovato un’espressione politica nell’ascesa di un nuovo tipo di riformismo di sinistra intorno al 2015: Podemos, Syriza, Corbyn, Mélenchon, Sanders e i “governi progressisti” in America Latina.

Le masse sono state attratte da questi ultimi per la loro opposizione apparentemente radicale all’austerità. Questo processo si è concluso quando sono stati messi a nudo i limiti del riformismo: con il tradimento del governo di Syriza in Grecia, il sostegno di Sanders alla Clinton, il crollo del corbynismo e l’ingresso di Podemos in un governo di coalizione in Spagna.

Nei Paesi dominati dall’imperialismo, abbiamo assistito a sollevamenti e insurrezioni di massa (a Porto Rico, Haiti, Ecuador, Cile, Sudan, Colombia, ecc.) Anche le mobilitazioni di massa durante la lotta per la repubblica in Catalogna nel 2017 e nel 2019 facevano parte di questa stessa tendenza generale.

La mancanza di una direzione, tuttavia, ha fatto sì che nessuna di esse si sia conclusa con il rovesciamento del capitalismo, che sarebbe stato possibile.

La pandemia COVID-19 del 2020 ha rappresentato uno shock esterno per l’economia in un momento in cui si stava già avviando verso una nuova recessione (non essendosi mai ripresa completamente dalla crisi del 2008). Questo ha spinto definitivamente l’economia mondiale oltre il limite.

Ancora una volta, in preda al panico, la classe dominante ha fatto ricorso a misure disperate per evitare un’esplosione sociale. Nei Paesi a capitalismo avanzato, i lavoratori sono stati pagati dallo Stato per restare a casa, con un costo enorme per le finanze pubbliche, già appesantite dal debito della crisi precedente.

Negli ultimi 15 anni, i ripetuti tentativi di rilanciare l’economia mondiale iniettando massicce quantità di liquidità nel sistema attraverso il quantitative easing, i tassi d’interesse abbassati a livelli record (2009-21) e altre simili misure dettate dal panico hanno terribilmente fallito nel raggiungimento di una crescita economica sostanziale. I capitalisti, nonostante la pioggia di denaro, non hanno investito.

Il fattore chiave è che i capitalisti hanno bisogno di un mercato in cui vendere i loro prodotti per realizzare profitti. L’accumulo massiccio di debiti significa che le famiglie e le imprese non sono in grado di aumentare il consumo.

L’indebitamento congiunto di famiglie, Stati e imprese ha raggiunto circa 313.000 miliardi di dollari, pari al 330% del PIL mondiale, rispetto ai 210.000 miliardi di dollari di dieci anni fa.

Il debito è il riflesso del fatto che i limiti del sistema sono stati portati al punto di rottura e ora agisce come un’enorme barriera a qualsiasi ulteriore sviluppo. La combinazione di alti livelli di debito statale e tassi di interesse più elevati ha già portato una serie di Paesi dominati oltre il limite. Altri ne seguiranno.

La pandemia ha avuto anche un impatto sulla coscienza, rivelando l’incapacità del sistema capitalistico del profitto privato di affrontare un’emergenza sanitaria, e come i profitti vengano prima della vita umana per i colossi farmaceutici.

Negli anni ‘90 e ‘00 si è registrata una certa crescita dell’economia mondiale, anche se il tasso di crescita è stato sostanzialmente inferiore a quello del boom postbellico del 1948-1973, quando ci fu un significativo sviluppo delle forze produttive. Questa crescita economica si è basata sull’espansione del credito e sulla “globalizzazione”. Ciò ha permesso al sistema di superare i suoi limiti, parzialmente e per un periodo di tempo. La globalizzazione ha significato l’espansione del commercio mondiale, l’abbassamento delle barriere doganali, la riduzione dei prezzi dei beni di consumo e l’apertura di nuovi mercati e campi di investimento nei Paesi dominati dall’imperialismo.

Ora, tutti questi fattori si sono trasformati nel loro contrario. L’espansione del credito e della liquidità si è trasformata in una montagna di debiti.

La globalizzazione (l’espansione del commercio mondiale) è stata uno dei principali motori della crescita economica per un intero periodo dopo il crollo dello stalinismo in Russia e la restaurazione del capitalismo in Cina con la sua integrazione nell’economia mondiale. Oggi, invece, ci sono barriere doganali e guerre commerciali tra tutti i principali blocchi economici (Cina, UE e USA), ognuno dei quali cerca di salvare la propria economia a spese degli altri.

Nel 1991, il commercio mondiale rappresentava il 35% del PIL mondiale, una cifra che era rimasta sostanzialmente invariata dal 1974. In seguito ha iniziato un periodo di forte crescita fino a raggiungere un picco del 61% nel 2008. Da allora è rimasto stagnante.

Prima della recente tornata di dazi, il FMI prevedeva che il commercio mondiale sarebbe cresciuto solo del 3,2% all’anno nel medio periodo, un ritmo ben al di sotto del tasso di crescita medio annuo del periodo 2000-2019, pari al 4,9%. L’espansione del commercio mondiale non è più un motore di crescita economica come in passato. Ora l’intero processo si è invertito.

La tendenza al protezionismo, sintomo della crisi del capitalismo, si stava sviluppando già da tempo. Nel 2023, i governi di tutto il mondo hanno introdotto 2.500 misure protezionistiche (incentivi fiscali, sussidi mirati e restrizioni commerciali), il triplo rispetto a cinque anni prima.

Durante la prima presidenza Trump, gli Stati Uniti hanno adottato una posizione protezionistica aggressiva, non solo contro la Cina, ma anche contro l’UE, una politica che è continuata sotto Biden. Biden ha emanato una serie di leggi (il Chips Act, il cosiddetto Inflation Reduction Act, ecc.) e misure volte a favorire la produzione statunitense a scapito delle importazioni dal resto del mondo. Dopo la rielezione di Donald Trump, tutte le tendenze al protezionismo hanno subito una brusca accelerazione e sono sfociate in una guerra commerciale aperta.

L’ascesa del protezionismo e l’introduzione di dazi agiranno come un ulteriore shock sull’economica globale, dopo la pandemia e la guerra in Ucraina. Questo rafforzerà la persistente pressione inflazionistica nell’economica – in aggiunta al finanziamento del deficit, la spesa militare, i cambiamenti demografici e il cambiamento climatico – oltre a contrarre la domanda.

Tuttavia, la situazione economica è molto precaria. Esiste il potenziale per una nuova recessione nel prossimo periodo, e non si può escludere neanche una possibile depressione.

I dazi di Trump

La brusca virata di Trump verso il protezionismo e la guerra commerciale aperta con la Cina sono un sintomo della crisi del capitalismo statunitense. Significa riconoscere che le aziende manifatturiere statunitensi non possono competere nel mercato globale senza l’intervento dello Stato. Allo stesso tempo, il protezionismo è un modo per i Paesi capitalisti rivali di far pagare agli altri Paesi il prezzo della crisi. “Prima l’America” significa necessariamente “tutti gli altri ultimi”.

Con le sue misure protezionistiche ad ampio raggio Trump persegue diversi obiettivi. 1) penalizzare l’importazione di prodotti manifatturieri e quindi riportare i posti di lavoro negli Stati Uniti. 2) Fermare l’ascesa della Cina come rivale economico. 3) Utilizzare i proventi dei dazi per alleviare il deficit di bilancio degli USA, in modo da poter mantenere i tagli alle tasse. 4) Usare I dazi come merce di scambio nei negoziati con altri Paesi per ottenere concessioni politiche ed economiche.

È vero che alcune aziende hanno annunciato investimenti negli Stati Uniti per aggirare i dazi e mantenere l’accesso al mercato statunitense (il più grande mercato di consumatori al mondo). Ma la creazione di nuovi stabilimenti è un processo che richiederà del tempo e qualsiasi guadagno in termini di nuovi posti di lavoro sarà probabilmente compensato dall’impatto a breve termine dei dazi sulle catene di approvvigionamento.

Oggi, dopo 30 anni di globalizzazione, le catene di approvvigionamento sono estremamente estese, con diversi Paesi specializzati in diverse parti del processo produttivo. L’industria automobilistica negli Stati Uniti, in Messico e in Canada è estremamente integrata, con componenti che attraversano i confini più volte prima di essere assemblati in fasi diverse in paesi diversi. Qualsiasi iniziativa volta ad accorciare le linee di approvvigionamento avrà un impatto immediato dirompente sull’economia, che porterà i prodotti a diventare più costosi o addirittura a scarseggiare in alcuni casi. L’incertezza creata dall’uso dei dazi da parte di Trump come strumento di negoziazione ha anche un impatto negativo sulle decisioni di investimento.

Le economie statunitense e cinese sono profondamente interconnesse e dipendenti l’una dall’altra. Per gli Stati Uniti non esiste attualmente un valido sostituto della produzione cinese: i prodotti cinesi sono a buon mercato e di alta qualità. Gli sforzi per escluderli dal mercato statunitense, come perseguito da Trump, probabilmente infliggeranno gravi danni economici molto prima che possa iniziare una qualsiasi rinascita dell’industria manifatturiera americana, se mai questa si concretizzerà.

Qualsiasi tentativo di sciogliere questo rapporto avrà conseguenze negative per l’economia mondiale nel suo complesso. Ricordiamo che dopo il 1929 fu una svolta generale verso il protezionismo a far passare il mondo dalla recessione economica alla depressione. Il volume del commercio mondiale diminuì del 25% tra il 1929 e il 1933 e gran parte di questo fu il risultato diretto dell’aumento delle barriere commerciali.

Per un intero periodo di tempo, la globalizzazione ha permesso al sistema capitalistico di superare parzialmente e temporaneamente i limiti dello stato-nazione. Il protezionismo rappresenta un tentativo di ricacciare le forze produttive negli angusti confini dello stato-nazione, per riaffermare il dominio dell’imperialismo statunitense sugli altri. Come avvertiva Trotskij negli anni ‘30:

Su entrambe le sponde dell’Atlantico si sprecano non poche energie mentali per risolvere il problema grottesco di come ricacciare il coccodrillo nell’uovo di gallina. Il nazionalismo economico ultramoderno è irrimediabilmente condannato dal suo stesso carattere reazionario; ritarda e riduce le forze produttive dell’umanità” (Nazionalismo e vita economica, 1934).

Com’era prevedibile, i dirigenti sindacali di tutto il mondo rispondono al protezionismo schierandosi a fianco delle proprie classi dominanti “in difesa dei posti di lavoro” nei loro Paesi. I comunisti devono sostenere un punto di vista di classe internazionalista e indipendente. Il nemico della classe operaia è la classe dominante, soprattutto la propria in patria, non i lavoratori di altri Paesi.

Di fronte alle chiusure delle fabbriche, dobbiamo promuovere lo slogan dell’occupazione. Invece di ulteriori salvataggi statali di aziende private, chiediamo l’apertura dei libri contabili e la nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori. Se le fabbriche non possono lavorare per il profitto sotto il capitalismo, dovrebbero essere espropriate, riorganizzate e riconvertite per soddisfare scopi socialmente utili, secondo un piano di produzione democratico. Né il libero scambio né il protezionismo sono nell’interesse della classe operaia. Sono solo due diverse politiche economiche con cui la classe dominante cerca di affrontare le crisi del capitalismo. La nostra alternativa è rovesciare il sistema che le provoca.

Crisi di legittimità delle istituzioni borghesi

La crisi del capitalismo, in quanto sistema economico incapace di sviluppare le forze produttive in misura significativa e, di conseguenza, di migliorare il tenore di vita da una generazione all’altra, ha portato a una profonda e crescente crisi di legittimità di tutte le istituzioni politiche borghesi.

Si assiste a un’oscena polarizzazione della ricchezza, con una piccola manciata di miliardari che accresce i propri patrimoni, mentre un numero crescente di proletari ha sempre più difficoltà a sbarcare il lunario e si trova ad affrontare i tagli dell’austerità, il potere d’acquisto dei salari divorato dall’inflazione, l’aumento delle bollette energetiche, la crisi degli alloggi, ecc.

I media, i politici, i partiti politici istituzionali, i parlamenti, la magistratura, tutti sono visti come rappresentanti degli interessi di una piccola élite privilegiata, che prende decisioni per difendere i propri ristretti interessi egoistici piuttosto che mettersi a servizio dei bisogni della maggioranza.

Questo è estremamente significativo, poiché la classe dominante in tempi normali governa attraverso queste istituzioni, che sono generalmente accettate e viste come rappresentanti della “volontà della maggioranza”. Ora ciò viene messo in discussione da settori sempre più ampi della società.

Piuttosto che il normale meccanismo della democrazia borghese, che serve ad attenuare le contraddizioni di classe, l’idea dell’azione diretta per raggiungere i propri obiettivi sta diventando sempre più accettata. Un articolo di Le Monde ha avvertito Macron in Francia che, avere impedito al partito con il maggior numero di parlamentari eletti di formare un governo, rischia di far concludere al popolo che le elezioni non servono a nulla. Negli Stati Uniti, un cittadino su quattro ritiene che la violenza politica possa essere giustificata per “salvare” il Paese, rispetto al 15% dell’anno precedente. A questo proposito, è importante sottolineare l’aumento delle tendenze terroristiche negli Stati Uniti. Nel giro di pochi mesi, abbiamo assistito all’omicidio dell’amministratore delegato della United Healthcare da parte di Luigi Mangione, come segno di denuncia degli abusi delle grandi compagnie sanitarie private, all’omicidio di due dipendenti dell’ambasciata israeliana a Washington da parte di un attivista filopalestinese e all’omicidio di una deputata democratica e di suo marito in Minnesota, nonchè a un altro attacco, lo stesso giorno, contro un senatore democratico, sempre in Minnesota. Questi ultimi sono stati commessi da fanatici di destra. Questo fenomeno ricorrente di terrorismo politico negli Stati Uniti esprime il profondo malcontento e le enormi contraddizioni che stanno scuotendo la società americana.

L’ascesa dei demagoghi anti-establishment è un’indicazione di questa erosione della legittimità della democrazia borghese e delle sue istituzioni. In passato, quando un governo di destra veniva screditato, veniva sostituito da un governo di “sinistra” socialdemocratico, e quando questo veniva screditato, veniva sostituito da un governo conservatore. Questo non è più un processo automatico.

Al contrario, si assiste a violente oscillazioni a destra e a sinistra, caratterizzate dai media come crescita dell’“estremismo politico”. Ma il rafforzamento degli estremi in politica è solo un modo per esprimere il processo di polarizzazione sociale e politica, che a sua volta è il riflesso di un inasprimento della lotta di classe. Il conseguente crollo del centro politico è ciò che riempie di terrore la classe dominante. Quest’ultima vorrebbe fermarlo con tutti i mezzi a sua disposizione, ma è impossibilitata a farlo.

La ragione di ciò non è difficile da capire. Oggi i governi di destra e di sinistra attuano sostanzialmente le stesse politiche di tagli e austerità. Questo porta a un generale discredito della politica, a un costante aumento dell’astensione e all’emergere di ogni sorta di terzo partito alternativo, spesso di natura effimera. I demagoghi di destra sono stati in grado di capitalizzare l’umore anti-sistema esistente anche a causa dell’incapacità della “sinistra” ufficiale di offrire una vera alternativa.

Le grida dell’establishment liberale borghese sul “pericolo del fascismo” e sulla “minaccia dell’estrema destra” servono a raccogliere consensi per la politica del male minore, l’idea che “dobbiamo tutti unirci per difendere la democrazia”, che dobbiamo “difendere la Repubblica”. Questo in un momento in cui nella maggior parte dei Paesi sono i liberali al potere a portare avanti gli attacchi alla classe operaia, a fomentare il militarismo… e ad attaccare i diritti democratici.

Così, Trump viene definito “fascista” o “autoritario” quando persegue una politica di espulsione di chi non ha la cittadinanza per punire il loro sostegno alla Palestina. Come dobbiamo definire allora i governi dei Paesi europei che hanno vietato e represso brutalmente le manifestazioni a favore della Palestina? Cosa dobbiamo dire quando in Germania e in Francia chi non ha la cittadinanza viene arrestato ed espulso per aver sostenuto la Palestina?

I liberali usano i tribunali per attuare misure del tutto antidemocratiche, per impedire ai politici che non gradiscono di candidarsi alle elezioni (come la Le Pen in Francia) o, come nel caso della Romania, per annullare le elezioni quando non gradiscono il risultato! E poi si voltano e invocano “l’unità in difesa della democrazia” e un “cordone sanitario contro l’estrema destra”.

Si tratta di una politica criminale, che di fatto serve ad aumentare il sostegno ai demagoghi di destra che possono così dire: “Vedete, destra e sinistra, sono tutti uguali”.

I comunisti combatteranno qualsiasi misura reazionaria contro gli interessi della classe operaia e contro i diritti democratici, ma sarebbe fatale essere visti in qualche modo come sostenitori della “democrazia” in generale (che significa sostegno allo Stato capitalista) o confondersi con i liberali quando attaccano i demagoghi di destra.

In realtà, il fascino dei demagoghi di destra rivelerà sempre il suo carattere illusorio nella misura in cui entrerà in conflitto con la situazione reale. Trump è già al potere negli Stati Uniti. Ha fatto molte promesse. Sta cavalcando le aspettative di milioni di persone che pensano che egli stia davvero per “fare di nuovo grande l’America”. Ma questa è una pia illusione. Per la classe operaia, rendere l’America di nuovo grande significa avere un lavoro dignitoso e ben retribuito. Significa poter arrivare alla fine del mese senza essere costretti a fare due o tre lavori diversi o arrivare a vendere il plasma sanguigno.

Negli Stati Uniti milioni di persone si illudono fortemente che Trump riporterà i “bei tempi andati” del dopoguerra. Se c’è una cosa certa è che questo non accadrà. La crisi del capitalismo esclude oggi un ritorno all’età dell’oro del boom postbellico o ai ruggenti anni ‘20.

Non è escluso che, per un breve periodo di tempo, alcune di queste misure – ad esempio i dazi che promuoveranno lo sviluppo industriale negli Stati Uniti a scapito di altri Paesi – possano avere un piccolo impatto. Molti concederanno a Trump il beneficio del dubbio per un certo periodo di tempo. Potrà anche usare l’argomento che è l’establishment, il ”deep state”, a non permettergli di portare avanti le sue politiche.

Tuttavia, una volta che la realtà si sarà fatta strada e queste illusioni saranno state dissipate, il profondo stato d’animo anti-sistema che ha spinto Trump al potere porterà a un brusco spostamento verso il lato opposto dello spettro politico. Potremmo assistere a un’oscillazione altrettanto brusca e violenta del pendolo verso sinistra.

C’è un articolo di Trotskij, intitolato Se l’America diventasse comunista, in cui parla del temperamento americano che descrive come “energico e violento”: “Sarebbe contrario alla tradizione americana fare un grande cambiamento senza scegliere da che parte stare e senza spaccare qualche testa”.

Il lavoratore americano è pratico e chiede risultati concreti. È pronto ad agire per portare a termine le cose. Farrell Dobbs, il leader del grande sciopero dei Teamsters di Minneapolis del 1934, passò direttamente da repubblicano a leader trotzkista. Nel suo resoconto dello sciopero, spiega perché. Per lui, i trotskisti erano quelli che offrivano le soluzioni più pratiche ed efficaci per affrontare i problemi dei lavoratori.

Una situazione esplosiva: la radicalizzazione dei giovani

La verità è che la situazione mondiale è gravida di potenzialità rivoluzionarie. L’ondata insurrezionale del 2019-2020 è stata parzialmente interrotta dalle chiusure pandemiche del COVID-19, ma le condizioni che l’hanno scatenata non sono scomparse. Nel 2022, la rivolta in Sri Lanka ha fatto cadere il presidente e le masse sono entrate nel palazzo presidenziale. Nel 2023, gli scioperi di massa contro la controriforma delle pensioni in Francia hanno messo alle corde il governo. Nel 2024, le masse in Kenya, guidate dalla gioventù rivoluzionaria, hanno preso d’assalto il parlamento e costretto al ritiro della legge finanziaria. In Bangladesh, un movimento della gioventù studentesca che ha dovuto affrontare una brutale repressione ha portato a una rivolta a livello nazionale e al rovesciamento dell’odiato regime di Hasina.

Una caratteristica comune a tutti questi movimenti è il ruolo di primo piano svolto dai giovani. Chiunque abbia meno di 30 anni ha vissuto tutta la sua vita politicamente cosciente in una situazione segnata dalla crisi del 2008, dalla pandemia COVID-19, dalla guerra in Ucraina e dal massacro di Gaza.

Più recentemente abbiamo assistito a significativi movimenti di massa in Turchia, Serbia e Grecia. Nel caso della Grecia, la furia contro l’insabbiamento del disastro ferroviario di Tempi e la rabbia accumulata per l’impoverimento di massa, prodotto dall’austerità permanente e la profonda impasse del capitalismo greco, hanno portato a un massiccio sciopero generale e alle più grandi manifestazioni di protesta nel Paese dalla caduta della dittatura. Il carattere massiccio dello sciopero generale, che ha coinvolto non solo la classe operaia ma anche altri strati della società (piccoli negozianti, ecc.), mostra i reali rapporti di forza nella moderna società capitalista. Quando la classe operaia si muove, può trascinare dietro di sé tutti gli strati oppressi.

In Serbia, il movimento di protesta per il crollo della pensilina ella stazione di Novi Sad ha creato una crisi rivoluzionaria, con la più grande manifestazione di protesta nella storia del Paese. Gli studenti hanno svolto un ruolo decisivo, occupando le università e organizzando plenum studenteschi (assemblee) e stanno coscientemente cercando di estendere il movimento alla classe operaia e al popolo in generale con la formazione di zborovi, assemblee di massa nelle città e in alcuni luoghi di lavoro. Il movimento dura da oltre nove mesi e tutti i tentativi del regime di Vučić di fermarlo si sono ritorti contro di lui, fornendo ulteriore carburante al movimento per continuare.

Entrambi questi movimenti mettono in luce due caratteristiche fondamentali della situazione attuale: da un lato l’enorme forza potenziale della classe operaia e il suo peso sociale dominante, dall’altro l’estrema debolezza del fattore soggettivo.

Oltre a ciò, settori della gioventù si sono radicalizzati su questioni di diritti democratici, il movimento di massa delle donne contro la violenza e la discriminazione (Messico, Spagna), per o in difesa del diritto all’aborto (Argentina, Cile, Irlanda, Polonia), per il matrimonio tra persone dello stesso sesso (Irlanda), il movimento di massa contro la brutalità della polizia nei confronti delle persone di colore (Stati Uniti e Regno Unito), ecc.

La crisi climatica è diventata anche un fattore di radicalizzazione per questa generazione di giovani che sentono fortemente, e giustamente, che se le cose non cambiano radicalmente, la vita sulla Terra è minacciata e che la colpa è del sistema.

L’ipocrisia e il doppiopesismo dell’imperialismo riguardo al massacro di Gaza, le cosiddette “regole internazionali” e la repressione poliziesca del movimento di solidarietà con la Palestina hanno aperto loro gli occhi sulla natura dello Stato capitalista, dei media borghesi e delle istituzioni internazionali.

In tutti questi movimenti incontriamo una vasta gamma di idee, tra cui il femminismo, il riformismo, lo stalinismo o il nazionalismo. Il nostro compito è quello di avanzare una posizione di classe, distinguendosi nettamente in un mare di confusione piccolo-borghese. Ma questa è sempre una questione concreta, che parte dalle idee che incontriamo, così come dai compiti e dalle questioni sollevate dal movimento stesso. A seconda delle circostanze, di solito iniziamo in modo amichevole, partendo dagli argomenti su cui concordiamo, per poi evidenziare l’inadeguatezza delle soluzioni proposte, collegandoci ai compiti più ampi della lotta per il socialismo. Come affermò Lenin nell’aprile 1917: “dare una spiegazione paziente, sistematica e persistente degli errori delle loro tattiche, una spiegazione particolarmente adatta alle esigenze pratiche delle masse“.

Allo stesso tempo, è chiaro che un settore crescente della gioventù si identifica con le idee comuniste come l’alternativa più radicale contro il sistema capitalista e può essere raggiunta direttamente con il nostro programma completo. Non si tratta di una maggioranza, nemmeno tra i giovani, ma certamente si tratta di uno sviluppo significativo.

Il crollo dello stalinismo è ormai alle spalle da 35 anni, quindi per questa generazione la propaganda della classe dominante sul “fallimento del socialismo” ha ben poco significato. Ciò che li preoccupa e di cui hanno sofferto direttamente è il fallimento del capitalismo!

Crisi della direzione

Nel mondo si sta accumulando materiale combustibile. La crisi del sistema capitalistico in tutte le sue manifestazioni ha provocato una rivolta rivoluzionaria dopo l’altra. Il cosiddetto ordine mondiale liberale, che ha plasmato il mondo per decenni, si sta sgretolando sotto i nostri occhi. La svolta verso il protezionismo e le guerre commerciali sta creando enormi turbolenze economiche.

La domanda che dobbiamo porci non è se ci saranno movimenti rivoluzionari nel periodo che si apre davanti a noi. Questo è certo. La domanda è se questi si concluderanno con una vittoria della classe operaia.

Negli ultimi 15 anni abbiamo assistito a numerosi movimenti rivoluzionari e insurrezioni. Questi hanno dimostrato l’enorme forza rivoluzionaria e il potere delle masse una volta che si sono messe in movimento. Sono state in grado di superare repressioni brutali, stati di emergenza, blackout informativi e i regimi più repressivi. Ma, alla fine, nessuno di loro ha portato la classe operaia al potere.

Ciò che è mancato, in ogni singola occasione, è stata una direzione rivoluzionaria in grado di portare il movimento alla sua logica conclusione. La rivoluzione araba del 2011 si è conclusa con regimi repressivi bonapartisti (Egitto, Tunisia) o, peggio ancora, con guerre civili reazionarie (Libia e Siria). La rivolta cilena è stata incanalata nuovamente nel canale sicuro del costituzionalismo borghese. Anche la rivoluzione sudanese è finita in una guerra civile del tutto reazionaria.

Trotskij scrisse nel Programma di Transizione che “la crisi storica dell’umanità si riduce alla crisi della direzione rivoluzionaria”. Le sue parole sono oggi più vere che mai. Il fattore soggettivo – cioè un’organizzazione di quadri rivoluzionari radicati nella classe operaia – è estremamente debole rispetto ai compiti colossali posti dalla storia. Per decenni abbiamo lottato controcorrente e siamo stati respinti da potenti correnti oggettive.

Ciò significa inevitabilmente che le prossime crisi rivoluzionarie non saranno risolte nel breve periodo. Pertanto, ci troviamo di fronte a un periodo prolungato di alti e bassi, di avanzamenti e di sconfitte. Ma attraverso tutti questi processi, la classe operaia imparerà e la sua avanguardia si rafforzerà. Finalmente la marea della storia comincia a scorrere nella nostra direzione e saremo in grado di nuotare con la marea, non contro di essa.

Il nostro compito è partecipare, fianco a fianco con le masse della classe operaia, e collegare il programma già definito della rivoluzione socialista con il desiderio ancora incompiuto degli elementi più avanzati di un cambiamento rivoluzionario fondamentale.

La fondazione dell’Internazionale Comunista Rivoluzionaria nel 2024 è stato un passo molto importante e non dobbiamo sottovalutare ciò che abbiamo ottenuto: un’organizzazione internazionale saldamente basata sulla teoria marxista. Nell’ultimo periodo i nostri numeri sono cresciuti in modo significativo. Tuttavia, dobbiamo mantenere il senso della misura: le nostre forze sono ancora del tutto inadeguate rispetto ai compiti che ci attendono.

La debolezza del fattore soggettivo significa inevitabilmente che nel prossimo periodo la radicalizzazione delle masse si esprimerà nell’ascesa e nella caduta di nuove formazioni e leader riformisti di sinistra. Alcune di esse potranno anche utilizzare un linguaggio molto radicale, ma tutte si scontreranno con i limiti fondamentali del riformismo: la loro incapacità di porre la questione fondamentale del rovesciamento del sistema capitalistico e dell’ascesa al potere della classe operaia. Per questo motivo il tradimento è insito nel riformismo. Tuttavia, per un certo periodo di tempo, alcune di queste formazioni e leader susciteranno entusiasmo e otterranno un sostegno di massa.

È necessario un senso di urgenza nella costruzione dell’organizzazione ovunque. Non sarà la stessa cosa avere 100, 1.000 o 10.000 militanti quando le rivolte di massa scoppieranno di nuovo. Se fosse stata presente un’organizzazione di 1.000 quadri formati all’inizio della rivoluzione bolivariana in Venezuela, o un’organizzazione di 5.000 quadri con radici nella classe operaia quando Corbyn aveva conquistato la direzione del Partito Laburista nel Regno Unito, avrebbero potuto trasformare la situazione. Come minimo, con una politica e un approccio corretto al movimento di massa, avrebbero potuto crescere fino a diventare una forza significativa all’interno del movimento operaio, diventando un punto di riferimento per strati più ampi.

Nelle giuste condizioni, nel vivo degli eventi, anche un’organizzazione relativamente piccola può trasformarsi in una molto più grande e lottare per conquistare la direzione delle masse. Questo avverrà in futuro. Il compito ora è il paziente lavoro di reclutamento e soprattutto di formazione ed educazione dei quadri, in particolare tra i giovani lavoratori e gli studenti.

Un’organizzazione saldamente radicata nelle masse e armata con la teoria marxista sarà in grado di rispondere rapidamente ai rapidi cambiamenti della situazione. Ma una direzione rivoluzionaria non può essere improvvisata quando scoppiano gli eventi rivoluzionari, deve essere preparata in anticipo. Questo è il compito più urgente che dobbiamo affrontare oggi. Dal nostro successo o dal nostro fallimento dipenderà, in ultima analisi, l’intera situazione. Questa idea deve essere la principale forza motrice di tutto il nostro lavoro, sacrificio e sforzo. Con la necessaria determinazione e perseveranza, possiamo riuscirci e ci riusciremo.

Documento approvato il 3 agosto 2025 dal Primo congresso dell’Internazionale Comunista Rivoluzionaria

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