Bonfiglioli, la lotta paga
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28 Aprile 2015Dal 30 marzo l’Arabia saudita, a capo di una coalizione di stati arabi, ha lanciato un attacco aereo contro i ribelli Houthi, di religione sciita. La missione che ha come obiettivo formale la protezione della popolazione yemenita, vede coinvolti oltre 100 jet da combattimento sauditi e 100mila uomini che si sono schierati a ridosso del confine settetntrionale yemenita.
Le altre monarchie del Golfo, eccetto l’Oman, forniscono aerei mentre l’Egitto, pur dichiarando la sua adesione, non ha ancora partecipato attivamente agli attacchi.
“É una guerra per proteggere la popolazione dello Yemen e il suo governo legittimo contro un gruppo sostenuto dall’Iran e da Hezbollah” ha dichiarato l’ambasciatore saudita negli Usa. Dunque, un intervento per tutelare gli interessi di Riyadh nei confronti del suo rivale storico, l’Iran. Interessi a rischio dopo che sull’impatto delle rivoluzioni tunisina ed egiziana, nel 2011 le masse avevano rovesciato Saleh, dittatore fedele alleato della monarchia wahabita.
I ribelli Houthi, con la loro propaganda antiimperialista e contro la povertà endemica nel paese si sono fatti largo in maniera piuttosto facile in mezzo alla corruzione dilagante portata avanti anche dal nuovo presidente, Hadi. La conquista della capitale Sana’a e la minaccia della presa di Aden, porto strategico per l’accesso al canale di Suez, era decisamente troppo. Tuttavia pensare che solo attraverso i bombardamenti aerei si potranno fermare i ribelli è una pia illusione. La necessità di un intevento di terra si imporrà, provocando ulteriori escalation del conflitto.
Quello che vediamo nella regione è un cambiamento epocale dei rapporti di forza e addirittura dei confini dei paesi stessi. La ragione fondamentale è il declino della forza dell’imperialismo Usa, che paga con gli interessi la sconfitta della sua politica interventista.
Il fallimento di Washington
La mappa del conflitto in Yemen (aggiornata a fine marzo 2015)
Gli equilibri nella regione sono stati infatti stravolti dall’intervento Usa in Iraq. La distruzione dello stato centrale e la divisione de facto in tre parti del paese ha rafforzato oggettivamente l’Iran, che si sentiva finalmente libero di intervenire nella regione.
Tuttavia, la Repubblica islamica non è stata l’unica a disporre di maggiori margini di manovra successivamente al ritiro degli Stati uniti. In ogni epoca storica, quando gli imperi si avviano verso il crepuscolo sono i vassalli che guidano le forze centrifughe della loro stessa disintegrazione.
L’avanzata dello stato islamico, scissione di Al qaeda, sostenuto per anni dai sauditi, ha avuto un effetto destabilizzante, cambiando i confini di Siria e Iraq. Ha costretto Washington a ripensare almeno parzialmente, ad alleanze e strategie. I nemici di un tempo ora non lo sono più. Di qui la tregua, nei fatti, con la Siria e l’accordo sul nucleare con l’Iran.
Un accordo perseguito per anni, da siglare entro il 30 giugno, ma che sarebbe illusiorio pensare che rappresenti una speranza per la pace. L’Iran deve ridurre il suo programma di sviluppo nucleare, ma le potenze che dispongono realmente delle armi nucleari, come Israele e Pakistan, non vi rinunceranno. Che poi l’occidente rimuova le sanzioni contro l’Iran è tutto da verificare.
Le pressioni di Israele e dei Sauditi si faranno sentire pesantemente su Obama.
Arabia saudita ed Iran
Il ruolo sempre più indipendente di Israele e Arabia saudita ha basi oggettive. Israele non dipende più come un tempo dagli aiuti Usa, che rispetto al 20-30% dei primi anni duemila, nel 2014 sono scesi al 2% del Pil israeliano (fonte: the guardian.com). La classe dominante israeliana non può tollerare un rafforzamento del suo nemico principale nella regione e per contrastarlo non disdegna la cooperazione con Al Nusra in Siria contro Hezbollah. Inoltre usa l’Iran come spauracchio a fini di propaganda interna: la recente affermazione elettorale di Netanyahu, che ha messo al centro la questione della sicurezza nella sua campagna, ne è una riprova.
L’Arabia saudita fino all’inizio degli anni novanta era il principale esportatore di petrolio negli Stati uniti. Ora non è più così: gli Usa sono diventati concorrenti diretti. La conseguenza non è solo una minaccia ai profitti sauditi ma anche al loro ruolo politico sulla scena mondiale. La risposta di Riyadh è economica, con la guerra al ribasso del prezzo del petrolio e anche militare come vediamo nell’ultimo periodo.
Anche in Turchia ed Egitto i rispettivi governi hanno aspirazioni da potenza regionale. Al Sisi è pienamente coinvolto nella crisi libica e considera la Cirenaica come un estensione naturale del territoriio egiziano. Erdogan non può tollerare qualsiasi ipotesi di maggiore autonomia o addirittura di indipendenza della nazione curda e per impedirle non esita un appoggio indiretto allo stato islamico, facendo transitare armi e uomini dal suo territorio.
Questa situazione di conflitto permanente e totale, che sembra sempre più assumere i contorni del “tutti contro tutti” in cui alleanze e schieramenti cambiano rapidamente, non deve farci dimenticare i processi fondamentali che stanno alla radice. Tutti i paesi della regione sono in una situazione di crisi il cui detonatore sono state le rivoluzioni e i movimenti di massa del 2011: in poche parole dall’irruzione della lotta di classe. Rivoluzioni che hanno rovesciato dittature decennali, come quelle di Mubarak, Ben Alì e Saleh e hanno fatto tremare tutti i governi della regione.
A una minaccia concreta per la propria stessa esistenza le classi dominanti hanno risposto con il sangue, il terrore e la guerra civile. Un vera e propria discesa negli inferi della barbarie che non ha risolto nulla, anzi. I rapporti politici, sociali ed economici sono stati esacerbati e portati al limite estremo.
Nei paesi chiave dell’area, come la Turchia, l’Egitto, l’Iran e Israele la situazione è di polarizzazione estrema; la clase operaia è stata temporaneamente stordita e piegata ma nient’affatto spezzata. I rivoluzionari devono prepararsi a una nuova esplosione delle lotte, che stavolta non dovranno avere solo l’obiettivo del rovesciamento di un dittatore, ma dell’intero sistema.