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26 Febbraio 2020Il settimanale “the Economist”, uno dei più prestigiosi a livello mondiale, in prima di copertina raffigura un pianeta che indossa la mascherina e titola “Quanto sarà pesante?”. L’editoriale è ancora più esplicito: “Rallentamento virale”.
Il Coronavirus non spaventa solo per il timore di una pandemia globale, ma anche per il pericolo di una recessione economica mondiale. Alcuni paragonano gli effetti del Coronavirus con quelli della Sars nel 2003, ma diciassette anni fa il ruolo della Cina nell’economia internazionale era ben diverso. Allora Pechino equivaleva al 4% del Prodotto interno lordo del pianeta, oggi ne vale ben il 16%. Il Pil cinese è cresciuto di ben otto volte dal 2003, ed oggi la Cina è il secondo paese importatore nel mondo.
Nel 2003 l’economia cinese cresceva a ritmi sostenutissimi, oltre il 10%; nel 2019 la crescita è stata del 6,1% (il livello più basso degli ultimi 29 anni). La scorsa settimana la Deutsche Bank prevedeva che bel primo trimestre di quest’anno il Pil cinese diminuirà dell’1,5%, l’economia mondiale dello 0,5%.
Tali dati sono destinati a peggiorare, perché gli indicatori economici del gigante asiatico erano già in declino. Come spiega il Corriere economia (3 febbraio) “Nel solo mese di dicembre, gli utili delle principali imprese industriali sono diminuiti del 6,3% rispetto al 2018.”
La regione attorno a Wuhan è la sede di importanti aziende per la componentistica dell’automobile. Oggi sono alla paralisi, e ciò ha comportato la chiusura di tutti gli stabilimenti Volkswagen in Cina fino al 17 febbraio e al blocco di quelli Hyundai in Sudcorea. Anche Fca potrebbe subire pesanti ripercussioni. Per la prima volta dal 2009, la produzione mondiale di greggio subirà un calo nel primo trimestre 2020, causato dal crollo del 20% della domanda da parte della Cina.
Il Coronavirus è dunque quel fatto accidentale che, inserendosi in un’economia già debilitata (e minacciata dalla guerra dei dazi), potrebbe farla piombare in una recessione.
Gli effetti politici del Coronavirus in Cina potrebbero essere ancora più deflagranti. L’epidemia sta infatti mettendo in luce le modalità spietate con cui il regime tratta il dissenso. L’oftalmologo Li Wenliang aveva avvertito fin dall’inizio di gennaio dei pericoli del virus. Denunciato dal regime, è stato poi riabilitato, ma era ormai troppo tardi: Li è morto, dopo essere stato infettato, il 6 febbraio scorso. L’emozione in Cina è stata fortissima. Il giorno della morte di Li, l’hashtag #IwantFreedomOfSpeech ha raggiunto i 2 milioni di click in poche ora su WeiBo (il principale social cinese) per poi essere cancellato dalle autorità.
Pechino ha scaricato tutte le responsabilità dei ritardi sul governo del Wuhan, rimuovendo i principali dirigenti locali. Ma potrebbe non bastare. Almeno 60 milioni di cinesi sono oggi in quarantena e il governo ha dimostrato di non essere in grado di proteggerli pienamente dal virus. Domani potrebbe dimostrare di non essere in grado di proteggerli dalla crisi economica. E allora il proletariato cinese esigerà che a saltare siano teste ben più importanti del sindaco di Wuhan.
18 febbraio 2020
(da Rivoluzione n.66)