Rivoluzione n° 54
20 Marzo 2019Bernie Sanders 2020 – “Per una rivoluzione contro la classe miliardaria”
22 Marzo 2019Negli ultimi anni la questione delle grandi opere è stata sempre più al centro della scena politica. Sull’onda del movimento No Tav in val Susa, non solo simbolo delle lotte ambientaliste ma anche di interi settori della sinistra, abbiamo visto il proliferare di comitati, movimenti e mobilitazioni che hanno assunto carattere di massa nei vari territori.
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Basti ricordare la manifestazione contro il progetto di trivellazione di Ombrina Mare in Abruzzo con 60 mila persone in piazza, le mobilitazioni No Tap, il corteo di Potenza con oltre 10 mila persone contro le trivelle, cui devono aggiungersi le tante altre manifestazioni locali che non sono giunte agli onori della cronaca. Sono decine, se non centinaia i comitati che ogni giorno si costituiscono in ogni angolo della penisola contro l’imposizione di grandi opere e ci sono stati anche parecchi tentativi di unire le varie realtà a livello nazionale. L’obiettivo di questo documento non è quello di fare l’elenco di tutte le vertenze esistenti, ma di provare a capire qual è il filo che le collega una all’altra e approfondire gli aspetti politico-economici legati alla questione ambientale.
Il governo giallo-verde
La questione delle grandi opere e dell’ambiente ha toccato anche importanti appuntamenti elettorali nazionali. Possiamo ricordare i referendum contro il nucleare e per l’acqua pubblica del 2011, che hanno visto un successo dei movimenti e dato una bella spallata al governo Berlusconi, ma anche il referendum sulle trivelle del 2016 che, nonostante il mancato raggiungimento del quorum, ha visto migliaia di assemblee pubbliche in tutta Italia e milioni di persone recarsi alle urne con un chiaro obbiettivo.
Proprio attorno a queste tematiche il Movimento 5 Stelle è riuscito a conquistare consensi e anche ad ottenere la fiducia di molti attivisti ambientalisti. Fiducia che però è stata delusa fin dai primi giorni del nuovo “governo del cambiamento”. In primis la questione del gasdotto Tap, cavallo di battaglia del M5S. “Bloccheremo il progetto in 15 giorni” tuonavano Di Battista e i vertici grillini durante la campagna elettorale di fronte a migliaia di salentini. Una volta al governo hanno però dato il via libera al progetto, utilizzando la giustificazione della presenza di penali in caso di blocco dei lavori. Una scusa davvero patetica, che dimostra tutta l’inconsistenza dell’approccio legalitario grillino: una “battaglia contro i poteri forti” che rispetta le clausole e le penali imposte da quegli stessi poteri forti, non è altro che una grande presa in giro.
Stesso discorso vale per il decreto Genova, dove usando la scusa dell’emergenza è stato infilato un provvedimento ad hoc per consentire lo sversamento nei terreni agricoli di fanghi contaminati da idrocarburi, diossine e altri sostanze nocive. E anche sul terzo Valico dell’alta velocità in Liguria, cavallo di battaglia dei pentastellati liguri, c’è stato un grande dietrofront, quando Toninelli ha assicurato che l’opera sarebbe andata avanti.
Anche la questione dei rifiuti è stata oggetto di conflitto all’interno della maggioranza, con le uscite di Salvini per rilanciare gli inceneritori. Ma è sulla questione delle trivelle e del Tav in Val Susa che si è prodotto il più grande scontro interno al governo. Sulle trivelle c’è stato uno dei soliti tira e molla, in cui il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha anche minacciato le dimissioni, e alla fine si è arrivati ad un accordo temporaneo, che prevede una sospensione di 18 mesi per i permessi di ricerca. Un compromesso che non mette in seria discussione l’intero progetto nazionale di ricerca ed estrazione di idrocarburi e non ferma nemmeno le trivellazioni già in corso. L’ ennesima “foglia di fico” che non fa altro che rinviare il problema e dimostrare la totale incapacità di mantenere le promesse elettorali di fronte agli interessi delle multinazionali del petrolio e del gas.
Sul Tav il M5S è passato rapidamente dal No Tav alla “analisi costi-benefici” contenuta nel contratto di governo. Sebbene l’analisi sia risultata negativa, gli alleati di governo della Lega non l’hanno accettata e sono in prima fila nel fronte Si Tav. Proprio attorno a questa contraddizione si è inserito anche il tentativo di Confindustria, Pd, Lega e Forza Italia di organizzare cortei per dire sì alle grandi opere. La manifestazione delle madamine per il “Sì Tav”, il 10 novembre 2018 a Torino, ha ricordato la marcia dei colletti bianchi contro gli scioperi alla Fiat nel 1980. Un chiaro tentativo di innalzare il livello dello scontro, che però ha avuto l’effetto di riportare in piazza decine di migliaia di persone per il “No Tav” al corteo dell’8 dicembre, con una partecipazione che non si vedeva da anni.
La questione del Tav rimarrà dunque centrale nel dibattito politico del prossimo periodo. Sulla capacità dei 5 Stelle di resistere alle pressioni è lecito nutrire più di un dubbio, visti tutti i precedenti in cui hanno capitolato alla Lega, ma non si può escludere che una crisi di governo possa verificarsi proprio sul Tav. D’altronde anche i precedenti governi avevano messo in cima alle loro priorità le grandi opere, al punto che il governo Renzi aveva voluto una legge apposita, conosciuta come “Sblocca Italia”.
Il PD e il decreto Sblocca Italia
Con lo Sblocca Italia il governo Renzi spianava la strada alle multinazionali dell’energia, incentivava gli inceneritori e faceva concessioni importanti sulle autostrade. Dava anche il via a molte grandi opere, cui venivano destinate enormi risorse finanziarie, quasi 4 miliardi di euro.
Nella sua versione originale il decreto facilitava la proroga delle concessioni autostradali, a tutto vantaggio dei Benetton e delle altre società concessionarie. Alla fine questa norma è stata abrogata, in quanto contrastava con tutta la normativa vigente in termini di appalti pubblici e anti-trust, ma nel frattempo ha permesso a Benetton e soci di fare enormi profitti grazie alle proroghe.
Lo Sblocca Italia rilanciava anche gli inceneritori nel settore dei rifiuti. Stabiliva la necessità di 8 nuovi inceneritori per soddisfare il fabbisogno nazionale e il potenziamento di quelli esistenti. Gli inceneritori venivano addirittura definiti “infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale” per consentire di incenerire anche rifiuti speciali pericolosi, provenienti da altre regioni, disincentivando la raccolta differenziata e il riciclo. Questo articolo è stato bloccato dal Tar del Lazio, che ha rimandato la decisione alla Corte di giustizia europea.
Un altro capitolo importante dello Sblocca Italia era quello sull’energia, in cui si spianava la strada alle trivelle in tutta Italia e veniva introdotta una normativa a favore degli interessi dei petrolieri e delle multinazionali del gas, in particolar modo la Snam (Società nazionale metanodotti). In base al testo della legge, i gasdotti e gli impianti di stoccaggio del gas “rivestono carattere di interesse strategico e costituiscono una priorità a carattere nazionale e sono di pubblica utilità, nonché indifferibili e urgenti”. L’interesse strategico nazionale permette al governo di imporre sui territori opere impattanti, togliendo qualsiasi potere decisionale alle regioni e agli enti locali. In questo senso lo Sblocca Italia anticipava il tentativo di riforma del Titolo V della Costituzione, che faceva parte del referendum costituzionale renziano del 2016. Mentre il referendum renziano è stato bocciato, lo Sblocca Italia è rimasto, come abbiamo visto nel caso del gasdotto Tap.
Il riferimento all’interesse nazionale delle grandi opere è anche funzionale a portare avanti la repressione contro chiunque vi si opponga. Una repressione sempre più estesa, come dimostra il caso della Val di Susa. Da anni oramai la valle è completamente militarizzata e non si contano i casi di attivisti No Tav arrestati e condannati in modo arbitrario. Alcuni di loro sono addirittura stati accusati di terrorismo! E la Val Susa non è un caso isolato: abbiamo visto atti repressivi anche in altre vertenze, come quella No Tap.
Nonostante le grandi promesse elettorali, lo Sblocca Italia di Renzi non ha subito ancora la benché minima modifica da parte del nuovo governo. Gli interessi che si celano dietro a questo provvedimento hanno modificato l’animo “guerriero” dei pentastellati.
Grandi opere e debito pubblico
Una domanda importante da porsi è come queste grandi opere vengano finanziate, visti i costi esorbitanti per la progettazione e la costruzione. In questi anni il debito pubblico è sempre stata l’arma dei padroni per attaccare i diritti e smantellare lo stato sociale, oltre che costituire la giustificazione delle varie finanziarie di lacrime e sangue. Magicamente il debito pubblico sparisce quando c’è di mezzo una grande opera.
Uno dei modi più utilizzati per il finanziamento di queste opere è il sistema della finanza di progetto, basata sul partenariato pubblico-privato. Siccome gli enti pubblici non possono investire a causa dei vincoli di bilancio, dettati dall’Unione europea, si affida la concessione ad una società per azioni, ma con capitale pubblico, che a sua volta affida l’esecuzione ad un costruttore privato. Grazie alla garanzia dei fondi pubblici, i privati possono ottenere dagli istituti bancari enormi finanziamenti. Non è un caso che la Banca Europea per gli investimenti in questi anni abbia elargito enormi quantità di denaro per le grandi opere. Con questo giro d’affari il privato viene ripagato per la costruzione e l’opera ritorna alla società iniziale, che a quel punto ripaga i prestiti con gli utili ricavati dalla gestione dell’infrastruttura stessa. Uno dei casi più emblematici è stata la costruzione dell’autostrada Brebemi in Lombardia, che per ripagare i costi ha dei prezzi inaccessibili.
Se gli utili che derivano dalla gestione del servizio sono però insufficienti, allora il debito diventa pubblico, perché a garantirlo è il socio pubblico della società privata. Per la Brebemi, ad esempio, lo Stato è dovuto intervenire per ripagare una buona parte del debito, con un piano di salvataggio di circa 300 milioni di euro. In questo modo il “project financing” è un sistema di garanzie pubbliche e utili privati, in cui è denaro pubblico a ripagare i finanziamenti delle banche, peraltro con tassi di interessi maggiori rispetto a quelli che pagherebbe un ente pubblico. Questo debito non viene conteggiato nei bilanci statali, ma potrebbe, nei prossimi anni, far esplodere una grande bolla. Secondo l’Osservatorio nazionale dei contratti pubblici, il debito nascosto è superiore ai 200 miliardi di euro.
Ci sono poi i “project bond”, obbligazioni emesse da un’impresa per finanziare la realizzazione di grandi opere, il cui rimborso dipende dai flussi di cassa che il progetto è in grado di assicurare. Si può così creare una nuova forma di titoli tossici, con effetti dirompenti sui meccanismi malati della finanza capitalista. Il fallimento di un’opera potrebbe portare allo scoppio di una bolla speculativa. Questo è già avvenuto con il Progetto Castor in Spagna, un progetto di stoccaggio sotterraneo di gas naturale al largo di Valencia, che ha provocato una serie di terremoti indotti ed è quindi stato bloccato. Nel 2014 lo Stato spagnolo ha sborsato 1,3 miliardi di euro per ripagare gli investitori che avevano acquistato i project bond, un costo poi riversato su tutta la popolazione con l’innalzamento delle bollette del gas.
Il sistema di finanziamento delle grandi opere è quindi a tutti gli effetti un furto generalizzato, con la privatizzazione degli utili e la socializzazione delle perdite. Non stupisce affatto che lo Sblocca Italia rilanciasse il sistema dei project bond. Da una parte vengono tagliati i fondi alla pubblica istruzione, alla sanità, allo stato sociale e dall’altra denaro pubblico è utilizzato per garantire enormi profitti ai privati. C’è poi poco da scandalizzarsi se, in questa abbuffata di soldi facili, anche la criminalità organizzata riesce a prendersi la sua fetta, una fetta spesso molto consistente.
Tav, ferrovie e mezzi di trasporto
A questo punto occorre fare un passo indietro e domandarsi se queste grandi opere servano davvero.
Partiamo dal Tav. Si tratta di un’opera faraonica, che prevede una spesa complessiva di più di 20 miliardi e lo sventramento di 57 chilometri di montagna, con impatti devastanti in tutto il territorio della Val Susa, compreso il rischio di contaminazioni di amianto e uranio. Tutto questo per cosa? L’alta velocità Torino-Lione era stata progettata per il trasporto persone ed era parte di un corridoio ferroviario che doveva partire da Lisbona e arrivare a Kiev. La crisi economica e le scelte di molti altri paesi hanno fortemente ridimensionato il corridoio. Per questo, ora, i promotori del Tav parlano di “trasporto merci”, ma le merci non possono viaggiare su alta velocità: anche quando viaggiano sulle linee dell’alta velocità – e si tratta di casi estremamente limitati – i treni merci procedono comunque a velocità ridotta. Di fronte a questa obiezione, sono state nuovamente ribaltate le carte in tavola e il discorso è stato spostato dall’ alta velocità all’ alta capacità; ci raccontano cioè che, grazie al Tav, i tir verranno tolti dalla strada per essere caricati sui treni (le cosiddette “autostrade viaggianti”). Peccato però che una linea ferroviaria che collega Torino a Lione, attraverso il Frejus, esiste già ed è pure una ferrovia ad “alta capacità”, sulla quale le autostrade viaggianti possono transitare regolarmente. Contrariamente a quanto sostenuto nelle previsioni ufficiali, questa linea ferroviaria è tutt’altro che satura. La realtà è che il volume del traffico di merci tra Italia e Francia negli ultimi anni non giustifica affatto la costruzione di una nuova ferrovia. Dal 2001 al 2017 il traffico mercantile terrestre totale tra Italia e Francia è diminuito del 13,2%, mentre il transito di merci su rotaie è addirittura crollato del 72% negli ultimi vent’anni.
In Italia abbiamo semmai ben altre priorità per quanto riguarda il sistema ferroviario. Le ferrovie regionali, a causa dei tagli e delle privatizzazioni degli scorsi anni, sono sul punto del collasso. Basti ricordare la strage di Pioltello nel gennaio 2018, quando a causa dell’usura e della mancanza di manutenzione sui binari, un treno è deragliato provocando 3 morti e 46 feriti. Ci sono milioni di lavoratori pendolari che ogni giorno per andare al lavoro e tornare a casa vivono una vera e propria odissea fatta di ritardi, sovraffollamento, sporcizia e disagi.
Questa situazione di crisi del sistema di trasporto pubblico ha portato all’incremento vertiginoso dell’utilizzo delle auto private, come mezzo di spostamento per andare al lavoro. Secondo il Rapporto 2019 “Mal d’aria” di Legambiente, l’Italia è uno dei paesi europei con il più alto tasso di motorizzazione. Nei capoluoghi italiani ci sono 63 auto ogni 100 abitanti, un dato enorme se confrontato a quello di alcune capitali europee: a Parigi ci sono 36 auto per 100 abitanti come a Londra e a Berlino, a Barcellona 41, a Stoccolma e Vienna 38.
Sempre secondo questo rapporto: “Nel nostro Paese – segnala ASSTRA, l’associazione di categoria delle imprese di trasporto pubblico locale – la rete ferroviaria suburbana e metropolitana dispone di 41 linee ferroviarie contro le 81 della Germania e le 68 del Regno Unito. Le linee di metropolitana sono invece 14, contro le 44 della Germania, le 30 spagnole e le 27 francesi. E così sono i bus il principale mezzo di trasporto collettivo: in Italia assorbono una quota di traffico del 64%, più che doppia rispetto a quella tedesca e inglese, dove invece la mobilità nelle aree metropolitane è garantita prioritariamente dal ferro”. In Italia ci sono in tutto 250 chilometri di metropolitane, estensione paragonabile a quella di singole città europee come Madrid (291,5 km), Londra (464,2), Parigi (221,5) e Berlino (147,5). Secondo Legambiente “Il confronto dei dati nel periodo 2011-2016 mostra come il numero di passeggeri annui sia diminuito costantemente con una riduzione di circa l’11% rispetto al 2011, ovvero si è registrato un calo di 434,5 milioni di passeggeri all’anno che non hanno voluto usufruire più del trasporto pubblico”.
Mentre cala l’attrattività del sistema pubblico locale, aumenta l’utilizzo del mezzo privato, con una forte ricaduta in termini di inquinamento atmosferico, diventato oramai una vera piaga. Nel 2018 sono stati superati i limiti giornalieri previsti per le polveri sottili (Pm10) e per l’ozono (35 giorni per il Pm10 e 25 per l’ozono) in ben 55 capoluoghi di provincia. Secondo lo studio Inemar (Inventario emissioni aria) promosso dalla Regione Lombardia e ARPA Lombardia, è proprio il trasporto su strada la principale fonte di emissioni sia di monossido di carbonio (per il 52,11%) che di Pm10 (44,21%).
Da questi dati possiamo capire che le priorità negli investimenti infrastrutturali dovrebbero riguardare il potenziamento delle reti di trasporto pubblico, il loro ammodernamento e il miglioramento nella qualità del servizio, non grandi opere utili solo a riempire le tasche delle imprese costruttrici.
Al discorso del trasporto privato su gomma è collegato quello del trasporto merci su gomma e della logistica. E’ evidente che per ridurre l’inquinamento è necessario ridurre il trasporto merci su ruota a favore del trasporto merci su rotaia, ma questo non vuole dire Tav, vuol dire investire nella manutenzione, nella messa in sicurezza e nel rafforzamento delle linee ferroviarie esistenti. È significativo che i sostenitori del Si Tav siano gli stessi che sponsorizzano nuove autostrade, che porterebbero solamente all’aumento del traffico su gomma. Quello che conta sono i profitti: le infrastrutture non devono servire a soddisfare le esigenze di milioni di persone, ma far arricchire le aziende e i faccendieri coinvolti negli appalti.
Grandi opere o grandi truffe?
Puntualmente chi si oppone al Tav o altre grandi opere viene accusato di essere contrario alle infrastrutture e al “progresso” in generale, ma in quest’accusa non c’è un briciolo di verità. In Italia ci sarebbe davvero bisogno di un piano urgente di investimenti sulle infrastrutture. Dopo il crollo del Ponte Morandi per qualche giorno si è affacciata sui giornali la verità. Secondo il Centro Nazionale di Ricerca (CNR) sono 10.000 i ponti a fine vita. E che dire delle ferrovie? Su oltre 19.000 chilometri di rete gestita da Rete Ferroviaria Italiana, ben 12.000 sono a binario unico. Il dato sale all’80% per le linee date in concessione. E il dissesto idrogeologico? Secondo Mauro Grossi, già direttore di Italia Sicura, la struttura creata dal governo Gentiloni, “In base alla nostra istruttoria con tutte le regioni italiane, le progettazioni esistenti e a livello di fattibilità preliminare, il fabbisogno totale occorrente è di 31 miliardi e 700 milioni”.
Abbiamo quindi bisogno di mettere in sicurezza l’Italia, ma questi investimenti straordinari non possono essere realizzati, finché miliardi di denaro pubblico vengono sperperati nel Tav e nelle altri grandi opere, che non sono altro che grandi truffe: speculazioni finanziarie a vantaggio di pochi, con danni devastanti all’ambiente e alla salute per tanti. Speculazione tanto più scandalose dal momento che da anni ci ripetono in continuazione che non ci sono i soldi per le scuole, per la sanità, per le pensioni… Come hanno giustamente spiegato i No Tav, con i soldi necessari per soli 3 metri di Alta Velocità si potrebbero allestire 4 sezioni di una scuola materna; con 500 metri di Tav si potrebbe costruire un ospedale da 1200 posti letto; con un chilometro di Tav si potrebbero pagare le tasse universitarie per 250.000 studenti oppure acquistare 55 treni nuovi per i pendolari!
Il business dell’energia
Passiamo poi alle grandi opere del settore energetico: Tap, le trivellazioni nell’Adriatico, gli impianti di stoccaggio, le centrali di compressione del gas, il progetto per il nuovo gasdotto EastMed da Israele alla Puglia… La giustificazione che viene addotta per tutte queste opere è la soddisfazione del fabbisogno energetico nazionale, ma anche in questo caso la verità è un’altra. Il progetto è infatti quello di creare in Italia un “hub del gas” e cioè un sistema di depositi di stoccaggio di metano nel sottosuolo, impianti di rigassificazione in mare per il GNL (gas naturale liquefatto) e metanodotti che percorrono la penisola da nord a sud. In questo modo l’Italia diventerebbe un vero e proprio corridoio energetico funzionale all’esportazione del gas in Europa.
Tutto questo non serve a garantire alla popolazione l’energia di cui ha bisogno, ma risponde alle esigenze delle potenti multinazionali dell’energia e anche a precisi interessi geo-politici, nello specifico la creazione di un canale energetico per l’Europa alternativo a quello della Russia. Lo scontro tra grandi potenze sull’energia è peraltro destinato ad approfondirsi. Con la “rivoluzione” dello shale gas e shale oil attraverso le tecniche di fracking, negli USA la produzione di greggio non convenzionale è aumentata dal 2009 al 2018 da 5 milioni di barili al giorno a 11,9 milioni di barili al giorno. Gli Stati Uniti sono così passati da essere un paese importatore di energia ad avere enormi riserve da esportare, entrando in contrasto con la Russa e i paesi Opec. Il mercato più appetibile per gli shale gas e shale oil americani è proprio l’Europa, che per ora si rifornisce principalmente da Russia e Medioriente. Non c’è dunque un problema di fabbisogno, ma al contrario di sovraproduzione di energia, con i vari paesi in lotta tra loro per accaparrarsi i mercati.
Un altro problema è che l’investimento in questo mastodontico progetto dell’hub del gas, che durerà per i prossimi quarant’anni, non farà altro che perpetuare la dipendenza dalle fonti fossili (carbone, petrolio e gas). Da tempo si fanno grandi discorsi sull’importanza delle fonti di energia alternative, rinnovabili ed eco-sostenibili: stiamo parlando dell’energia solare, dell’eolico, ma non solo; esiste una ricerca in stato avanzato sul cosiddetto “nucleare pulito”, ossia la fusione nucleare, con un enorme potenziale in termini di risorse senza i danni provocati dalla fissione delle attuali centrali nucleari. Eppure a tutte le chiacchiere green sono seguiti ben pochi fatti, come dimostrano i dati sui consumi di energia.
Stando alla Strategia energetica nazionale (SEN) degli ex ministri Calenda e Galletti (novembre 2017), basata sui dati del 2015, più della metà dei consumi energetici in Italia viene dai trasporti e dal settore residenziale, in particolar modo dal petrolio per i trasporti e dal gas naturale per il sistema di riscaldamento e raffreddamento delle abitazioni. Sempre in base al SEN, la copertura del fabbisogno di energia deriva per più del 75% da petrolio e gas.
A livello internazionale la musica non cambia. In base ai dati del World Energy Outlook 2016, che riporta i dati del 2014 sull’evoluzione del mix di energia a livello mondiale, le fonti fossili incidono per l’81% e, secondo le proiezioni fino al 2030, continueranno in prospettiva a ricoprire un ruolo fondamentale nell’economia.
Il rapporto annuale di Climate Transparency, una federazione internazionale di ong ambientali, rileva che i sussidi statali alle fonti fossili di energia nei paesi del G20 sono aumentati del 50% negli ultimi dieci anni, arrivando a 147 miliardi di dollari nel 2016. Solamente in Italia i sussidi statali per le fossili si aggirano annualmente intorno ai 16 miliardi di euro, circa mezza finanziaria!
Da più parti si sostiene che il gas naturale possa essere una soluzione transitoria per ridurre le emissioni, rispetto al petrolio. Questa tesi è stata riecheggiata anche in una parte del campo ambientalista. Sicuramente il gas naturale è meno impattante del carbone, ma un suo sovra-utilizzo può comunque avere effetti pesanti sull’ambiente. In base a un rapporto della Global Carbon Project del 2017, stiamo infatti assistendo ad un aumento delle emissioni di anidride carbonica (co2) derivante dall’utilizzo di gas. L’aumento delle emissioni di co2 dall’utilizzo di gas nel 2017 è del 3%, rispetto all’1% del carbone e all’1,7% del petrolio. Solamente in Cina, principale paese per emissioni, le emissioni di co2 da combustione di gas sono aumentate nel 2017 del 17%, rispetto al 4,5% del carbone. In Europa, invece, mentre diminuiscono dell’1,2% le emissioni di co2 dovute all’utilizzo di carbone, sono aumentate del 2,9% quelle dovute al gas. Secondo un recente studio pubblicato su “Nature Communication”, condotto da un gruppo di ricercatori guidato da John Worden del Jet Propulsion Laboratory della NASA, sull’aumento di 25 milioni di tonnellate annue di metano in atmosfera, 17 milioni sono dovute all’attività estrattiva. Pensare che il gas sia una soluzione al cambiamento climatico è quindi una follia.
Questi dati sono sufficienti per farci dire che gli investimenti pubblici, invece di andare a favore delle energie fossili e dell’hub del gas, dovrebbero essere destinati allo sviluppo delle tecnologie necessarie ad abbattere il consumo di gas e petrolio, attraverso il potenziamento dei mezzi pubblici ecologici e un piano nazionale di efficienza energetica in modo da ridurre l’impatto del riscaldamento e raffreddamento delle abitazioni con utilizzo di fonti fossili. Questo tipo di politica non è di certo quella proposta nella SEN di Calenda e nemmeno nel nuovo piano Energia e Clima del governo giallo-verde, che continuano sulla strada delle fossili e in particolar modo dell’utilizzo del gas naturale.
Il cambiamento climatico
Il ragionamento sulle grandi opere nel settore energetico è strettamente collegato alla questione del cambiamento climatico provocato dalle emissioni di gas serra, un fenomeno sempre più allarmante.
L’ultimo rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) prevede che un aumento delle temperature superiore a 1.5°C sarebbe veramente disastroso con effetti dirompenti su grandi parti del pianeta e con episodi metereologici violenti (caldo estremo, siccità, fortissime piogge). L’innalzamento dei livelli dei mari avrebbe conseguenze negative per milioni di persone a livello mondiale. La biodiversità verrebbe compromessa: si stima che con un aumento di 2°C il 18% degli insetti, il 16% delle piante, l’8% dei vertebrati perderebbero metà della loro estensione geografica. Le conseguenze saranno anche sull’agricoltura, con desertificazione e problemi di carenza di acqua per l’irrigazione.
Per contenere l’aumento delle temperature al di sotto di 1,5°C, il report IPCC indica misure drastiche, come la riduzione entro il 2030 del 45% di emissioni di anidride carbonica rispetto ai livelli del 2010, e pone l’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica (una situazione di totale rimozione/compensazione delle emissioni nocive) entro il 2050. Questo vorrebbe dire un cambio drastico di politica economica ed energetica a livello mondiale, con un forte ridimensionamento delle fonti fossili, non del solo carbone, ma anche di petrolio e gas naturale. Il mondo attuale capitalista non è assolutamente in grado di compiere un simile passo, come dimostra il fallimento di tutti i vertici internazionali che hanno cercato di mettere una pezza al problema del riscaldamento globale.
L’ultimo vertice Cop 24 a Katowice (dicembre 2018) si è rivelato l’ennesimo buco nell’acqua, in cui non è stata trovata alcuna soluzione per via dell’opposizione dei principali paesi legati alle fonti fossili. Nonostante gli impegni presi in questi anni dai vari vertici mondiali, la situazione non è per nulla migliorata e vediamo solamente peggioramenti. Proprio mentre si discuteva a Katowice, usciva un altro rapporto tecnico, il già citato Global Carbon Project, che ha messo in evidenza come le emissioni di gas serra provenienti dai combustibili fossili e industria siano tornate ad aumentare dal 2017, con la prospettiva di un ulteriore aumento nel 2018 del 2,7%, un incremento molto sostanzioso, visto che dal 2010 al 2017 l’aumento è stato in media dell’1% annuo.
Per quanto riguarda l’Italia, tra il 2014 e il 2016 è stata elaborata una Strategia nazionale di adattamento climatico (Snacc), molto importante per capire i possibili effetti del cambiamento del clima sul territorio italiano. È bene ricordare che la zona mediterranea sarà una di quelle maggiormente colpite dalla crisi ecologica, come confermato dai vari rapporti scientifici dell’IPCC. In base alle prospettive l’intero territorio nazionale, ma in particolar modo il meridione, subirà serie problematiche che potrebbero modificare totalmente la situazione presente, determinando sconvolgimenti di carattere ambientale, sociale ed economico.
In particolare, citando proprio dalla Snacc, i principali effetti previsti saranno:
· possibile peggioramento delle condizioni già esistenti di forte pressione sulle risorse idriche, con conseguente riduzione della qualità e della disponibilità di acqua, soprattutto in estate nelle regioni meridionali e nelle piccole isole dove il rapporto tra acquiferi alluvionali e aree montane è basso;
· possibili alterazioni del regime idro-geologico che potrebbero aumentare il rischio di frane, flussi di fango e detriti, crolli di roccia e alluvioni lampo. Le zone maggiormente esposte al rischio idro-geologico comprendono la valle del fiume Po (con un aumento del rischio di alluvione) e le aree alpine ed appenniniche (con il rischio di alluvioni lampo);
· possibile degrado del suolo e rischio più elevato di erosione e desertificazione del terreno, con una parte significativa dell’Italia meridionale classificata a rischio di desertificazione e diverse regioni del Nord e del Centro che mostrano condizioni preoccupanti;
· maggior rischio di incendi boschivi e siccità per le foreste italiane, con la zona alpina e le regioni insulari (Sicilia e Sardegna) che mostrano le maggiori criticità;
· maggior rischio di perdita di biodiversità e di ecosistemi naturali, soprattutto nelle zone alpine e negli ecosistemi montani;
· maggior rischio di inondazione ed erosione delle zone costiere, a causa di una maggiore incidenza di eventi meteorologici estremi e dell’innalzamento del livello del mare (anche in associazione al fenomeno della subsidenza, di origine sia naturale che antropica);
· potenziale riduzione della produttività agricola, soprattutto per le colture di frumento, ma anche di frutta e verdura; la coltivazione di ulivo, agrumi, vite e grano duro potrebbe diventare possibile nel nord dell’Italia, mentre nel Sud e nel Centro la coltivazione del mais potrebbe peggiorare e risentire ancor più della disponibilità di acqua irrigua;
· ripercussioni sulla salute umana, specialmente per i gruppi più vulnerabili della popolazione, per via di un possibile aumento di malattie e mortalità legate al caldo, di malattie cardio-respiratorie da inquinamento atmosferico, di infortuni, decessi e malattie causati da inondazioni e incendi, di disturbi allergici e cambiamenti nella comparsa e diffusione di malattie di origine infettiva, idrica ed alimentare;
· potenziali danni per l’economia italiana nel suo complesso, dovuti principalmente alla possibilità di un ridotto potenziale di produzione di energia idroelettrica, ad un’offerta turistica invernale ridotta (o più costosa) e una minore attrattività turistica della stagione estiva, a un calo della produttività nel settore dell’agricoltura e della pesca, ad effetti sulle infrastrutture urbane e rurali con possibili interruzioni o inaccessibilità della rete di trasporto con danni agli insediamenti umani e alle attività socio-economiche.
Le situazioni nazionali più critiche per l’Italia possono essere sintetizzate come segue:
· le risorse idriche e le aree a rischio di desertificazione;
· l’erosione e l’inondazione delle zone costiere e l’alterazione degli ecosistemi marini;
· la regione alpina e gli ecosistemi montani, con la perdita di ghiacciai e di copertura nevosa;
· la salute, il benessere e la sicurezza della popolazione;
· le aree soggette a rischio idrogeologico;
· l’area idrografica del fiume Po e i bacini idrografici del distretto dell’Appennino centrale, dove sono insediati i grandi invasi di regolazione delle acque.
Quello che ci si può aspettare è del tutto inimmaginabile, anche se i primi effetti cominciano a farsi sentire. La perturbazione nel novembre 2018 ha provocato più di 35 morti in Italia, con milioni di euro di danni; nel Veneto ha raso al suolo 4 milioni di alberi nei boschi delle montagne bellunesi. Il 2018 è stato considerato dagli esperti l’anno più caldo da oltre due secoli. Il CNR ha dichiarato che “tra i 30 anni più caldi dal 1800 ad oggi, 25 sono successivi al 1990». Con una anomalia di +1.58°C sopra la media del periodo di riferimento (1971-2000), il 2018 italiano ha superato anche il precedente record del 2015 (+1.44°C sopra la media). “A parte i mesi di febbraio (con un’anomalia negativa) e marzo (in media rispetto al trentennio di riferimento), tutti gli altri dieci mesi del 2018 – spiega il CNR – hanno fatto registrare anomalie positive e nove di essi di oltre 1°C rispetto alla media. Particolarmente eccezionali sono stati i mesi di gennaio (il secondo gennaio più caldo dal 1800 ad oggi con una anomalia di +2.37°C rispetto alla media) e aprile (il più caldo di sempre, con un’anomalia di +3.50°C rispetto alla media).”
Le ondate di calore avranno effetti anche sulle infrastrutture: pensiamo agli effetti di dilatazione di certi materiali, quali binari o asfalti, con costi di manutenzione e aumento di determinati rischi. Gli eventi metereologici estremi, come l’aumento di temporali violenti, fulmini concentrati, inondazioni, esondazioni di fiumi, trombe d’aria, renderanno sempre più vulnerabili le aziende a rischio di incidente rilevante, con l’aumento delle probabilità di incidenti tossici e pericolosi, e aumenteranno il rischio per le popolazioni, le stesse abitazioni e per gli impianti elettrici.
La pesca italiana potrebbe avere un serio problema, con la migrazione di pesci e l’arrivo di altri allogeni e nocivi. La desertificazione, la perdita di biodiversità, le crisi idriche avranno impatti devastanti sull’agricoltura; basti pensare che, in base al Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici del 2017, è previsto che per l’Italia i raccolti di mais e grano tenero perderanno il 30% di resa. Anche il settore enologico, fiore all’occhiello dell’Italia, è coinvolto nel rischio dovuto ai cambiamenti climatici. Le coltivazioni di viti e ulivi tenderanno ad essere spostate sempre più ad alta quota, con un ridimensionamento quantitativo e qualitativo del prodotto, come già dichiarato da studi scientifici del settore.
Aggiungiamo poi che la desertificazione, la siccità e le carestie hanno un impatto assai notevole nel provocare le ondate migratorie, con tutte le conseguenze drammatiche legate al fenomeno della migrazione. Più in generale, in un mondo diviso in classi sociali come il nostro (e le diseguaglianze sociali non sono mai state così accentuate come oggi), le conseguenze della crisi ecologica ricadranno soprattutto sui settori più poveri della società. Per una cerchia ristretta la crisi sarà invece un’occasione per fare affari: i piani sul clima del governo italiano e dell’Unione Europea prevedono come prima soluzione l’incentivo alle assicurazioni private contro i danni da cambiamento climatico.
La necessità della pianificazione socialista
E’ evidente che di fronte a problemi di portata così vasta, i cui effetti si valutano su decenni, come il cambiamento climatico, la riduzione delle emissioni nocive, il passaggio a fonti di energia pulita, sarebbe necessaria una programmazione a livello mondiale e una pianificazione a lungo termine. Bisognerebbe anche coinvolgere le popolazioni sulle scelte e sulle strategie da adottare: in che settori investire le risorse pubbliche? Quali progetti di infrastrutture devono avere le priorità? Quali provvedimenti sono più urgenti per la tutela del territorio?
Una pianificazione democratica internazionale di questo tipo è però assolutamente irrealizzabile sotto il capitalismo, per vie delle sue stesse caratteristiche fondamentali: la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’esistenza degli Stati nazionali. Il capitalismo è infatti un sistema economico anarchico, basato esclusivamente sulla massimizzazione del profitto a breve termine. Le grandi multinazionali dell’energia, che in molti casi hanno un Pil superiore a quello di molti Stati, non stabiliscono le loro strategie in base alle esigenze delle larghe masse, ma in base agli utili dei loro azionisti. Con tutte le risorse economiche concentrate nelle mani di una ristretta élite finanziaria, non è difficile capire perché non si fanno gli investimenti necessari per mitigare gli effetti del riscaldamento globale o per far progredire la ricerca sulla fusione nucleare. E mentre tutti i popoli hanno l’interesse comune a preservare e tutelare l’ambiente in cui vivono, è impossibile coordinare nel modo più efficace le risorse e le politiche a livello planetario, quando il mondo è diviso in una serie di Stati, ognuno con il proprio governo impegnato a tutelare gli interessi della propria borghesia nazionale. Come si pensa di poter attuare una politica globale di riduzione delle emissioni di anidride carbonica, quando Trump rilancia petrolio e carbone per far conquistare un vantaggio all’industria americana nella competizione con le aziende tedesche e cinesi? O quando l’Unione Europea e la Russia si scontrano per il controllo delle linee di approvvigionamento del gas?
Anche sulle questioni ambientali è quindi necessaria una prospettiva rivoluzionaria, che ponga al centro l’esproprio dei grandi gruppi finanziari, industriali ed energetici, l’avvio della pianificazione dell’economia sotto il controllo dei lavoratori e la creazione di una federazione socialista tra i diversi paesi. Solo la classe lavoratrice, che costituisce la stragrande maggioranza della società e produce tutta la ricchezza, può mettere a frutto le scoperte scientifiche nell’interesse della collettività e compiere i passi indispensabili per evitare la distruzione delle risorse naturali del pianeta.
Il movimento ambientalista e il movimento operaio
La lotta ambientalista deve dunque collegarsi alla lotta più generale per l’abbattimento del capitalismo. Questo modello di sviluppo economico ha totalmente fallito e pone all’ordine del giorno il rischio delle barbarie. La crisi ecologica, lo sfruttamento del lavoro, la povertà, la disoccupazione, la crisi economica, le guerre commerciali e militari, lo sviluppo diseguale mondiale con paesi sempre più ricchi e paesi sempre più poveri, le migrazioni di massa dovute al cambiamento climatico, alle guerre e alla fame, sono dirette conseguenze di un modello economico irrazionale. Lottare contro le grandi opere e contro la crisi ecologica vuol dire lottare contro il capitalismo e per un modello di sviluppo differente, razionale e per tutta l’umanità. In questi anni abbiamo visto movimenti ambientalisti che in tutti i modi hanno cercato di risolvere la questione ecologica all’interno del capitalismo, senza mettere in discussione le sue basi economiche, un approccio del tutto fallimentare che non porta da nessuna parte.
Molti movimenti ambientalisti hanno anche fatto propria la logica della “intersezionalità”, separando la lotta per l’ambiente da tutte le altre istanze sociali. Non è questa la strada da percorrere. La battaglia per un ambiente più sano, contro la crisi climatica e contro l’imposizione delle grandi opere, deve unire le rivendicazioni ambientali a quelle del mondo del lavoro. Limitarsi a dire che le fabbriche inquinanti nel mondo vanno chiuse, significherebbe provocare milioni di licenziamenti. Sul piatto della bilancia viene messo il lavoro da un lato e l’inquinamento dall’altro. A questo grande dilemma, il movimento ecologista non è mai riuscito a trovare una seria sintesi.
D’altro canto troppo spesso i sindacati confederali si sono schierati a difesa delle grandi opere con la scusa di difendere i posti di lavoro, disinteressandosi completamente del loro impatto sul territorio. Un approccio che rappresenta un gravissimo passo indietro rispetto ai punti più alti del movimento operaio italiano, che nel corso della sua storia ha più volte messo in campo mobilitazioni a salvaguardia dell’ambiente e della salute dei lavoratori. Ricordiamo qui le durissime battaglie contro l’amianto dei lavoratori dell’Eternit di Casale Monferrato e della Breda di Sesto San Giovanni; l’esperienza del Consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza, che diede vita al Gruppo di Prevenzione ed Igiene Ambientale; le lotte al Petrolchimico di Marghera, che per anni ha inquinato il sottosuolo e le acque, provocando la morte di 153 operai per tumore. Ma queste sono solo le più le celebri e se ne potrebbero citare tante altre.
Il caso più emblematico e drammatico della contraddizione tra istanze ambientali e sindacali è stato quello dell’Ilva di Taranto, che vedeva contrapporsi da una parte chi voleva porre fine all’avvelenamento della città con la chiusura della fabbrica, dall’altra chi voleva mantenere a tutti i costi i posti di lavoro nonostante l’inquinamento. Una contrapposizione lacerante in primo luogo per gli operai della fabbrica e le loro famiglie, costretti a scegliere tra la salute e lo stipendio.
In questi casi l’unica soluzione per coniugare il diritto al lavoro e il diritto alla salute è la riconversione industriale verso produzioni non inquinanti. Il problema è che nessun gruppo privato è disponibile a investire i capitali necessari alla riconversione, proprio come ci insegna la vicenda dell’Ilva: il gruppo Riva ha incassato ogni tipo di sussidio statale, ha fatto profitti miliardari continuando ad inquinare e poi ha abbandonato la fabbrica in uno stato di dissesto. Non si può quindi prescindere dalla nazionalizzazione delle fabbriche inquinanti da riconvertire. E’ bene precisare che la nazionalizzazione non ha niente a che vedere con quelle forme di “intervento statale” viste nel corso degli anni, in cui lo Stato ha ripianato le perdite delle aziende e le ha risanate per poi rivenderle ai privati a prezzi stracciati. Una vera nazionalizzazione deve essere accompagnata dall’esproprio e dal controllo dei lavoratori: la riconversione industriale deve essere finanziata espropriando i patrimoni dei Riva e degli altri parassiti come loro e deve essere gestita da comitati eletti dagli operai nelle fabbriche e dagli abitanti delle zone circostanti.
Il marxismo e la questione ambientale
Esiste una vulgata per cui il marxismo, essendo focalizzato solo sulle questione economiche, sarebbe sostanzialmente una filosofia “produttivista” e cioè rivolta unicamente allo sviluppo delle forze produttive, indifferente alle problematiche dell’ambiente e della natura. Si tratta di una delle tante mistificazioni del pensiero marxista. Marx ed Engels nei loro scritti affrontano più volte il rapporto tra uomo e natura. L’interazione di tutti i fenomeni naturali, tra cui lo sviluppo dell’uomo, sta alla base del materialismo dialettico. E anzi proprio la concezione materialista della storia può fornire fondamenta solide a un discorso ecologista: al di fuori del materialismo, si cadrebbe infatti in posizioni moraliste o utopistiche, totalmente slegate dai processi reali dell’evoluzione umana.
Sebbene nella sua epoca il sistema industriale avesse appena cominciato a produrre i suoi effetti devastanti sull’ambiente, Marx intuì fino a che punto il capitalismo avrebbe distrutto la salute dei lavoratori e le risorse naturali. Nel Capitale scrive: “Come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggior quantità di lavoro resa liquida vengono pagate con la devastazione e l’ammorbamento della stessa forza-lavoro. E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso della rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. Quanto più un paese, per esempio gli Stati Uniti dell’America del Nord, parte dalla grande industria come sfondo del proprio sviluppo, tanto più rapido è questo processo di distruzione. La produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio.”
Nel Capitale viene anche sottolineata la centralità delle forze naturali nelle attività produttive dell’uomo: “Nella sua produzione l’uomo può soltanto operare come la natura stessa: cioè unicamente modificando le forme dei materiali. E ancora: in questo stesso lavoro di formazione l’uomo è costantemente assistito da forze naturali. Quindi il lavoro non è l’unica fonte dei valori d’uso che produce, della ricchezza materiale. Come dice William Petty, il lavoro è il padre della ricchezza materiale e la terra ne è la madre.” Marx parte infatti dalla concezione per cui il lavoro è regolato dallo scambio organico tra uomo e natura, un approccio all’avanguardia che non ha niente a che fare con la “sottomissione della natura”: “In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge tra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita”.
Sempre nel Capitale Marx critica radicalmente l’idea stessa di proprietà privata della terra. “Dal punto di vista di una elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come un pater familias, alle generazioni successive” .
Anche Engels è chiaro in merito. Nella Dialettica della natura scriveva: “A ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non lo dominiamo come chi è estraneo, ma vi apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato”.
Spunti e riflessioni non mancano nemmeno nei marxisti delle generazioni successive. Solo per citare un esempio, nella prefazione alle edizioni francese e tedesca del saggio L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Lenin sviluppa un ragionamento profondo sulla natura ambivalente delle infrastrutture che, sotto il capitalismo, non sono solo un semplice strumento di collegamento, ma si trasformano inevitabilmente in uno strumento di oppressione. “Le ferrovie sono il risultato finale dei principali rami dell’industria capitalistica – carbonifera e siderurgica – e sono contemporaneamente le testimonianze più significative del commercio mondiale e della civiltà democratica borghese. Nei paragrafi precedenti avevo mostrato come le ferrovie siano connesse con la grande industria, e i monopoli, i sindacati, i cartelli, i trust, le banche, l’oligarchia finanziaria. La ineguale distribuzione della rete ferroviaria, il suo sviluppo ineguale sono il risultato del capitalismo monopolistico moderno su scala mondiale, e dimostrano l’assoluta impossibilità di evitare le guerre imperialiste su tale basi economiche, finché esiste la proprietà privata dei mezzi di produzione. La costruzione della ferrovie sembra un’impresa semplice, naturale e democratica, apportatrice di civiltà e progresso: tale appare infatti agli occhi dei professori borghesi, stipendiati per imbellettare la schiavitù capitalistica, e agli occhi dei filistei piccolo-borghesi. Nella realtà i fili capitalistici che collegano queste imprese, per infinite reti, alla proprietà privata dei mezzi di produzione in generale hanno trasformato la costruzione delle linee ferroviarie in strumento di oppressione di un miliardo di uomini nei paesi asserviti (tutte le colonie, più le semi-colonie), cioè di più della metà degli abitanti del globo terrestre, e degli schiavi del capitale nei paesi “civili”.” Non si potrebbe immaginare nulla di più distante dalle concezioni produttiviste…
L’illusione della Green Economy
Si fa un gran parlare di Green Economy, come se fosse possibile piegare le logiche di mercato agli obiettivi ecologisti. In realtà sono le rivendicazioni ambientaliste che possono essere rese sterili e piegate alle compatibilità di sistema, se non vengono collegate alla proposta di un modello di sviluppo differente. In alcuni casi possono anche essere sfruttate dai capitalisti, che le trasformano in fonti di profitto e speculazione. Si pensi al business sviluppato negli ultimi anni attorno alle energie rinnovabili, sul quale vale la pena soffermarsi, perché è indicativo delle dinamiche create dal capitalismo.
Tecnologie che in astratto sarebbero “pulite”, nelle logiche di sfruttamento e massimizzazione del profitto, si trasformano nel loro opposto. Ad esempio una delle fonti rinnovabili più diffusa attualmente è quella dei bio-carburanti, ottenuti da canna da zucchero, olio di palma e simili. Per realizzare le “colture energetiche” da trasformare in carburante ecologico, però, le grandi imprese energetiche si stanno impossessando di milioni di ettari di terre in Africa, disboscandole e sottraendole all’agricoltura. Anche in Italia sono sempre di più i terreni agricoli destinati alla produzione di biogas e biometano, soprattutto nella pianura padana, con il conseguente problema dell’impoverimento del suolo, di un notevole spreco d’acqua e di un aggravamento dei rischi del cambiamento climatico.
O prendiamo il caso dell’energia idro-elettrica, che sicuramente non produce emissioni nocive, ma la costruzione di dighe colossali è tutt’altro che a impatto zero. E’ celebre la Diga delle Tre Gole sul fiume Yangtze in Cina, la cui realizzazione ha imposto l’allagamento di 116 insediamenti urbani e il trasferimento coatto di 1,4 milioni di persone (che potrebbero salire a 4 milioni entro il 2023), oltre alla distruzione degli habitat naturali di numerose specie animali e vegetali.
Si potrebbe citare anche il nuovo business dello stoccaggio sotterraneo dell’anidride carbonica, con cui si va a convogliare sottoterra la co2 emessa dai grandi impianti di combustione. Questo sistema viene considerato ecologico, ma in realtà è funzionale alla continuazione dell’utilizzo di fonti fossili, tanto da essere alla base di tutti i discorsi sul “carbone pulito”, tanto cari anche a Trump.
Pertanto se la lotta a difesa dell’ambiente si riduce a cercare di convincere le grandi compagnie che possono fare ugualmente alti profitti vendendoci pannelli solari invece di benzina, la battaglia sarà persa in partenza. Un capitalismo “verde” non potrà mai esistere, perché l’economia di mercato non può essere organizzata e sviluppata in modo razionale e armonioso sulla base di determinati obiettivi, non può essere “pianificata”. Da questo derivano una serie di contraddizioni insolubili.
Pensiamo alle multinazionali dell’energia, che con una mano sviluppano le fonti rinnovabili e con l’altra continuano ad estrarre gas e petrolio. In maniera ancora più assurda, da una parte si realizzano impianti ad energia solare ed eolica, ma dall’altra si inquina per produrli, trasportarli, installarli e smaltirli. La Cina è sintomatica di questi paradossi, per cui è il paese leader nel settore delle rinnovabili, è il primo produttore al mondo di pannelli fotovoltaici, ma allo stesso tempo ha livelli di inquinamento spaventosi, dipende in gran parte dal carbone ed è anche il paese con il livello più alto di emissioni di co2.
Perché le lotte a difesa dell’ambiente siano efficaci, abbiamo quindi bisogno di un programma di rivendicazioni che partendo dai problemi più immediati e urgenti, arrivi a mettere apertamente in discussione le basi stesse del sistema economico esistente.
- No al Tav, al Tap e alle altre grandi opere inutili.
- No alla militarizzazione della Val Susa. No alla repressione degli attivisti No Tav e degli altri movimenti ambientalisti.
- Abrogazione dello Sblocca Italia.
- I fondi per l’Alta Velocità devono essere impiegati per il risanamento del sistema ferroviario esistente.
- Piano nazionale di conversione ecologica e potenziamento del trasporto pubblico locale.
- Piano nazionale di riassetto idrogeologico del territorio.
- No all’hub del gas. I sussidi statali alle fonti fossili devono essere investiti nella ricerca sulle energie alternative e in un piano nazionale di adeguamento al cambiamento climatico.
- Esproprio e nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori delle grandi aziende energetiche.
- Piano nazionale per l’efficienza energetica, per la ristrutturazione delle abitazioni e la riduzione delle emissioni degli impianti di riscaldamento-raffreddamento.
- Esproprio, nazionalizzazione e riconversione industriale delle fabbriche inquinanti, sotto il controllo di comitati eletti dagli operai e dagli abitanti dei territori.
- Esproprio e nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori delle industrie automobilistiche, per avviare la produzione di massa di auto ecologiche a prezzi accessibili.
Marzo 2019
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