Rivoluzione n° 78
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24 Maggio 2021Dopo l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima, avvenuto nel 2011, i reattori danneggiati hanno continuato a produrre calore ed è stato necessario raffreddarli continuamente con acqua. Si è giunti così ad immagazzinare oltre un milione di tonnellate di acque radioattive e se ne aggiungono ogni giorno che passa altre 140 tonnellate.
Nel 2019 l’ex ministro dell’Ambiente giapponese, Yoshiaki Harada, ha dato il via libera allo scarico in mare di queste acque, previo processo di filtrazione. I pescatori e le associazioni ambientaliste hanno intrapreso azioni legali contro il progetto, sostenuto invece dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica.
Ricordiamo che la centrale nucleare di prima generazione di Fukushima, gestita dalla Tepco, fu investita da un maremoto nel marzo del 2011: le onde alte fino a 15 metri interruppero l’erogazione dell’energia elettrica che alimentava i sistemi di raffreddamento di tre reattori; nelle ore e nei giorni successivi si verificarono delle esplosioni causate da fughe di idrogeno e avvenne la fusione dei noccioli dei reattori, con rilascio di ingenti quantitativi di sostanze radioattive, in particolare iodio, cesio e cobalto.
Sulla stampa sono stati segnalati nel 2013 scarichi quotidiani in mare di centinaia di tonnellate di acqua contaminata, ammessi dalla Tepco, da sommare a quelli che dopo l’incidente avevano fatto superare di 4.400 volte i limiti ammessi, tanto che la vendita di prodotti ittici era stata bloccata dal marzo del 2011 al giugno del 2012.
Nel 2016 uno studio rivelò che i fondali marini ed il porto risultavano fortemente contaminati. Va tenuto conto che, per effetto dei moti marini, i sedimenti contaminati possono tornare in sospensione, sommandosi alle sostanze radioattive che l’ex ministro dell’Ambiente giapponese ha previsto di riversare in mare. È noto, inoltre, che per effetto delle correnti marine le acque possano ristagnare, come sanno i bagnanti assediati in certi giorni da schiume ed acque torbide. Solo che in questo caso si tratta di isotopi radioattivi, che le correnti marine possono sì diluire ma anche, al contrario, concentrare significativamente in certe zone.
Inoltre, “in teoria”, ci sarebbero delle norme che vietano versamenti in mare di sostanze tossiche, dannose o nocive, in particolare quelle non degradabili ed il progetto costituisce un pericoloso invito a trasgredirle, oltre a confermare che in epoca capitalista, quando si tratti di risparmiare sui costi, si possono calpestare tutte, ma proprio tutte, le leggi di tutela della salute e dell’ambiente.
Che il rischio non sia zero lo ammettono gli stessi esperti che promuovono il progetto, che però sostengono che il processo di filtrazione eliminerebbe gli isotopi più nocivi. A questo riguardo bisogna considerare che non sarebbero trattenuti il carbonio 14 ed il trizio ed almeno in parte altri isotopi come il plutonio, lo stronzio, il cobalto o il rutenio. Tutti isotopi che emettono radiazioni pericolose se ingerite dai pesci, ma anche se inalate dai pescatori o da altri lavoratori che operino in mare.
Fondati timori hanno anche le nazioni confinanti in quanto, per effetto delle correnti marine, si potrebbero avere accumuli non solo in prossimità di Fukushima, ma in aree che “in teoria” andrebbero monitorate e definite di volta in volta. Ancora, va considerato che non sempre i filtri funzionano bene e che, dopo aver filtrato le acque, resterebbero residui da smaltire comunque a terra.
L’alternativa suggerita dalle associazioni ambientaliste di continuare a stoccare a terra le acque radioattive non è certo priva di problemi. Può essere tutt’al più un “male minore” rispetto allo sversamento in mare, che causerebbe danni permanenti all’ambiente marino e darebbe un colpo di grazia alle attività di pesca, senza tenere conto che in ogni caso i residui del filtraggio andrebbero comunque stoccati a terra. Tuttavia sarebbero necessari investimenti consistenti in tecniche di dismissione più avanzate, in grado di eliminare tutte le sostanze radioattive da quelle acque.
Per l’ex ministro giapponese dell’Ambiente il principale problema era invece proprio quello di abbassare i costi di dismissione, anche per giustificare in termini di sostenibilità economica il fatto di continuare a servirsi di centrali nucleari per la produzione di energia. L’attuale governo, guidato dal premier Yoshihide Suga, ha cercato di darsi un’immagine “green”, ma si è ben guardato dal ritirare il progetto riversare in mare le acque radioattive.
Fukushima dimostra una volta di più che non solo i costi dello smaltimento delle scorie e dello smantellamento delle centrali a fissione nucleare sono esorbitanti, ma anche che questo si traduce nel via libera a pericolose scorciatoie per ridurne i costi, scaricando acque radioattive in mare, o dilatando i tempi delle bonifiche: basti pensare che, a dieci anni di distanza dal disastro, la rimozione dei detriti di combustibile nucleare fusi e depositati sul fondo del reattore n. 2, prevista per i primi mesi del 2020, è stata rimandata al 2022.
Se i costi di dismissione e di smaltimento delle scorie della fissione nucleare sono insostenibili e non solo dal punto di vista della salute e dell’ambiente, non lo sarebbero quelli della fusione nucleare, il nucleare pulito, una tecnologia completamente diversa, in grado di produrre grandi quantità di energia senza i rischi e le scorie delle attuali centrali nucleari. Ma purtroppo, mentre in alcune parti del mondo si investe ancora in impianti a fissione, la ricerca sulla fusione nucleare procede ancora troppo lentamente.
Per questo sarebbe importante non solo chiedere investimenti adeguati in questo settore per accelerare i tempi, ma anche esigere una progettazione secondo i principi di ecoefficacia delle future centrali a fusione, in modo da garantirne la massima sostenibilità ambientale anche in fase di dismissione. Ma questo significherebbe pianificare e guardare lontano, invece anche quando le roboanti dichiarazioni sulla sicurezza e sulla convenienza della fissione nucleare vengono puntualmente smentite dai fatti, il capitalismo non solo non guarda lontano, ma ostacola continuamente i progressi tecnologici risolutivi per uscire dalla crisi ambientale.