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FRANCIA – Ora basta, Macron démission!

La mobilitazione contro la riforma delle pensioni iniziata in Francia il 5 dicembre si trova a un bivio. Lo sciopero dei ferrovieri e dei dipendenti della RATP (i mezzi pubblici della regione di Parigi), dopo oltre 40 giorni di lotta esemplare, si è di fatto esaurito senza nessun risultato. Questo riflusso del movimento rientrava nei calcoli del governo Macron. L’obiettivo dell’esecutivo era proprio quello di logorare i lavoratori in lotta sul medio periodo. Spiegavamo questo rischio anche in un nostro precedente articolo: “Se lo sciopero dei ferrovieri e dei dipendenti della RATP rimane isolato, il governo avrà due opzioni: o fare concessioni ai settori in sciopero o puntare all’esaurimento delle mobilitazioni. In entrambi i casi, la massa dei lavoratori ne uscirebbe sconfitta” (Francia – Lo sciopero del 5 dicembre: bilancio e prospettive)

Alla metà del mese di gennaio, dopo il riflusso degli scioperi nel settore dei trasporti, il governo pensava di aver vinto. Da allora, però, c’è stata una nuova ondata di mobilitazioni in vari settori, dagli avvocati agli addetti alle fognature, agli insegnanti, agli elettricisti, agli operatori sanitari, ai portuali, ecc. Le azioni di lotta locali, gli scioperi e i raduni si sono moltiplicati. I “desideri” reazionari dei ministri, dei funzionari eletti e di vari membri delle amministrazioni locali sono stati ribaltati. In un gesto di sfiducia e di sfida, gli operai hanno gettato i loro abiti da lavoro – o i loro strumenti – ai piedi di chi incarna il potere. I “capi” cercavano di fare bella figura, ma la loro autorità giaceva sepolta in mezzo agli abiti, i vestiti e i libri dei lavoratori.

Questo nuovo spirito si è espresso in una ripresa delle mobilitazioni intorno alle manifestazioni del 24 gennaio. Possiamo dire che il movimento è entrato in una nuova fase ascendente, nonostante il contraccolpo della fine dello sciopero tra i lavoratori dei trasporti? Non è da escludere, per un motivo che abbiamo già sottolineato più volte: queste mobilitazioni sono alimentate da una rabbia generale che si è accumulata nel tempo e che non si esaurirà facilmente.

 

Il rifiuto del sistema

Al di là della controriforma del sistema pensionistico, è l’intera politica del governo ad essere massicciamente respinta dalle masse. Lo si vede chiaramente nelle richieste e negli slogan dei lavoratori mobilitati: la questione delle pensioni ha un ruolo di primo piano, naturalmente, ma tra tante altre parole d’ordine che denunciano l’intero meccanismo infernale dei tagli al bilancio, delle misure di austerità, delle “ristrutturazioni” e delle successive controriforme. Tutti provvedimenti che hanno peggiorato le condizioni di lavoro oltre ogni livello sopportabile.

I sondaggi riferiscono che Macron, tra la classe operaia, gode di un consenso pari a circa il 10%. Con questo dato batte il record negativo stabilito da François Hollande, che aveva già battuto quello del precedente presidente Sarkozy. Tutto questo risponde ad una logica molto precisa: Evidentemente gli effetti della crisi si stanno accumulando e aumentano il malcontento dei lavoratori. A tutto ciò Macron aggiunge il suo tocco personale: un’arroganza colossale.

In questo contesto, il movimento contro la riforma delle pensioni potrebbe servire da catalizzatore per una lotta molto più ampia e radicale. Il governo lo ha temuto fin dall’inizio, ed anzi, è l’unico scenario che lo costringerebbe a fare un passo indietro. Purtroppo, i dirigenti sindacali impegnati nella lotta (per non parlare dei professionisti della capitolazione, come il segretario del sindacato CFDT Laurent Berger) non hanno cercato di sviluppare a pieno il potenziale del movimento. I leader sindacali hanno limitato rigorosamente l’obiettivo della lotta al ritiro della riforma pensionistica. Non solo, i vertici di CGT, FO e Solidaires (i tre principali sindacati di sinistra) non hanno compiuto nessuna azione concreta per costruire la mobilitazione dei dipendenti del settore privato. Coinvolgere questi lavoratori nel movimento presenta delle difficoltà che necessariamente i sindacati devono affrontare: in questi settori uno sciopero rinnovabile richiede sacrifici particolarmente duri, da una maggiore perdita di salario al rischio di sanzioni. Inoltre questi lavoratori hanno ogni sorta di problemi urgenti e immediati, che il ritiro della riforma pensionistica da solo non risolverebbe. Ma incoraggiare la loro mobilitazione rappresenta un’esigenza imprescindibile: vuol dire coinvolgere nel movimento la stragrande maggioranza della forza lavoro francese.

Per raggiungere questo obbiettivo è necessario che i leader sindacali cambino la loro linea politica puramente difensiva. Devono puntare non solo al ritiro della riforma, ma a una rottura netta con l’intera politica reazionaria del governo. I sindacati devo chiamare alla mobilitazione sulla base di un programma progressista e radicale. L’idea di “negoziare” misure progressiste con il governo – come proposto dal segretario della CGT Philippe Martinez – non sta in piedi: Macron non negozierà mai riforme contrarie a tutta la linea del suo governo (e alla borghesia che rappresenta). Un’agenda progressista può divenire realtà solamente se sarà imposta alla classe dominante da un altro governo, il che significa innanzitutto rovesciare l’esecutivo Macron.

Nel marzo del 1935, Léon Trotsky scriveva sulla situazione in Francia, allora nel bel mezzo di una crisi economica e sociale: «Per costringere i capitalisti nelle condizioni attuali a fare concessioni serie, la loro volontà deve essere spezzata; questo può essere ottenuto solo con un’offensiva rivoluzionaria. Ma un’offensiva rivoluzionaria non si può sviluppare unicamente a partire da rivendicazioni economiche parziali. (…) Le masse comprendono o sentono che in condizioni di crisi e di disoccupazione, i conflitti economici parziali richiedono sacrifici inauditi che non saranno in alcun modo giustificati dai risultati ottenuti. Le masse si aspettano e reclamano altri metodi più efficaci» (L.Trotskij “Ancora una volta, dove va la Francia?”). Su queste poche righe tutti gli attivisti sindacali e di sinistra dovrebbero meditare, perché fanno luce su di un aspetto fondamentale dell’attuale situazione politica e sociale.

 

Riforma e rivoluzione

Sulla stampa, nelle radio e nelle televisioni, i portavoce dei media del governo celebrano per la loro “ragionevolezza” i cosiddetti sindacati “riformisti” (CFDT, UNSA, ecc.) e al contrario criticano aspramente i cosiddetti sindacati “contestatari” (CGT, Solidaires, ecc.).

Ma cos’è un sindacato “riformista”, secondo questo schema d’analisi? È un sindacato i cui leader sostengono le contro-riforme, la regressione sociale e le politiche di austerità. Come nel caso del segretario della CFDT Laurent Berger, che ha dedicato la sua vita a questa causa.

Il gioco di prestigio dialettico è lampante: la controriforma viene ribattezzata “riforma”. Quanto a coloro che si oppongono, sono accusati di “immobilismo”. Questa terminologia non ha alcun valore: mira solamente a confondere i lavoratori. Proviamo a dire le cose come stanno nel linguaggio semplice del marxismo.

Oggi in Francia, i dirigenti di tutti i sindacati dei lavoratori sono “riformisti” nel senso marxista del termine: rifiutano l’idea di una rivoluzione socialista e difendono la prospettiva di una lunga serie di riforme sociali progressiste nel quadro del capitalismo. È vero che, in pratica, la leadership del CFDT difende principalmente le contro-riforme. Ma questo è il risultato logico del riformismo, la sua conseguenza finale. La leadership del CFDT si è completamente adattata al capitalismo; lo vede come l’unico sistema possibile. Pertanto, quando la borghesia chiede drastiche controriforme, a causa della crisi del suo sistema, Laurent Berger si adegua e passa senza colpo ferire da una riforma all’altra.

Questo significa che i rivoluzionari sono contrari alle riforme? Assolutamente no. Lenin lo spiegava già nel 1913: «I marxisti (…) riconoscono la lotta per le riforme, cioè per quei miglioramenti della situazione dei lavoratori che lasciano il potere nelle mani della classe dominante. Ma, allo stesso tempo, i marxisti conducono la lotta più vigorosa contro i riformisti, che limitano (…) alle riforme le aspirazioni e l’attività della classe operaia. Il riformismo è un inganno borghese ai danni dei lavoratori, che rimarranno sempre degli schiavi salariati, nonostante dei miglioramenti parziali, finché durerà il dominio del capitale». (Lenin, Marxismo e riformismo)

Oggi, a causa della profonda crisi del capitalismo, i riformisti non sono più in grado di garantire ai lavoratori nemmeno “miglioramenti parziali” delle loro condizioni. O sostengono apertamente le controriforme come Berger o adottano una posizione strettamente difensiva come Martinez.

Ci viene detto: “Non è vero, perché Martinez chiede al governo di negoziare una riforma progressista delle pensioni”. Lo sappiamo, ma questo rappresenta un assurdo. Macron governa per conto della classe dominante francese, che richiede apertamente delle drastiche controriforme. La borghesia vuole “negoziare” solo le sue controriforme, cioè imporle ai lavoratori, se possibile con l’aiuto dei Laurent Berger del caso. Qualsiasi altra prospettiva è una menzogna detta con lo scopo di confondere i lavoratori. Al contrario, bisogna dire a questi ultimi la verità: nel contesto attuale, quello di una profonda crisi del capitalismo, solo una rottura con questo sistema – cioè una rivoluzione socialista – aprirà la prospettiva di un serio miglioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice.

 

Questo articolo è apparso sul numero 40 del periodico dei marxisti francesi, Revolution, con il titolo “Ras-le-bol général !”

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