Rivoluzione n°23
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7 Ottobre 2016di Francesco Giliani
In Francia, la gioventù e la classe operaia sono tornate al centro della lotta politica. La mobilitazione di massa contro la riforma del lavoro del governo socialista di Emmanuel Valls, infatti, è andata al di là di uno scontro puramente sindacale. Il governo socialista ha sferrato un attacco senza precedenti alle condizioni di lavoro (aumento dell’orario, distruzione del contratto nazionale, licenziamenti facili, ecc.). Il paese intero s’è polarizzato in due campi contrapposti: da un lato, quello governativo incarnato dal cinismo arrogante di Valls e sostenuto dalla Confindustria1, dall’altro, quello della Cgt (Confederazione generale del lavoro)2, principale sindacato francese che nel corso della lotta è stato punto di riferimento anche della gran parte della gioventù e del movimento Nuits débout (Notti in piedi). Il carattere di classe di tale polarizzazione è evidente. La grande stampa, in mano ai capitalisti, ha abbandonato ogni forma di correttezza formale nell’attaccare la Cgt ed il suo segretario Philippe Martinez, definiti con disprezzo come ultimi “dinosauri sovietici” o “sequestratori” di un paese intero ed accostati persino ai terroristi dell’Isis nell’edizione del 1° giugno del settimanale Le Point.
Secondo tutti gli istituti di sondaggi, la Cgt ha avuto dalla sua parte almeno i due terzi della popolazione. È ancora più degno di nota che non meno del 60 per cento degli intervistati appoggiasse anche gli scioperi a oltranza degli operai delle raffinerie, malgrado il terrorismo mediatico sulla penuria di carburante. All’apice del conflitto, più di un milione di persone sono scese in piazza. La potenza del movimento di massa ha messo in imbarazzo persino il gruppo parlamentare del Partito socialista (Ps). Così, mandando in cavalleria un elemento classico della democrazia borghese, Valls ha dovuto imporre la riforma del lavoro senza passaggio parlamentare, utilizzando la procedura d’emergenza inserita nel comma 3 dell’articolo 49 della Costituzione.
Di fronte ad avvenimenti dalla portata così profonda, il dibattito generatosi in Italia è stato piuttosto provinciale, anche a sinistra. In linea di tendenza, infatti, il potente risveglio dei lavoratori francesi è stato vissuto dalla sinistra politica italiana, anche quella che si definisce più radicale, come uno strumento per sputare fuori le proprie frustrazioni sull’arretratezza della situazione in Italia o per lamentarsi del gruppo dirigente della Cgil, dipingendo in modo esageratamente roseo quello della Cgt. Invece di comprendere un fenomeno sociale e politico nella sua peculiarità ma anche come parte di un processo di radicalizzazione generale già manifestatosi in Grecia, Spagna, Portogallo e Gran Bretagna, come cercheremo di fare in questo articolo, si è scelta la via dell’invettiva e del piagnisteo. Il caso più grottesco, manco a dirlo, lo abbiamo registrato su Facebook con la diffusione virale di un evidente fake che mostrava lavoratori francesi tenere uno striscione recante la scritta “Nous ne ferons pas la fine de l’Italie” – in francese, però, si scrive “fin”…
Le radici del movimento
In Francia, la borghesia è sull’offensiva da alcuni decenni. Il ciclo politico apertosi con la situazione rivoluzionaria del Maggio ’68 si è invertito nel 1982 quando, dopo 6 mesi di riforme a favore dei lavoratori, il governo di “unità della sinistra” di Pierre Mauroy, basato sull’alleanza tra Ps e Partito comunista francese (Pcf), si piegò al boicottaggio del grande capitale ed avviò una politica liberista fatta di tagli e pesanti ristrutturazioni industriali – queste ultime particolarmente pesanti nel settore siderurgico ed in quello minerario. Il rallentamento dei tassi di crescita economici rispetto al periodo 1948-1973 ed il carattere largamente fittizio dei boom degli anni ’80 e ’90 hanno spinto la borghesia francese ad infittire i suoi attacchi alle conquiste sociali del movimento operaio. Tuttavia, a differenza della gran parte dei paesi europei, anche in quella lunga fase di riflusso i lavoratori ed i giovani riuscirono, in Francia, a vincere alcune lotte epocali ed a rallentare i piani della borghesia: in particolare, ricordiamo il movimento studentesco del 1986 contro la legge Devaquet e lo sciopero ad oltranza di tre settimane del settore pubblico e dei trasporti che bloccò la riforma delle pensioni del governo gollista di Alain Juppé nel dicembre 1995. Tale peculiarità ha senz’altro contribuito a preservare meglio che altrove in Europa uno strato di avanguardie ed anche a trasmettere a livello di massa alle generazioni successive l’idea che “tous ensemble” (tutti insieme) – come si cantava nel dicembre 1995 – si possono piegare governi e padroni. In realtà, la lotta della primavera 2016 ha anche antecedenti più recenti, come la mobilitazione studentesca vittoriosa contro il Cpe (contratto di primo impiego) – una sorta di salario d’ingresso – e la possente battaglia contro la riforma delle pensioni perduta nel 2010.
La lotta dell’autunno 2010 fu più larga di quella del 2016 come numero di manifestanti – ne scesero in piazza fino a 3 milioni – ma non ebbe un impatto significativo sulla gioventù; la direzione della Cgt, inoltre, non arrivò a sostenere, nemmeno verbalmente, quei settori in sciopero ad oltranza. Nel 2016, invece, gli studenti hanno classicamente agito da detonatore della protesta dei lavoratori. In più, il fenomeno delle piazze occupate, Nuits débout, ha coinvolto uno strato di giovani più ampio dei soli studenti ed ha esercitato una pressione positiva sui vertici della Cgt. Non è secondario che il segretario della Cgt abbia aperto alla prospettiva di uno sciopero ad oltranza proprio in piazza della Repubblica a Parigi, durante un’assemblea generale di Nuits débout alla quale era stato invitato dagli organizzatori. Diversamente da quanto accadde in Spagna durante il movimento degli Indignados del 2011, al quale Nuits débout si ispirava, la gioventù radicalizzata non ha voltato le spalle alle organizzazioni operaie ma ha cercato di entrare in relazione con quei settori che erano alla testa della battaglia e venivano percepiti, anche per le loro tradizioni, come meno screditati. In sintesi, quello che abbiamo visto nella primavera del 2016 in Francia è stato un movimento di massa egemonizzato dalla classe operaia organizzata, al quale si sono legati ampi settori giovanili per esprimere un rifiuto generale di questa società. In Europa, si tratta del primo movimento del genere dopo l’esplosione della crisi economica del 2007-2008 e l’emergere di movimenti di massa segnati da una minor capacità della classe lavoratrice organizzata di essere alla testa della battaglia.
Il ruolo della Cgt
“La Cgt non può dettare legge”, con queste parole – al culmine degli scioperi a oltranza nelle raffinerie a fine maggio – il Primo ministro Valls esprimeva tutta l’inquietudine sua e della classe dominante per la forza messa in campo dal movimento sindacale. Eppure, come ripetono instancabilmente i mezzi di comunicazione, i lavoratori iscritti al sindacato in Francia sono sotto l’8 per cento del totale, il 3 per cento nel settore privato, e la moderata Cfdt conterebbe più iscritti (800mila) della Cgt (688mila), anche se i sistemi di calcolo della Cfdt sono più lassi. Queste cifre non spiegano il quadro complessivo e possono addirittura essere fuorvianti. La Cgt, infatti, è il primo sindacato di Francia nelle elezioni per i delegati (27 per cento dei voti totali) e, quando scende in lotta, è in grado di mettere in movimento ed influenzare settori di classe lavoratrice ancora più ampi. La sua forza, inoltre, è particolarmente concentrata in alcuni settori chiave per un’economia capitalista (trasporti, porti, chimica, elettricità, automobile, nucleare, ecc.) e ciò le conferisce un peso sociale ancora maggiore.
L’apparato della Cgt, comparato al numero di iscritti, è decisamente pesante, anche più di quello della Cgil3. Per di più, si tratta di un apparato che vive, in larga misura, dei finanziamenti che arrivano dallo Stato e dalla gestione degli enti bilaterali; secondo il rapporto Hadas-Lebel del 2003, infatti, soltanto il 34 per cento del finanziamento della Cgt proverrebbe dalle quote sindacali.
Quando esplode la lotta di classe, però, la relazione di forze tra base e vertice tende a rovesciarsi ed i settori di avanguardia formatisi in questi decenni riescono, basandosi sulla forza della classe, a spingersi molto avanti. Ne sono un esempio cristallino i lavoratori delle raffinerie e la Camera del lavoro della città portuale di Le Havre, in Normandia, che nel mese di maggio sono scesi in sciopero ad oltranza prima che tale parola d’ordine fosse avallata almeno verbalmente dai vertici della Confederazione.
Nella sinistra italiana è diffusa l’idea che la direzione della Cgt sia particolarmente più a sinistra di quella della Cgil. In tale osservazione c’è un primo errore consistente nel credere che grandi movimenti di massa siano innanzitutto il frutto di un capo intelligente o bravo a parlare in televisione. In secondo luogo, nel dibattito italiano sulla Francia vengono completamente cancellati gli scontri e le critiche della base del sindacato verso i dirigenti, anche della Cgt. Nel congresso di categoria della sanità del 2015, per esempio, il 70 per cento circa dei delegati ha eletto una segretaria generale più a sinistra di quella sostenuta dal confederale. Ancor più significativo, nell’ultimo congresso nazionale tenutosi ad aprile nel bel mezzo della lotta, ben il 41 per cento dei delegati ha votato contro il bilancio dell’attività presentato dalla direzione uscente. I lavoratori di AirFrance e quelli della Goodyear di Amiens, sotto attacco da parte della magistratura per le loro lotte, sono stati tra i principali portavoce delle critiche verso le timidezze della direzione nella gestione della mobilitazione contro la riforma del lavoro ed anche nella risposta contro la criminalizzazione dell’attività sindacale sviluppatasi in Francia. Nel congresso precedente, svoltosi nel 2013, ben l’81 per cento dei delegati aveva approvato il bilancio dell’attività del gruppo dirigente. Su questi numeri ha pesato pure lo scandalo che nel 2014 ha travolto l’allora segretario della Cgt, Thierry Lépaon, dimessosi nel gennaio 2015 a causa di ingenti spese di ristrutturazione del suo appartamento di servizio e del suo ufficio con fondi sindacali.
La Cgt è al centro della vita politica francese. Il suo gruppo dirigente subisce pressioni da destra e da sinistra. Così, mentre una parte crescente dei delegati critica il riformismo strategico della direzione della Cgt, il segretario del Ps, J.C. Cambadélis, strilla contro lo “spostamento a sinistra” di quel sindacato. E qualcosa di vero c’è anche nell’affermazione di Cambadélis. In effetti, con la sostituzione di Lépaon con Martinez, la Cgt ha virato verbalmente a sinistra, sostenendo la rivendicazione della settimana di 32 ore ma anche, dopo aver ceduto alla pressione della base, abbandonando ogni tavolo di trattativa col governo e pronunciandosi a parole a favore dello sciopero generale a oltranza – mancando, però, di prepararlo ed organizzarlo nei luoghi di lavoro. Anche alla fine del 2015, soltanto la pressione degli organismi locali, in particolare la Camera del lavoro di Parigi città, ha spinto la direzione nazionale a prendere posizione contro lo stato d’emergenza – cioè un attacco in grande stile alle libertà democratiche – imposto dal governo dopo gli attentati terroristici del 13 novembre a Parigi ed a Saint-Denis.
Sempre più slegata organizzativamente dal Pcf4 la direzione della Cgt mantiene comunque una prospettiva politica molto simile. Il riformismo del gruppo dirigente della Cgt si può sintetizzare nell’attesa – vana, aggiungiamo noi – del ritorno di un boom prolungato che permetta di strappare alcune concessioni ai padroni. Con l’avvitamento della crisi economica mondiale, la necessità di abbracciare un programma anticapitalista e rivoluzionario guadagnerà sempre più terreno nella Cgt. I lavoratori più coscienti cercheranno in tutti i modi di adeguare la loro organizzazione principale ai bisogni dell’epoca.
Un terremoto politico si prepara
Durante la lotta contro la riforma del lavoro, il congresso provinciale del Var è stato aperto dall’ovazione per alcuni lavoratori che mostravano, come un trofeo, il contatore dell’elettricità di una delle ville di vacanza del presidente di Confindustria Pierre Gattaz. Il distacco di quel contatore era una risposta alle dichiarazioni vergognose del capo dell’organizzazione padronale che paragonava l’azione della Cgt al terrorismo (“Bisogna fare in modo che le minoranze che si comportano come dei mascalzoni, come dei terroristi, non blocchino tutto…”, Le Monde, 30 maggio 2016). Negli stessi giorni, gli elettricisti Cgt di numerose province francesi avevano fornito dimostrativamente, per un giorno o poco più, corrente elettrica gratuita a centinaia di migliaia di famiglie. Qualche settimana prima, i tipografi della Cgt si erano rifiutati di stampare i giornali che non avevano pubblicato una dichiarazione di Martinez sulla riforma del lavoro, innervosendo il solito Gattaz che aveva parlato di “dittatura staliniana” (Le Monde, 14 maggio 2016). In aneddoti di tale natura si esprime una crescente polarizzazione di classe e politica. È parte dello stesso fenomeno la reazione esemplare – compatta e senza estetismi – dei portuali di Le Havre contro le cariche della celere al corteo parigino del 14 giugno. Chi aveva pontificato su una svolta a destra della Francia dopo la crescita elettorale del Fronte nazionale (Fn) alle regionali del dicembre 2015 dovrebbe ricredersi. In quelle elezioni, peraltro, il 62 per cento degli operai ed il 70 per cento dei giovani si era astenuto. Ora, la collera sociale è uscita dal silenzio.
Il livello di coscienza politica dei cortei della primavera 2016 s’è palesato in molti modi. Uno dei più visibili era il rigetto profondo del Ps, oggetto di sberleffi e striscioni che variavano dal rabbioso al furioso. Il passaggio in parlamento della riforma ha, inoltre, logorato persino i rapporti del Ps e della sua “fronda” – critica ma alla fine prona ai diktat di Valls e Hollande – con la burocrazia di Force ouvrière (Fo), terzo sindacato di Francia, trascinato nella lotta dalla sua base. La direzione apertamente borghese di Emmanuel Valls potrebbe presto sprofondare il Ps ai margini della vita politica francese. Gli iscritti sono al minimo storico. La direzione ne ha dichiarati 110mila, un’inchiesta di Le Monde ne ha stimati poco più di 60mila. Anche le federazioni con qualche radi-camento nella classe stanno affondando. Nella federazione del Nord, con capitale Lilla, gli iscritti sono 5mila, la metà di 10 anni fa; a Marsiglia città, seconda città di Francia, gli aderenti sono 850. Le sbruffonate pronunciate nel 2014 da Cambadélis (“Nel 2017 toccheremo i 500mila iscritti!”) suonano ridicole. Le presidenziali del 2017 sono già un incubo per il Ps, tetragono nel provare a ripresentare Hollande, il Presidente della Repubblica più impopolare degli ultimi decenni.
Malgrado ciò, il Pcf non avanza. Questa stagnazione si inserisce in un calo di lunga durata degli iscritti (da 99mila nel 2006 a 53mila nel 2016) e dei partecipanti al dibattito congressuale (da 46mila nel 2006 a 30mila nel 2016)5. In più, il Front de gauche (Fdg, Fronte di sinistra) – alleanza elettorale tra il Pcf ed il Parti de Gauche (Pg, Partito di sinistra) di Mélenchon – è ormai irrimediabilmente in frantumi. Il Pcf paga la sua politica di non rottura col Ps: il voto a favore delle leggi d’emergenza, l’astensione sui bombardamenti in Siria, gli eterni e sempre identici appelli al Ps perché cambi rotta, l’alleanza elettorale alle amministrative di Parigi e di tantissime altre città piccole e grandi nell’intento palese di salvare il proprio apparato di sindaci ed assessori, ecc. Ciliegina sulla torta, l’attuale direzione del partito, votata dal 51 per cento dei partecipanti al dibattito congressuale della primavera 2016, propone delle primarie della sinistra senza Hollande, ma col Ps, per definire il candidato di tutta la sinistra alle presidenziali del 2017. La proposta, peraltro, è sospesa in aria. Hollande, infatti, parteciperà alle primarie socialiste e, alla sinistra del Pcf, Mélenchon ha già annunciato la sua candidatura.
La direzione del Pcf ha annunciato che prenderà una decisione a novembre. Nel frattempo, la campagna di Mélenchon ha preso avvio, proponendo con più chiarezza che in passato una rottura col Ps – ed è questo punto soltanto che fa esitare il segretario del Pcf Pierre Laurent. I toni radicali assunti da Mélenchon lo stanno proiettando già attorno al 15 per cento delle intenzioni di voto; in alcuni sondaggi, è appaiato ad Hollande. Per questa campagna elettorale, Mélenchon ha deciso di fondare un nuovo movimento politico, France Insoumise (Francia insubordinata), che dovrebbe andare molto oltre il suo Pg, rimasto fermo a circa 5mila iscritti. Al momento, comunque, i quadri del Pg costituiscono l’ossatura di France Insoumise, movimento estremamente legato al carisma politico di Mélenchon. I margini di crescita per la candidatura di Mélenchon sono ancora importanti: molti milioni di giovani e di lavoratori sono oggi disposti a votare un candidato alla sinistra dello scenario a tre – socialisti, destra gollista ed estrema destra del Fn – prefigurato dai sondaggi. Molto dipenderà anche dall’atteggiamento di Mélenchon. La vaghezza sui mezzi coi quali redistribuire la ricchezza prodotta o gli appelli al protezionismo, presenti nell’approccio di Mélenchon, non renderanno certo la sua proposta più credibile. La necessità di un programma marxista basato sulla forza della classe lavoratrice e sulla prospettiva dell’esproprio della grande borghesia è decisamente attuale.
In ogni caso, la candidatura di Mélenchon muoverà forze vive e non cristallizzate. I suoi appelli contro i 9 miliardari che posseggono il 90 per cento della stampa francese susciteranno simpatia e appoggio. Il suo primo comizio a Parigi ha raggruppato 10mila persone e nel paese esistono già 1.300 comitati di sostegno. Le forze del marxismo potranno inserirsi in un flusso di massa, stimolare il dibattito generato dalla campagna presidenziale di Mélenchon e temprare nuove forze negli eventi epocali ormai alle porte.
Note
1. Il Medef (Mouvement des entreprises de France) è l’associazione del padronato francese, denominatosi fino al 1998 più schiettamente Cnpf (Confédération nationale du patronat français).
2. La Confédération générale du travail (Cgt), fondata nel 1906 ad Amiens, è l’organizzazione sindacale più vecchia di Francia. Egemonizzata fino allo scoppio della Prima guerra mondiale dalla tendenza sindacalista rivoluzionaria, la Cgt è stata in seguito diretta dai capi del riformismo socialista, in primis Léon Jouhaux, fino alla fine della Seconda guerra mondiale, quando il Pcf stalinizzato ne conquistò saldamente il controllo per mezzo secolo. Ora i legami tra l’apparato della Cgt e quello del Pcf rimangono ma, in ragione dell’indebolimento epocale dello stalinismo e di quel partito, sono sempre più platonici e i dirigenti del sindacato agiscono con un notevole grado di autonomia.
3. Non esistono dati ufficiali sul numero di funzionari sindacali in Francia. Alcuni studi stabiliscono in 40mila il numero effettivo. In ogni caso, rispetto alla fine degli anni ’60, il numero di lavoratori iscritti ai sindacati si è dimezzato, mentre la quantità di funzionari sindacali sarebbe più che raddoppiata. Per questo e per un’analisi dettagliata dei finanziamenti che giungono ai sindacati tramite la gestione degli enti bilaterali e della formazione professionale, cfr. D. Andolfatto e D. Labbé, Toujours moins, Gallimard, Parigi, 2009.
4. Nel mese di marzo il segretario generale Martinez ha rigettato l’appello del segretario dei ferrovieri, Gilbert Garrel, di abbonare ogni sezione della Cgt a l’Humanité, giornale del Pcf che versa in una grave crisi finanziaria.
5. Per un’analisi più dettagliata dei dati, cfr. l’articolo di Roger Martelli, “Pcf, l’ère des incertitudes” del 9 maggio 2016 (http://www.regards.fr/web/article/pcf-l-ere-des-incertitudes).