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FAQ sul Marxismo

Presentiamo in questo spazio una serie di risposte ai luoghi comuni più diffusi e alle domande più frequenti su temi come il marxismo, il socialismo e la rivoluzione. Lo scopo è quello di armarci con gli argomenti necessari a difendere in maniera corretta le idee marxiste e di dotarci di alcuni strumenti indispensabili nella lotta per la trasformazione rivoluzionaria della società.

 


Molte persone sembrano disposte ad accettare che il capitalismo non sia in grado di risolvere problemi come la disoccupazione, i senzatetto, la fame e la guerra. E sarebbero d’accordo sul piano teorico sul fatto che, se le vaste risorse del mondo fossero usate razionalmente per soddisfare i bisogni umani piuttosto che per i profitti di pochi miliardari, a tutti sul pianeta potrebbero essere garantite condizioni di vita decenti.
La classe dominante, per garantire la sopravvivenza di un sistema in cui otto individui controllano tanta ricchezza quanto la metà della popolazione mondiale messa insieme, ci fa credere che è nella natura dell’umanità essere avidi ed egoisti, che lo stato attuale delle cose sia naturale e che qualsiasi tentativo di creare un sistema più egualitario sia destinato a fallire. Quindi non pensateci nemmeno! Questo può sembrare convincente, in particolare visti i fallimenti dello stalinismo nel XX secolo. Ma cos’è davvero la “natura umana”?
Più si guarda indietro nella storia, più diventa difficile parlare di un insieme universale di valori applicabile a tutti gli esseri umani in ogni epoca. Per esempio, è nella nostra “natura” rendere altri esseri umani schiavi? Le classi dominanti dell’antichità greco-romana lo sostenevano, ma chiaramente non è così. Gli esseri umani come noi li conosciamo esistono da circa 200.000 anni, con tracce di vita ominide che risalgono fino a 6-7 milioni di anni fa. Mentre l’uso di utensili risale a 3 milioni di anni fa. Per la maggior parte della nostra storia abbiamo vissuto in tribù in cui vigeva una situazione di “comunismo primitivo”, dove non c’erano né ricchi né poveri, né classi sfruttatrici né sfruttate, né denaro, né polizia, né prigioni. Gli strumenti e i beni di una tribù appartenevano ad ogni membro ed erano in comune, a disposizione di tutti. Poiché la produttività del lavoro era bassa, era impossibile per chiunque vivere sfruttando il surplus di lavoro degli altri. I singoli individui mettevano la tribù prima di loro stessi. Le società divise in classi, cioè i sistemi basati sullo sfruttamento della maggioranza da parte di una minoranza, sono esistite solo negli ultimi 6-12.000 anni, da quando si è sviluppata l’agricoltura al posto della semplice raccolta dei frutti della terra.
La prima prova chiara di una società strutturata in classi completamente formata risale a solo circa 5.500 anni fa, con la civiltà dei Sumeri e l’inizio dell’età del bronzo. È all’interno di queste società che un numero ristretto di persone – la classe degli sfruttatori – sono “indotte” dalla loro posizione di governanti ad agire in modo avido ed egoistico. Se non agissero spietatamente e nel proprio interesse, cesserebbero di godere delle loro posizioni di potere, poiché individui più spietati prenderebbero il loro posto.
Quindi sotto il capitalismo è la prospettiva della classe dominante, necessariamente egoista e avida, che ci viene presentata come applicabile a tutti gli esseri umani, in ogni luogo e in ogni tempo, vale a dire come parte della nostra “natura” intrinseca. Tuttavia questo non è ovviamente vero, come dimostrano milioni di atti di solidarietà e gentilezza che si vedono ogni giorno in tutto il mondo, dai vigili del fuoco che rischiano la loro vita per salvare gli altri, alla gente comune che, dedicandosi al volontariato, sacrifica tempo e denaro per aiutare degli sconosciuti in difficoltà. Ciò che non è certo “naturale” è che quasi tutti i mezzi di produzione (comprese le risorse naturali, l’industria e la tecnologia) siano di proprietà di privati e controllati da una piccola minoranza della popolazione. Liberando l’economia dai vincoli della produzione per il profitto, potremmo facilmente produrre abbastanza perché tutti possano prendere liberamente ciò di cui hanno bisogno ed anche di più! In una società dell’abbondanza, l’idea di accumulare più di quanto si possa usare diventerebbe un’assurdità, proprio come in un ufficio con un armadio di cancelleria ben fornito, nessuno accumula le proprie scorte di carta e penne. Come spiegava Marx, sono le condizioni materiali a determinare in ultima analisi la coscienza, non il contrario. Se siete d’accordo con un programma socialista ma credete che la “natura umana” sia un ostacolo, chiedetevi se è nella vostra natura voler sfruttare spietatamente gli altri. Se non lo è, allora perché dovrebbe essere vero per tutte le altre persone?

È celebre l’osservazione di Einstein per cui “la follia è fare la stessa cosa più e più volte e aspettarsi risultati diversi”. Allora perché, se il socialismo è stato realizzato e apparentemente ha fallito (come ci viene detto), i marxisti si battono ancora per il socialismo? Per rispondere a questa domanda è importante capire cosa è successo in Unione Sovietica e negli altri paesi che si definivano “socialisti”. Nel 1917 la classe operaia in Russia prese il potere sull’onda di un movimento rivoluzionario di massa. La direzione dell’economia fu tolta dalle mani dei capitalisti e dei proprietari terrieri e la società iniziò ad essere gestita in base al controllo democratico degli operai e dei contadini poveri, esercitato attraverso i consigli dei lavoratori (conosciuti come “soviet”). Tali misure rappresentavano l’inizio di una transizione dal capitalismo al socialismo. Tuttavia Lenin, Trotskij e i bolscevichi non hanno mai pensato che sarebbe stato possibile “costruire il socialismo in un paese solo”, ma consideravano la Rivoluzione russa come il primo passo della rivoluzione mondiale.
Poiché il capitalismo è un sistema mondiale, allo stesso modo deve esserlo anche il socialismo. Questo orientamento trovò ben presto conferma nella realtà concreta, quando rivoluzioni o situazioni rivoluzionarie si svilupparono in tutta Europa dopo la fine della prima guerra mondiale: in Germania, Austria, Ungheria, Italia, Francia, Spagna e persino Gran Bretagna. Se la classe operaia non riuscì a prendere il potere in questi paesi non fu per mancanza di determinazione, ma per la mancanza di un partito rivoluzionario in grado di convogliare tutta l’energia delle masse verso la conquista del potere. La Rivoluzione russa rimase isolata, senza la possibilità di collegare le sue vaste risorse naturali all’industria avanzata dell’Europa occidentale e con un’economia a pezzi dopo anni di guerra. Come marxisti, comprendiamo che la capacità di creare una società libera dagli orrori della povertà, della disoccupazione, della fame e così via, è determinata in ultima analisi dal livello delle forze produttive (industria, agricoltura, scienza e tecnica), così come dalla loro proprietà e dal loro controllo. Marx stesso ha affermato: “Questo sviluppo delle forze produttive è una premessa materiale assolutamente necessaria [del comunismo], poiché senza di essa la penuria è generalizzata, e con essa ricomincia la lotta per la necessità e questo significa l’inevitabile risorgere di tutto il vecchio ciarpame.”
La Russia dei primi anni ’20, dopo un lungo periodo di guerra, subì un catastrofico collasso industriale e agricolo. La penuria era davvero generalizzata. Fu in questo contesto, con milioni di lavoratori morti o esausti dopo anni di lotte, che la partecipazione ai soviet si ridusse considerevolmente e uno strato di burocrati privilegiati cominciò a usurpare il controllo della società. Già nel 1920 il numero di funzionari statali e burocrati ammontava a quasi 6 milioni. La maggior parte di questi proveniva dagli strati privilegiati del vecchio regime zarista. Stalin rappresentava proprio questo settore sociale e fu grazie ad esso che riuscì a prendere il potere. Da qui l’instaurazione di una dittatura totalitaria, che era necessaria per mantenere il dominio sui burocrati e distruggere ogni legame con le genuine tradizioni della Rivoluzione d’ottobre. Oltre a sterminare i vecchi bolscevichi, fu schiacciata ogni forma di democrazia operaia. Senza la partecipazione democratica della classe operaia alla pianificazione e alla gestione della società, l’economia sovietica fu soffocata dalla cattiva gestione burocratica e dagli sprechi.
Con l’economia sovietica stagnante, negli anni ’90 uno settore di burocrati si mosse verso la restaurazione del capitalismo (con loro stessi ora nel ruolo di nuovi milionari), come Trotskij aveva previsto decenni prima nel libro La rivoluzione tradita. Nonostante gli orrori del regime stalinista, che gli autentici marxisti non hanno mai sostenuto, la restaurazione del capitalismo fu un disastro per la classe operaia. Il compito della classe lavoratrice oggi è quello di lottare per il vero socialismo, non per la rozza distorsione rappresentata dai regimi stalinisti. È lo stalinismo che alla fine ha fallito, non il socialismo. Per i marxisti, la democrazia dei lavoratori è la linfa vitale di uno Stato socialista. La cosa più importante è capire che il socialismo in un paese solo non è possibile. Ecco perché siamo internazionalisti, ecco perché lottiamo per il socialismo non solo qui in Italia, ma in tutto il mondo. Questo è il socialismo per cui lottiamo, un socialismo che spazzerà via il vero disastro dei tempi moderni: il capitalismo.

In superficie questa idea sembra attraente. Piuttosto che le tempeste ed i problemi di una rivoluzione, non sarebbe molto più facile vincere semplicemente le elezioni, ottenere una maggioranza in parlamento e promulgare riforme progressive in modo da trasformare lentamente, un po’ alla volta, il capitalismo in socialismo? È vero che in passato la classe operaia ha ottenuto riforme significative in questo modo. Lo stato sociale, il servizio sanitario nazionale, la sicurezza sul lavoro, la giornata lavorativa di otto ore – tutto questo è stato conquistato attraverso la lotta all’interno del sistema esistente. Non è quindi strano contrapporre riforme e rivoluzione, come se si potesse avere solo le une o l’altra? I veri marxisti non hanno mai rifiutato la lotta per le riforme sotto il capitalismo. Non diciamo “ci limitiamo ad aspettare la rivoluzione, quando tutti i nostri problemi saranno risolti”. Combatteremo vigorosamente per qualsiasi riforma autenticamente progressista che vada a beneficio della classe lavoratrice. Marx ha sottolineato che è nella lotta per le riforme sotto il capitalismo che la classe operaia arriva a comprendere la propria forza. È attraverso queste lotte che i lavoratori sviluppano la propria coscienza di classe e costruiscono le loro organizzazioni, come i sindacati e i partiti politici. È anche attraverso queste lotte che i lavoratori imparano in prima persona i limiti delle riforme sotto il capitalismo. Questo è particolarmente vero nei periodi di crisi come quello che viviamo oggi.
In passato la classe dominante, quando veniva sottoposta a una forte pressione dal basso, era disposta a concedere alcune riforme, anche se sempre in conseguenza dell’iniziativa della classe lavoratrice. Soprattutto quando l’economia cresceva, poteva permettersi di fare concessioni per mantenere la pace sociale. Ed infatti le riforme più significative sono state concesse dall’alto, proprio per evitare una rivoluzione dal basso. Così, per un certo periodo, le classi dominanti europee si sono riconciliate con l’idea dello “stato sociale”. Questo è stato reso possibile anche dalla massiccia espansione dell’economia durante il boom del dopoguerra. Il problema è che quello che i capitalisti concedono un giorno, se lo riprendono il giorno dopo. Questo avviene soprattutto durante una crisi, quando al fine di mantenere i loro margini di profitto, i capitalisti cercano di strappare alla classe lavoratrice tutte le conquiste del passato. Piuttosto che spendere soldi in riforme, sono le controriforme ad essere all’ordine del giorno.
A partire dalla crisi degli anni ’70, molte delle riforme progressiste del dopoguerra sono finite sotto attacco. Le industrie nazionalizzate sono state privatizzate, le pensioni e i salari ridotti, le case popolari sono state svendute e il servizio sanitario nazionale è in grave crisi. Tutto perché i ricchi possano continuare ad arricchirsi a nostre spese. Questi attacchi possono essere respinti ma in un periodo di crisi mondiale, questo richiede una rottura con il capitalismo. Sono le esigenze del mercato (cioè gli interessi dei banchieri e dei miliardari) a dettar legge ai governi, non il contrario. Come marxisti, capiamo che problemi come la povertà, la disoccupazione, le crisi e la guerra sono prodotti inevitabili del sistema capitalista. Nessun provvedimento che preveda di tassare i ricchi o di concedere denaro in prestito, cambierà questa situazione.
È necessario prendere il controllo delle leve chiave dell’economia e pianificare il loro utilizzo democraticamente, al fine di soddisfare i bisogni della popolazione come parte di un piano socialista di produzione sotto il controllo e la gestione dei lavoratori. Immaginare che un governo socialista possa farlo gradualmente – nazionalizzare questa industria un anno, quella banca l’anno successivo e così via – vuol dire ignorare l’intera storia della lotta di classe. È come immaginare di poter vincere una partita a scacchi dove solo i propri pezzi possono muoversi. In realtà l’altra parte contrattacca, se necessario ferocemente. Nessuna classe dominante ha mai rinunciato al suo potere e ai suoi privilegi senza combattere. Ecco perché abbiamo bisogno di una rivoluzione, per togliere finalmente il potere e il controllo dalle mani di una piccola minoranza di capitalisti e assicurare così riforme profonde e durature che trasformeranno il mondo.

Secondo gli apologeti del capitalismo, non c’è niente di più efficiente del “libero mercato”. Ma quando si tratta di provvedere ai bisogni della società, cose come il cibo o gli alloggi per esempio, l’economia di mercato dimostra tutta la sua inefficienza. La sola e unica ragione per cui i capitalisti investono nella produzione è quella di realizzare un profitto. I bisogni sociali delle persone non figurano affatto nei loro calcoli. Tutto ciò che li preoccupa è come spremere nel modo più efficiente quanto più lavoro non pagato dalla classe lavoratrice per massimizzare i loro profitti. L’inefficienza del capitalismo è rivelata chiaramente dalla disoccupazione cronica che è oggi una caratteristica permanente del “mercato del lavoro”.
Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la disoccupazione globale ammonta a più di 200 milioni di persone ed è ancora in aumento. Questo è un colossale spreco del potenziale dell’umanità. In un’economia socialista pianificata, i talenti produttivi di tutti potrebbero essere utilizzati al massimo e il peso del lavoro necessario condiviso tra tutti. Sotto il capitalismo, molto del lavoro che potrebbe essere fatto dalle macchine è ancora svolto dagli uomini, poiché è più redditizio impiegare lavoratori a basso salario che investire in una tecnologia più efficiente. Sotto il socialismo libereremmo il potenziale delle macchine al massimo, aumentando la produttività e permettendoci di ridurre la settimana lavorativa a poche ore. Rispetto ad un’economia pianificata razionalmente, il capitalismo è enormemente dispendioso. Si stima che produciamo abbastanza cibo per sfamare la popolazione mondiale diverse volte, eppure milioni di tonnellate di generi alimentari vengono distrutte ogni anno, per mantenere alti i prezzi di mercato (e quindi i profitti). Allo stesso tempo, più di cinque milioni di persone muoiono di fame ogni anno, perché non possono permettersi un’alimentazione adeguata. Dal punto di vista dei bisogni della società, ogni anno vengono sprecate enormi somme di denaro in spese totalmente improduttive. Solo nel 2019, più di 600 miliardi di dollari sono stati spesi globalmente in pubblicità e 1.917 miliardi di dollari sono stati investiti in spese militari!
L’idea di pianificare la produzione non è estranea ai capitalisti, purché vada a beneficio del loro profitto. Infatti all’interno di ogni azienda capitalista c’è un alto grado di pianificazione. Prendete, per esempio, una casa automobilistica come la Ford. Non lasciano che sia il “mercato” a decidere i modi e i tempi con cui ogni componente arriverà alla fabbrica, il numero di operai e la durata di ogni turno, o la distribuzione delle auto finite. Queste cose vengono pianificate con largo anticipo su scala globale, utilizzando le risorse digitali, per ridurre i costi di produzione e massimizzare l’efficienza. Tuttavia quando si tratta di pianificare la produzione nel suo insieme, i capitalisti indietreggiano. Questo perché non si può davvero pianificare razionalmente l’economia per tutti i nostri bisogni, senza che la classe lavoratrice si impadronisca delle posizioni di comando dell’economia e le sottoponga a un controllo democratico – cioè che le sottragga dalle mani dei capitalisti.
La maggior efficienza della pianificazione rispetto al mercato è stata riconosciuta durante la Seconda guerra mondiale, quando in diversi paesi lo Stato introdusse nell’economia un alto grado di pianificazione per produrre le munizioni necessarie al conflitto e per sostenere l’economia del fronte interno con risorse molto limitate. L’ascesa dell’URSS, che nel girò di pochi decenni passò dall’essere un paese arretrato e semi-feudale a diventare la seconda superpotenza mondiale, testimonia i benefici della pianificazione.
Fu solo a causa della natura burocratica della pianificazione sotto lo stalinismo, che questa economia alla fine dovette soccombere sotto il peso della corruzione e della cattiva gestione. I marxisti non prevedono l’attuazione di un piano di produzione socialista in modalità burocratiche, dall’alto verso il basso. Rivendicano invece il coinvolgimento dei più ampi settori della società nel determinare quali risorse sono disponibili e come possono essere usate più efficacemente per soddisfare i nostri bisogni in armonia con l’ambiente. Il fatto che otto miliardari controllino tanta ricchezza quanto la metà più povera dell’umanità messa insieme, mostra il vero significato dell'”efficienza” capitalista. Sotto il socialismo, con il controllo e la gestione dei lavoratori, saremmo in grado di utilizzare tutte le nostre risorse – umane, materiali e scientifiche – e combinarle in modo efficiente per massimizzare il nostro benessere e vivere la vita al massimo delle sue potenzialità.

Gli autentici marxisti sono sempre stati internazionalisti. Marx ed Engels, come è noto, scrissero nel Manifesto del Partito comunista: “Gli operai non hanno patria” e “Lavoratori di tutti il mondo, unitevi!”. Per mettere in pratica queste idee, i marxisti hanno costruito una serie di organizzazioni rivoluzionarie internazionali, a partire dall’Associazione Internazionale dei Lavoratori, la cosiddetta Prima Internazionale, fondata da Marx ed Engels, e più tardi la grande Internazionale Comunista (la Terza Internazionale), fondata da Lenin e Trotskij. In queste organizzazioni, i “partiti” nazionali erano considerati solo come sezioni di un’unica organizzazione rivoluzionaria mondiale. Questo non era dovuto a qualche idea utopica, o al sentimentalismo. La necessità di una rivoluzione mondiale deriva dallo sviluppo del capitalismo stesso come sistema mondiale.
Nei primi anni del capitalismo, lo sviluppo degli Stati nazionali fu un fattore progressista, che fece avanzare la società. In contrasto con i limiti ristretti delle città-stato e dei principati isolati del feudalesimo (ognuno con le proprie leggi, consuetudini, unità di misura e i propri sistemi fiscali), si svilupparono Stati più grandi che unificarono le nazioni in un unico mercato e in un unico sistema politico. Questo era necessario perché il capitalismo potesse decollare, dato che i mercati delle piccole città e delle singole regioni erano insufficienti per sviluppare l’industria su larga scala. Ad un certo punto, però, anche i mercati più vasti sviluppati dagli Stati nazionali si dimostrarono insufficienti a tenere il passo con la crescita delle forze produttive. Il mondo intero fu così colonizzato dalle potenze imperialistiche, dando luogo allo sviluppo di un mercato mondiale. Lo Stato nazionale, da fattore progressivo che incoraggiava la crescita, si trasformò nel suo opposto: un ostacolo regressivo allo sviluppo dell’umanità, che ha invece bisogno di utilizzare nella maniera più libera e completa le risorse di tutto il mondo, senza vincoli di frontiera e di competizione per le risorse.
Oggi nessun paese può sfuggire al dominio schiacciante del mercato mondiale, che funziona come un’unica entità interconnessa. Da qui i tentativi di superare questo problema attraverso blocchi commerciali come l’Unione Europea e vari altri accordi tra paesi. Tuttavia, come dimostra la crisi in Europa, anche questi giganteschi accordi commerciali non sono in grado di proteggere i paesi contrenti dagli effetti della crisi del capitalismo, tanto che un governo dopo l’altro deve affrontare crisi economiche e sociali. La cosiddetta libera concorrenza sotto il capitalismo tende al monopolio, poiché le imprese più forti fagocitano le più deboli. Questa tendenza ha portato all’emergere di aziende veramente globali, i cui bilanci superano di gran lunga quelli di molti Stati nazionali. Il rovescio della medaglia di queste imprese giganti è che rappresentano per i lavoratori di diversi paesi un nemico comune. «Gli operai non hanno patria» non è mai stato più vero. Per esempio gli operai di Amazon negli Stati Uniti e in Europa hanno molto più in comune tra di loro che con Jeff Bezos! I lavoratori di tutti i paesi condividono un comune interesse di classe nel cambiare la società. Lo sviluppo del mercato mondiale e delle imprese globali significa anche che la crisi del capitalismo è globalizzata. L’unica risposta per la classe dominante di ogni paese è “ripristinare i margini di profitto” attaccando i salari, le condizioni di vita dei lavoratori e i servizi pubblici – cioè una “corsa al ribasso” globale. Questa austerità globale sta producendo un contraccolpo della stessa portata.
Sviluppi rivoluzionari stanno avvenendo in un paese dopo l’altro. Inoltre una rivoluzione socialista vittoriosa in un paese avrebbe un enorme effetto su tutti gli altri – tutta la storia dimostra che le rivoluzioni raramente si fermano ai confini nazionali. Perché liberi veramente il potenziale dell’umanità, il socialismo deve essere più produttivo e più efficiente del capitalismo, che si basa sullo sfruttamento delle risorse del mondo intero. Queste risorse, invece di essere saccheggiate da una manciata di capitalisti super-ricchi, potrebbero essere sviluppate razionalmente a beneficio di tutti. Ma questo potrà essere fatto solo se la classe operaia prenderà il potere in una serie di paesi e questi si uniranno volontariamente in una Federazione mondiale di Stati socialisti. Questo è il motivo per cui siamo internazionalisti. Avanti verso la rivoluzione mondiale! Abbiamo un mondo da guadagnare!

Ci viene spesso detto che il socialismo è una bella idea in linea di principio, ma che inevitabilmente fallirebbe perché, senza la spinta al profitto, si fermerebbe tutta l’innovazione. Se è vero che negli ultimi 300 anni (più o meno) abbiamo visto alcune delle più significative scoperte tecnologiche nella storia dell’umanità, non è corretto vedere l’arricchimento personale come l’unico motore di queste innovazioni. I nostri antenati ominidi hanno sviluppato i primi strumenti in pietra circa 2,6 milioni di anni fa. Tra allora e il primo presunto sviluppo delle società di classe (circa 8-10.000 anni fa), i nostri predecessori scoprirono come usare il fuoco, costruire rifugi, realizzare indumenti, creare strumenti musicali, dipingere muri, cuocere ceramiche e molto altro.
Per tutta la preistoria dell’umanità, tutte le proprietà erano condivise da tutti i membri della tribù o del clan. Non c’erano soldi, né ricchi né poveri, né sfruttati né sfruttatori. La sopravvivenza del gruppo dipendeva dal fatto che tutti i membri mettessero in comune le loro abilità e il loro lavoro attraverso la cooperazione. Le innovazioni che risparmiavano lavoro avrebbero aumentato o mantenuto gli standard di vita collettivi dell’intera tribù. Questo cambiò con lo sviluppo delle tecniche agricole e con la nascita di una piccola classe parassitaria che viveva sfruttando il surplus di lavoro degli altri. È vero che la competizione tra classi dominanti, per esempio tra diversi imperi antichi, diede un ulteriore impulso allo sviluppo della tecnologia. In generale si può affermare che quelli con le economie più efficienti, in particolare quando si arrivava ad una guerra, conquistavano quelli meno sviluppati.
Questa spinta competitiva raggiunse la sua forma più completa quando la prima borghesia si liberò della dominazione feudale e aprì la strada al capitalismo. La competizione reciproca costrinse i capitalisti a investire una parte dei loro profitti in nuove tecnologie per risparmiare lavoro. Quelli che erano avanti in questo gioco potevano produrre beni più economici e quindi spingere i loro concorrenti fuori dal mercato. Per questo motivo il primo periodo del capitalismo vide la produttività del lavoro svilupparsi in misura molto maggiore rispetto al passato.
Oggi, tuttavia, gli economisti tradizionali sono perplessi di fronte a quello che chiamano “l’enigma della produttività”: perché la produttività globale si è appiattita ed è persino diminuita a partire dal 2008? Questo significa che l’innovazione si è fermata? Per i marxisti, il problema centrale non è la mancanza di innovazione, ma è soprattutto l’incapacità dei capitalisti di utilizzare in maniera profittevole le nuove tecnologie in grado di diminuire la quantità di lavoro necessaria. Perché investire nell’espansione della produzione, quando il mercato mondiale è già saturo a causa della crisi di sovrapproduzione? Con l’abbassamento dei salari e l’aumento della “flessibilità” del lavoro dopo la crisi, perché investire in costose macchine per ridurre il lavoro, quando è più economico, cioè più profittevole, impiegare lavoratori con salari da fame? Quindi invece di far avanzare l’innovazione, oggi la produzione per il profitto la rallenta.
La maggior parte dei lavoratori sa molto bene come si potrebbe migliorare l’efficienza della produzione sul loro posto di lavoro. Tuttavia si tengono queste idee per sé, perché sanno che non verrebbero messe in pratica per ridurre i carichi di lavoro e migliorare le condizioni lavorative di tutti, quanto piuttosto per lasciare a casa una parte dei dipendenti e sovraccaricare quelli che rimangono. Sono i padroni e gli azionisti che ne riceverebbero i benefici. Sotto il socialismo, invece, tutti sarebbero incentivati a utilizzare appieno la tecnologia più efficiente per risparmiare lavoro, poiché tutti beneficerebbero di orari di lavoro più brevi.
Piuttosto che creare disoccupazione di massa, come sotto il capitalismo, con un’economia pianificata potremmo distribuire armoniosamente tutto il lavoro necessario tra tutti, senza perdita di salario. Non è vero che l’arricchimento privato è l’unico fattore che incoraggia le persone a innovare. Infatti, sotto il capitalismo, la maggior parte di chi sviluppa le innovazioni, lavora o nei laboratori di ricerca universitari, o nei dipartimenti di ricerca e sviluppo delle grandi società. Le loro scoperte raramente fruttano loro dei profitti, che vanno invece agli azionisti delle aziende che finanziano il loro lavoro. Lungi dal fermarsi, sotto il socialismo l’innovazione e la scienza sarebbero veramente libere di svilupparsi, così da permettere all’umanità di raggiungere il suo pieno potenziale. Con la riduzione della settimana lavorativa, l’accesso all’istruzione per tutti e il controllo democratico sulla produzione, le innovazioni non sarebbero più appannaggio di uno strato privilegiato, ma sarebbero a disposizione – e a beneficio – di tutti.

Contrariamente alla vulgata che li dipinge come rivoluzionari assetati di sangue, la realtà è che i marxisti sono a favore di una rivoluzione pacifica per rovesciare il capitalismo. Solo gli psicopatici sosterrebbero attivamente una rivoluzione violenta, se un percorso pacifico fosse possibile. Il problema è che la storia ci insegna che nessuna classe dominante ha mai rinunciato al suo potere e ai suoi privilegi senza combattere. Questo significa che la classe lavoratrice dovrebbe semplicemente accettare di essere sfruttata e rinunciare alla lotta per il socialismo?
No, i marxisti non sono pacifisti. Non accettiamo che semplicemente perché la classe dominante – una piccola minoranza – è pronta ad usare metodi violenti per mantenere la sua presa sulla società, dovremmo rinunciare alla lotta per un mondo migliore. Come minimizzare allora la resistenza violenta di una classe dominante che si rifiuta di uscire dalla scena della storia? Paradossalmente non rinunciando ai metodi violenti, ma preparando la nostra classe a difendersi affrontando qualsiasi resistenza a testa alta, se necessario con la forza. Immaginate se in una battaglia un esercito di 10.000 soldati disarmati affrontasse un gruppo di dieci nemici, ognuno armato con una mitragliatrice. Ne seguirebbe un massacro. Ma se i 10.000 fossero tutti armati con mitragliatrici, probabilmente costringerebbero i 10 nemici ad arrendersi senza sparare nemmeno un colpo. La storia è piena di questi esempi.
Per esempio Salvador Allende in Cile immaginava che, firmando un patto con l’esercito per “rispettare la costituzione”, la classe capitalista (armata fino ai denti) si sarebbe sottomessa pacificamente alla volontà della classe operaia (disarmata). Le masse cilene però non erano così ingenue: più di un milione di lavoratori manifestarono davanti al palazzo presidenziale nel 1973 per chiedere le armi con cui difendere la rivoluzione. I loro appelli rimasero tragicamente inascoltati e pochi giorni dopo il generale Pinochet effettuò un colpo di Stato militare, imponendo violentemente una dittatura, durante la quale decine di migliaia di persone furono brutalmente arrestate, torturate e uccise, mentre altri milioni di persone soffrirono per mano del regime.
Al contrario, la Rivoluzione d’ottobre del 1917 a Pietrogrado fu un evento quasi incruento. Questo fu dovuto alla meticolosa preparazione dei bolscevichi nel conquistare politicamente la guarnigione militare di Pietrogrado e nel creare una milizia operaia per difendere la classe lavoratrice dalle bande armate controrivoluzionarie. La presa del potere fu descritta quasi come un’operazione militare, per cui in modo estremamente organizzato gruppi di soldati e guardie rosse presero il controllo dei centri del potere e li posero sotto il controllo democratico dei soviet. Nonostante alcuni deboli tentativi di rovesciare violentemente il governo bolscevico, l’ex classe dominante russa era estremamente demoralizzata, essendosi scontrata con un movimento di milioni di persone disposte a sacrificare tutto nella lotta per cambiare la società. Fu solo con l’intervento di forze imperialiste straniere – terrorizzate dal pericolo della diffusione della rivoluzione nei loro paesi – che iniziò il vero bagno di sangue della guerra civile. Mettendo a disposizione della controrivoluzione ben 21 eserciti stranieri, oltre a finanziamenti, armi e consiglieri militari, tentarono di affogare la rivoluzione in un mare di sangue, in difesa dei loro profitti.
Possiamo quindi vedere la disgustosa ipocrisia della classe dominante nel dare lezioni ai marxisti contro la violenza, mentre è proprio dalla loro violenza che dovremo difenderci! Questo moralismo pacifista dei capitalisti è particolarmente disgustoso, dal momento che proviene da una classe che ha mandato decine di milioni di lavoratori a morire in due guerre mondiali, allo scopo di spartirsi il mondo in base ai propri interessi economico-finanziari. Dobbiamo sottolineare, tuttavia, che è del tutto possibile per la classe lavoratrice prendere il potere pacificamente, a condizione di essere preparata a difendersi da qualsiasi contrattacco violento da parte dei capitalisti. A differenza della Russia nel 1917, la classe lavoratrice nella maggior parte dei paesi rappresenta oggi la stragrande maggioranza della società. La classe dominante – in crisi ovunque – troverà ben pochi sostenitori disposti a lottare per il ripristino dei loro osceni privilegi. Con l’attuazione del socialismo su scala mondiale, ci libereremo finalmente di questo sistema brutale che vede una piccola minoranza difendere violentemente il suo diritto di sfruttare e opprimere la stragrande maggioranza del mondo.

Si sostiene spesso che il socialismo e la democrazia siano in qualche modo “incompatibili”, di solito citando gli esempi storici della Russia stalinista e dei cosiddetti Stati “socialisti” modellati a sua immagine e somiglianza. Tuttavia, lungi da questa presunta incompatibilità, gli autentici marxisti hanno sempre sostenuto che una vera democrazia è essenziale perché il socialismo funzioni e si sviluppi. Sotto la “mano invisibile” del mercato, le leggi del capitalismo funzionano senza alcun controllo o piano generale. Tuttavia, sotto il socialismo, la produzione deve essere pianificata coscientemente a beneficio di tutti. Non è possibile che sia un esercito di burocrati seduti nei loro uffici a pianificare armoniosamente la produzione per soddisfare i bisogni di miliardi di persone in tutto il mondo. Devono invece essere coinvolti i settori più ampi possibili della popolazione nel compito di amministrare la società, al fine di realizzare tutto il suo potenziale.
Affinché la produzione sia ben pianificata sotto il socialismo, è vitale che la classe operaia abbia un controllo democratico sull’economia. Dove questo controllo è assente, può verificarsi ogni sorta di spreco burocratico e cattiva gestione, come è accaduto all’interno dell’URSS. Per esempio, al fine di raggiungere gli obiettivi di produzione (e quindi ricevere i loro bonus), i manager della burocrazia sovietica spesso trovavano il modo di raggiungere questi obiettivi sulla carta, mentre in pratica producevano beni inutili o difettosi. E’ spesso citato l’episodio di una fabbrica cui fu ordinato di produrre un milione di scarpe: il direttore raggiunse l’obiettivo facendo produrre un milione di scarpe sinistre! Esempi del genere si potrebbero moltiplicare a piacere nei regimi stalinisti. Questa situazione poté imporsi solo perché i lavoratori stessi erano esclusi dal controllo della produzione e dal potere politico.
Un regime che esige una cieca sottomissione ai burocrati privilegiati, porta alla demoralizzazione e all’apatia delle masse. In un clima in cui è vietata ogni critica, il potenziale di innovazione e dinamismo della classe operaia è soffocato. Solo nell’autentico socialismo, con la classe operaia al potere, è possibile una vera democrazia per milioni di persone. La “democrazia” capitalista significa che la grande maggioranza dei lavoratori è esclusa in mille modi dalla partecipazione democratica alla gestione della società. Non ultimo il fatto che milioni di persone sono costrette a passare la maggior parte della loro vita bloccate per lunghe ore in una fabbrica o in un ufficio e sono spesso troppo esauste per essere poi coinvolte nell’attività politica. Invece di avere un reale controllo sulle nostre vite, ci viene offerta (per parafrasare Marx) l’opportunità di votare ogni cinque anni circa per un deputato, di solito appartenente alla classe dominante, che (non) ci rappresenti in parlamento. Anche allora, il parlamento rimane uno schermo che nasconde il luogo dove vengono prese le vere decisioni che ci riguardano, cioè nei consigli di amministrazione delle banche e delle grandi imprese. Sulla base del capitalismo, è la classe dominante che detta al parlamento la linea da seguire, non il contrario.
La democrazia dei lavoratori sotto il socialismo, cioè la vera democrazia per milioni di persone, sarebbe molto più democratica di qualsiasi forma politica esistente sotto il capitalismo. I lavoratori in ogni luogo di lavoro e in ogni quartiere potrebbero eleggere dei delegati nei consigli che, a differenza del parlamento borghese, avrebbero l’autorità di attuare effettivamente le loro decisioni. Tutti i rappresentanti sarebbero democraticamente eletti, ma è fondamentale che siano anche tenuti a rendere conto del loro operato e che possano essere revocati in qualsiasi momento. Un’economia pianificata socialista permetterebbe la rapida riduzione dell’orario di lavoro. Per scoraggiare il carrierismo, tutti i rappresentanti eletti dovrebbero ricevere un compenso non superiore al salario medio di un lavoratore e non dovrebbero rimanere in carica più di un certo periodo, per permettere il massimo coinvolgimento nella gestione della società. In definitiva è il capitalismo ad essere incompatibile con un’autentica democrazia. Quando i lavoratori hanno eletto governi che minacciavano i profitti della classe dominante, i capitalisti più “democratici” non hanno esitato a insediare dittature militari, come in America Latina e in Medio Oriente. Solo con la democrazia dei lavoratori, sulla base del socialismo, la politica si trasformerà dalla democrazia dei pochi alla democrazia dei molti.

Molti sono d’accordo sulla necessità di una rivoluzione per liberare l’umanità dagli orrori del capitalismo, ma non su ciò che è necessario perché questa rivoluzione abbia successo. Secondo la maggior parte degli anarchici, non solo un partito rivoluzionario non è necessario, ma è addirittura dannoso. Secondo loro, il capitalismo crollerà a seguito di un’esplosione di energia rivoluzionaria da parte delle masse, o di uno sciopero generale. Una società senza classi e senza Stato si formerà spontaneamente sulla base di questi eventi. I marxisti condividono l’idea che i movimenti rivoluzionari di massa avranno luogo con o senza un partito rivoluzionario a dirigerli. L’incapacità del capitalismo di far avanzare la società porta ad un accumulo di rabbia e frustrazione sotto la superficie. Alla fine anche la più piccola scintilla può essere sufficiente a far esplodere questa rabbia in un movimento di massa. Occupare le piazze, o anche convocare uno sciopero generale, non è comunque sufficiente per rovesciare il capitalismo. “Incrociare le braccia” in uno sciopero danneggia sicuramente la classe dominante, ma questa ha le risorse o per fare delle concessioni o per aspettare che i lavoratori esauriscano le loro energie.
Per portare la rivoluzione alla vittoria, è necessario che la classe lavoratrice tolga il potere dalle mani dei capitalisti e costruisca una nuova forma di Stato. Questo non avverrà “spontaneamente”, ma richiede una pianificazione cosciente, un’organizzazione e una direzione. La classe operaia non è un blocco uniforme. Al suo interno ci sono diversi settori, con diversi livelli di coscienza, che possono giungere a conclusioni rivoluzionarie in tempi diversi. Ci sono strati più avanzati, coscienti della loro appartenenza di classe, così come strati più arretrati ancora sotto l’influenza della classe dominante. In ogni esplosione della lotta di classe, sia in uno sciopero che in una rivoluzione, i settori più avanzati in ogni posto di lavoro e nel movimento finiscono per giocare un ruolo di primo piano. In questo senso essi sono l'”avanguardia” della classe lavoratrice, che combatte in prima linea e si tira dietro gli altri settori. In una rivoluzione questa avanguardia può agire come una potente leva nel condurre la classe lavoratrice alla vittoria, purché sia organizzata in un partito armato delle idee corrette per cambiare la società. In fin dei conti un partito rivoluzionario è prima di tutto un programma, contenente i passi concreti necessari per cambiare il mondo. E adotterà certi metodi o tattiche di lotta per realizzare questo programma.
L’apparato del partito è solo lo strumento per mettere in pratica queste idee. Questo programma non cade dal cielo, ma si sviluppa dalla lotta di classe contro il capitalismo. Un partito rivoluzionario, generalizzando l’esperienza collettiva del movimento operaio, è in grado di mettere insieme le varie rivendicazioni (porre fine alla disoccupazione, aumentare i salari, ecc.) e definire i compiti concreti necessari per la loro realizzazione (prendere il controllo dell’economia, pianificare la produzione secondo le necessità, ecc.). Un tale partito, se ha radici profonde nella classe lavoratrice, può agire come catalizzatore nello sviluppo di una coscienza rivoluzionaria tra le masse. Tuttavia la sua funzione più vitale diventa evidente solo quando si pone direttamente la questione del potere, che si presenta in ogni situazione rivoluzionaria.
Se guidato da dirigenti risoluti che ispirano fiducia ai lavoratori e che sono in grado di definire chiaramente i compiti concreti per portare la lotta allo stadio successivo, questo partito, organizzando l’avanguardia, può attirare dietro di sé la grande maggioranza della classe lavoratrice verso la conquista del potere. Una tale organizzazione agisce come il pistone che concentra il vapore per far muovere un motore. Concentrando tutta l’energia delle masse sul punto di attacco, diventa una forza potente per cambiare la società. Se questo non accade, però, l’energia si disperde, come il vapore nell’aria. Basta guardare l’esperienza delle primavere arabe in Tunisia o in Egitto per vedere questa analogia confermata nella pratica. Milioni di persone sono scese in piazza in cerca di un cambiamento ma, senza un partito con un programma chiaro su come realizzare quel cambiamento, quell’energia si è dispersa, lasciando intatto il capitalismo. La crisi del capitalismo prepara movimenti rivoluzionari in tutti i paesi. Perciò, per assicurare il loro successo, è vitale che lavoriamo per costruire un’organizzazione rivoluzionaria internazionale, con sezioni in tutti i paesi, che sia in grado, quando verrà il momento, di svolgere questo ruolo dirigente.

Più di cento anni dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917 in Russia, siamo ancora costantemente bombardati da una propaganda senza fine, secondo la quale si trattò semplicemente di un colpo di Stato, realizzato da una piccola banda di cospiratori. La logica di questi attacchi è quella di dipingere Lenin e Trotskij come pazzi assetati di potere, che imposero spietatamente la loro volontà su una popolazione inconsapevole. Siamo portati a credere che, se non lo avessero fatto, una fiorente “democrazia” si sarebbe sviluppata in Russia, evitando gli orrori della guerra civile. Una rivoluzione non è un dramma in un unico atto, ma un processo che si svolge nel corso di mesi o anni. Lungi dall’essere il risultato dell’azione di piccole bande di cospiratori, una rivoluzione è un fenomeno su scala di massa, provocato dall’incapacità della classe dominante di sviluppare le forze produttive della società, vale a dire di far avanzare l’umanità. Questo fu provato su scala mondiale nel 1914 con lo scoppio della Prima guerra mondiale.
La crisi fu particolarmente acuta in Russia. All’inizio del 1917 le truppe erano congelate ed esauste al fronte, gli operai soffrivano la fame nelle città e i contadini erano schiacciati dai proprietari terrieri. La crisi raggiunse il punto di rottura nel febbraio di quell’anno, quando le masse rovesciarono lo zar. Ma il nuovo “Governo Provvisorio”, guidato da capitalisti e proprietari terrieri, non era in grado di offrire «pace, pane e terra» alle masse che lo avevano portato al potere. Accanto al Governo Provvisorio, gli operai, i contadini e i soldati istituirono i propri “soviet” (consigli) per rappresentare i loro interessi rivoluzionari. Tuttavia, nelle prime fasi della rivoluzione, a dominare i soviet furono i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, che usarono la loro influenza per sostenere il Governo Provvisorio della classe dominante. Quindi il regime si trascinava da una crisi all’altra, mentre continuava la guerra imperialista e non c’era alcun sollievo per le masse. Dopo il suo ritorno in Russia nel mese di aprile, Lenin sostenne che, poiché i bolscevichi erano in minoranza, il loro compito non era quello di tentare di prendere il potere, ma di “spiegare pazientemente” la necessità di trasferire tutto il potere ai soviet. Il 5 maggio 1917 scrisse: “Chiunque dica ‘prendere il potere’ non dovrebbe pensare a lungo per rendersi conto che un tentativo di farlo senza avere ancora l’appoggio della maggioranza sarebbe avventurismo.”
Durante i mesi estivi, l’entusiasmo delle masse verso il cambiamento incontrò una continua resistenza da parte dei leader menscevichi e socialisti rivoluzionari, che rifiutarono di prendere il potere. Così il loro sostegno nei soviet crollò, mentre settori sempre più ampi passavano ai bolscevichi. In ottobre, i bolscevichi avevano ottenuto la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e Mosca, e in numerosi altri. Con la sollevazione dei contadini nelle campagne, i tempi erano maturi per preparare un’insurrezione. Agli osservatori superficiali la rivoluzione apparve come un “colpo di Stato”, a causa del numero relativamente piccolo di persone coinvolte nell’insurrezione, cioè la conquista delle istituzioni chiave del governo e delle posizioni strategiche.
Come scrisse Trotskij nella sua Storia della Rivoluzione russa: “La tranquillità delle strade in ottobre, l’assenza di folle e battaglie, ha dato al nemico il pretesto per parlare della cospirazione di una minoranza insignificante, dell’avventura di un pugno di bolscevichi […]. Ma in realtà i bolscevichi poterono ridurre la lotta per il potere all’ultimo momento a una ‘cospirazione’, non perché erano una piccola minoranza, ma per la ragione opposta, perché avevano dietro di loro nei quartieri operai e nelle caserme una maggioranza schiacciante, consolidata, organizzata, disciplinata.” Se i bolscevichi non avessero goduto di questo sostegno di massa, non avrebbero mantenuto il potere nemmeno per pochi giorni, figuriamoci per anni. In definitiva, la maggior parte della preparazione per la presa del potere era stata effettuata mesi prima – dalla paziente spiegazione dei bolscevichi volta a conquistare la maggioranza dei lavoratori e dei soldati. Il sostegno al Governo Provvisorio era crollato; quasi nessuno era disposto a combattere per difenderlo. Se i bolscevichi non avessero colto il momento per portare avanti la rivoluzione, il risultato non sarebbe stato una “democrazia fiorente”, ma una variante russa del fascismo, poiché la classe dominante avrebbe lanciato l’offensiva contro gli operai e i contadini rivoluzionari.

Si sostiene spesso che il socialismo come sistema non funzionerebbe perché, se tutti sono “pagati allo stesso modo”, non ci sarebbe alcun incentivo a “lavorare sodo”. Questo argomento è sbagliato su differenti livelli. In primo luogo, presuppone che coloro che sono pagati di più sotto il capitalismo lavorino “più sodo”. Invece la ricchezza dei super-ricchi non è “guadagnata” dal loro lavoro, ma dalla proprietà dei mezzi di produzione. Questo permette loro di appropriarsi del lavoro non pagato di miliardi di persone appartenenti alla classe lavoratrice in tutto il mondo. Molti di questi miliardari non fanno alcun lavoro produttivo, ma pagano altri per gestire le loro aziende e le loro finanze. Uno studio di Oxfam sulla ricchezza dei miliardari nel mondo ha svelato che un terzo di questi patrimoni è stato ereditato, mentre il 43% può essere ricondotto alla corruzione. Mentre questi parassiti “lavorano duramente” sui loro super yacht, miliardi di persone sono costrette a lavorare 50 o 60 ore (o ancora di più) alla settimana, facendo lavori massacranti in cambio di salari da fame. Questo “duro lavoro” non è incoraggiato dal fatto che diversi settori della classe operaia ricevono salari più alti. Ma è il risultato della necessità di accettare qualsiasi lavoro, per poter mettere il cibo in tavola, pagare l’affitto e le bollette.
L’alternativa è quella di unirsi alle file dei disoccupati, che per molti significa la fame e restare senza un tetto sopra la testa. In secondo luogo, l’argomento che sotto il socialismo saremo tutti “pagati allo stesso modo” è falso. Il nostro obiettivo finale è una società comunista, dove tutti possono prendere liberamente secondo i loro bisogni. Tuttavia i marxisti non sono utopisti, non ci aspettiamo che questo sia possibile dall’oggi al domani quando la classe lavoratrice prenderà il potere. Richiederà un periodo di transizione (di solito indicato come “socialismo”), durante il quale la permanenza di alcune delle caratteristiche del capitalismo sarà inevitabile. Come ha scritto Marx: “Ciò di cui si sta parlando qui è una società comunista non come si sviluppa sulle basi che le sono proprie, ma al contrario, come nasce dalla società capitalista; di conseguenza una società che sotto ogni rapporto, economico, morale, intellettuale, porta ancora i segni della vecchia società dal cui seno essa è uscita.”
Assumendo il controllo dell’economia e pianificando la produzione secondo le necessità, sarà possibile apportare una serie di rapidi miglioramenti alla vita della maggior parte delle persone. Per esempio, sarebbe possibile porre rapidamente fine alla disoccupazione, riducendo la settimana lavorativa, senza perdita di salario. Nello stesso modo in cui l’accesso all’assistenza sanitaria in alcuni paesi è socializzato attraverso il sistema sanitario nazionale, sarebbe anche possibile fornire gratuitamente altri beni e servizi come l’energia, internet, i trasporti e il cibo. Questo perché produciamo queste cose, o potremmo produrle, in una quantità più che sufficiente per poterle distribuire equamente. Questo avrebbe lo stesso effetto di un massiccio aumento dei salari per la maggior parte della società. Tuttavia, finché esiste la scarsità di alcuni beni, certi articoli richiederebbero ancora la distribuzione attraverso il denaro e quindi il pagamento di salari sarebbe ancora necessario.
È utopistico pensare che nel primo periodo dopo una rivoluzione socialista, tutti accetterebbero di essere pagati allo stesso modo, date le loro diverse necessità, responsabilità e carichi di lavoro. O che tutti accetterebbero di consentire a chi potrebbe lavorare ma non lo fa, di attingere dalla ricchezza della società. A differenza del capitalismo, però, dove in molte aziende il rapporto salariale tra lo stipendio più basso e la remunerazione più alta è astronomico, con il socialismo questa disparità si ridurrebbe significativamente. Nell’Unione Sovietica dei primi anni il rapporto tra il compenso più alto e quello più basso era di 4 a 1, ed anche questo era considerato elevato. Sotto il controllo dei lavoratori, una massiccia riduzione della settimana lavorativa, insieme all’abolizione della divisione tra lavoro intellettuale e manuale, trasformerebbe le nostre concezioni sul “lavoro”. Da faticoso fardello necessario per pagare le bollette e arricchire qualche miliardario, diventerebbe, per dirla con le parole di Marx, “il primo bisogno dell’esistenza”. Con lo sviluppo delle forze produttive a un punto tale per cui potremmo facilmente produrre abbastanza di tutto, perché le persone ne possano prendere liberamente, il desiderio di essere “pagati” più degli altri perderebbe di senso, poiché il denaro stesso diventerebbe inutile. Ben lungi dalla “pigrizia” universale, l’umanità potrebbe finalmente raggiungere il suo pieno potenziale.

Anche se il marxismo è una filosofia decisamente atea, i marxisti non hanno mai voluto “vietare la religione”. Al contrario i marxisti hanno sempre difeso il diritto delle persone a professare la religione che vogliono. Si tratta di un diritto democratico fondamentale. Questo malinteso deriva dai tentativi delle burocrazie staliniste di sopprimere con la forza le pratiche religiose. Sapendo che non si possono proibire le idee, tali mosse facevano parte dei tentativi della burocrazia di reprimere qualsiasi libertà democratica che potesse mettere in discussione il suo dominio.
È invece vero che i marxisti sostengono che la religione dovrebbe essere completamente separata dallo Stato – ed anche questo è un principio democratico. Le religioni e le istituzioni religiose non dovrebbero godere di alcun privilegio o potere speciale, finanziario o di altro tipo, o essere autorizzate a gestire scuole e servizi pubblici, ecc. I marxisti sostengono la massima unità della classe operaia nella lotta contro il capitalismo. Le divisioni religiose – o qualsiasi divisione, sia di sesso, razza, nazionalità, ecc. – servono solo a indebolirci. Diamo il benvenuto a qualsiasi onesto combattente di classe nelle nostre file, indipendentemente dal suo credo religioso. Questo non significa però che facciamo concessioni alle idee religiose nel programma del nostro movimento o nelle concezioni filosofiche che lo ispirano. Non stiamo cercando di far passare qualche piccola riforma del sistema, ma di rovesciarlo completamente. Abbiamo quindi bisogno di idee e tattiche chiare, che devono essere basate su uno studio scientifico della lotta di classe. Qualsiasi misticismo o superstizione può solo ostacolare il nostro compito.
Dobbiamo ribadire che in ogni religione ci sono sempre due “chiese”, i cui interessi sono reciprocamente contrapposti. Ci sono quelli al vertice della chiesa, una minoranza legata da mille fili alla classe dominante. Mentre essi stessi beneficiano dello status quo, utilizzano la religione per predicare la passività, in modo da attenuare la lotta di classe. Se i fascisti ti attaccano: “porgi l’altra guancia”. Se il tuo padrone ti sfrutta: “amalo e perdonalo”. Dall’altra parte c’è la massa numericamente schiacciante dei credenti, che vedono nella loro religione un cammino verso un mondo migliore (anche se solo dopo la morte). A loro diciamo: diffidate di qualsiasi leader religioso che cerchi di trattenervi dalla lotta di classe. Contate solo sulla vostra forza, la forza della classe lavoratrice organizzata! Il marxismo è una filosofia scientifica. Non abbiamo bisogno di ricorrere al soprannaturale per capire il mondo e cambiarlo. Tuttavia, non abbiamo nulla in comune con i “Nuovi Atei” come Richard Dawkins, che pensano che le opinioni religiose saranno semplicemente superate attraverso “argomenti razionali” e propaganda. I marxisti invece riconoscono che la religione ha una base materiale nella società. Soddisfa un potente bisogno sociale.
Quando miliardi di persone affrontano una vita squallida in questo mondo, con povertà di massa, insicurezza e alienazione, la promessa di un paradiso dopo la morte è molto attraente. È per questa ragione che Marx ha scritto: “La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo.” Ogni vera lotta contro le idee mistiche della religione deve quindi essere condotta in primo luogo contro le condizioni che danno origine a queste idee. Questo significa una lotta risoluta per rovesciare il sistema capitalista, che è la fonte dell’oppressione e della sofferenza per miliardi di persone. Sotto il capitalismo, sembra che ci siano delle forze soprannaturali a controllarci. Milioni di persone sono disoccupate, apparentemente per colpa della “mano invisibile” del mercato. Altri milioni sono uccisi dalla guerra, dalle malattie e dalla povertà. Senza controllo sulle nostre vite, è inevitabile che molti trovino per queste cose una spiegazione spirituale nella volontà di un dio. Con il controllo democratico della classe operaia sull’economia, possiamo mettere fine a questi orrori della società divisa in classi. Quando ognuno avrà un effettivo controllo sulla propria vita, non ci sarà più bisogno di ricorrere a idee mistiche. Se possiamo creare un paradiso in questo mondo, non ci sarà bisogno di consolarci con la promessa di un paradiso nell’aldilà. La religione non sarebbe proibita sotto il socialismo, ma tenderebbe a svanire.
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