La rivoluzione afgana di Saur del 1978: cosa ha ottenuto, come è stata sconfitta
16 Ottobre 2018falcemartello n. 8
18 Ottobre 2018Per molto tempo la critica al liberismo e alla globalizzazione è stata il marchio di fabbrica della sinistra. La ragione è presto detta: attaccare le posizioni neo-liberiste era un modo abbastanza comodo per puntare il dito contro alcuni aspetti del capitalismo, senza mettere in discussione il sistema nel suo complesso, delimitando il proprio orizzonte politico all’interno dei confini del capitalismo. Il presupposto di questa impostazione era che potesse esistere un capitalismo “buono”, un capitalismo “non liberista” che rappresentava quindi l’obiettivo massimo cui fosse lecito aspirare.
Su queste basi non stupisce che il marxismo sia stato buttato in soffitta senza troppi complimenti, mentre invece venivano abbracciate acriticamente le concezioni di una scuola economica borghese, quella keynesiana, che propugnava l’intervento dello Stato nell’economia e un alto livello di spesa pubblica. Per una critica alle idee di Keynes e dei suoi seguaci rimandiamo all’articolo di Antonio Erpice Keynes è morto! I riformisti non lo resusciteranno. Per ora ci basti dire che la rivendicazione di politiche keynesiane e la comune lotta al “liberismo sfrenato” sono servite storicamente soprattutto a giustificare la subalternità della sinistra ai partiti socialdemocratici e ai governi di centrosinistra.
Con la crisi economica iniziata nel 2008, abbiamo però assistito ad una serie di cambiamenti molto profondi che hanno radicalmente trasformato il volto del mondo per come lo conoscevamo. Citeremo di seguito solo i più decisivi:
1) In un paese dopo l’altro i partiti di governo legati alla tradizione liberale, sia quelli di centrodestra che quelli di centrosinistra, sono stati severamente puniti sul piano elettorale e hanno lasciato spazio alle forze cosiddette “populiste”. L’Italia è un caso lampante di questo sviluppo e l’articolo Governo giallo-verde. Perché la luna di miele sarà breve analizza i processi che hanno portato alla nascita del nuovo governo, le contraddizioni esistenti al suo interno e come queste evolveranno nella prossima fase.
2) Gli Usa non sono più la potenza egemonica indiscussa a livello mondiale, ma sono entrati in una fase di declino sia sul piano diplomatico-militare – si pensi alla “figuracce” rimediate dall’imperialismo americano in Siria e in Ucraina per mano della Russia di Putin – che sul piano economico, dove l’economia americana subisce sempre di più la concorrenza delle esportazioni cinesi. Uno dei fatti più decisivi dell’ultimo periodo è proprio l’ascesa della Cina, oramai una potenza economica che si prepara a svolgere un ruolo sempre maggiore su scala globale, come spiegato da Alessandro Giardiello nell’articolo La Cina è vicina… a dominare il mondo?
3) Il processo di globalizzazione non solo si è arrestato, ma ha fatto una serie di passi indietro e i dogmi liberisti sono messi apertamente in discussione da alcuni settori della stessa classe dominante. Trump ha innalzato barriere protezioniste, vuole rinegoziare tutti i trattati commerciali di libero scambio e ha messo a soqquadro gli organismi internazionali di governo della globalizzazione come il Wto e il G8 – su questo si veda l’articolo di Roberto Sarti Trump: un piromane in una foresta. La Cina ha risposto per le rime imponendo dazi sulle merci americane e all’orizzonte si profila una vera e propria guerra commerciale. Per capire dove un’escalation protezionista potrebbe condurre, l’articolo di Franco Bavila Il protezionismo ha provocato la crisi del ’29? descrive le conseguenze catastrofiche che le politiche protezioniste ebbero durante la Grande Depressione degli anni ’30.
Proprio per sottolineare l’importanza di questi cambiamenti, abbiamo ritenuto di intitolare questo numero di falcemartello “La fine del liberismo”. E anche perché, di fronte a un simile cataclisma epocale, è incredibile assistere allo spettacolo di una sinistra che è rimasta indietro di dieci anni nell’analisi e si attarda ancora a ripetere formule contro la globalizzazione neoliberista sempre più vuote e fuori bersaglio, rimanendo aggrappata ad un keynesismo fuori tempo massimo. Posizioni che sempre più spesso nascondono una capitolazione totale nei confronti del sovranismo. Infatti se in passato la retorica antiliberista era funzionale a subordinarsi alla socialdemocrazia riformista, oggi tutta l’elaborazione sul “mostro ordoliberista” porta dritti verso la subalternità a quei settori delle borghesie nazionali che si sono posti sulla strada del protezionismo e del “nazionalismo economico”. L’obiettivo di questa rivista è quello di provare a fornire strumenti di analisi utili a comprendere le tendenze reali della nuova epoca in cui siamo entrati e ad elaborare un punto di vista indipendente della classe lavoratrice.
Per concludere falcemartello n. 8, non poteva non celebrare degnamente il cinquantesimo anniversario di uno dei processi rivoluzionari più significativi del dopoguerra, quello del 1968. Siccome abbiamo già pubblicato diversi articoli su questo argomento (si veda su marxismo.net La rivoluzione francese del Maggio 1968 di Alan Woods, Il significato del Maggio ’68 di Francesco Giliani oppure sull’esperienza italiana 1968-1969. Un biennio rivoluzionario di Alessandro Giardiello) abbiamo deciso di indagare l’impatto che la mobilitazione dei lavoratori francesi ebbe in campo culturale e artistico. L’articolo di Daniele Chiavelli La rivoluzione artistica del maggio francese racconta con un ricco corredo d’immagini l’esperienza degli Atelier populaire di Parigi, che con i loro manifesti e le loro locandine ribaltarono completamente le convenzioni grafiche e il linguaggio della comunicazione politica dell’epoca. Un articolo che aiuta a capire che le rivoluzioni scuotono la società in profondità e liberano energie inespresse a tutti i livelli.
La redazione, ottobre 2018