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Ex Ilva – L’unica strada è la nazionalizzazione sotto il controllo operaio

di Francesco Salmeri

Nelle ultime settimane, la crisi dell’ex-Ilva ha subito una brusca accelerazione. L’11 novembre, il governo ha presentato ai sindacati quello che potrebbe essere a tutti gli effetti un “piano di chiusura” del gruppo siderurgico, con 6.000 lavoratori in cassa integrazione a partire da gennaio e poi, se non dovesse concretizzarsi la vendita ai privati, il possibile smantellamento degli impianti. La prospettiva incombente della chiusura e della perdita complessiva di 10mila posti di lavoro, in un contesto in cui 4.800 lavoratori sono già in cassa integrazione, ha fatto esplodere la rabbia degli operai, che hanno lanciato una grande mobilitazione in difesa dei posti di lavoro e della produzione, occupando gli stabilimenti e le strade.

Il 19 novembre, gli operai ex Ilva di Genova e di Taranto in sciopero hanno occupato le acciaierie e hanno bloccato le strade principali per 48 ore, mentre a Novi Ligure e a Racconigi hanno organizzato picchetti e cortei in città. La lotta ha riscosso un’ampia solidarietà nella classe lavoratrice e nella popolazione. A Genova, le associazioni locali hanno appoggiato la lotta degli operai montando una cucina da campo in prossimità del blocco stradale e persino i tassisti hanno espresso pubblicamente la propria solidarietà alla lotta dell’ex Ilva, nonostante il traffico cittadino sia stato paralizzato per due giorni con code di 12 chilometri.

Di fronte alla determinazione degli operai a proseguire i blocchi e le occupazioni ad oltranza, il governo è stato costretto a fare un passo indietro e a stanziare 108 milioni di euro per dare continuità alla produzione fino a febbraio, rimandando di qualche mese il fermo produttivo negli stabilimenti del nord.

Il saccheggio dell’ex Ilva

Il piano del governo Meloni non fa nient’altro che spingere alle ultime conseguenze la politica disastrosa di tutti i governi borghesi che l’hanno preceduto. Per decenni, l’idea è sempre stata quella di tenere in vita l’azienda al minor costo possibile solo per poterla poi svendere ai privati alla prima occasione utile, permettendo loro di intascare lauti profitti a spese del bilancio statale, dei lavoratori e dell’ambiente. Questa è l’unica vera causa della situazione di degrado in cui versa oggi il più grande polo siderurgico d’Europa.

La gestione parassitaria dei Riva prima, e di Arcelor Mittal poi, ha lasciato impianti fatiscenti (vedi l’incendio del forno Afo1 a maggio), distruzione ambientale, tumori e dissesto finanziario (attualmente 5,4 miliardi di debiti). Da questo punto di vista, il caso dell’ex Ilva rappresenta uno dei fallimenti più clamorosi tanto del capitalismo privato quanto delle nazionalizzazioni borghesi (complete o parziali), il cui significato può essere sintetizzato con lo slogan “nazionalizzare le perdite e privatizzare i profitti”: lo Stato subentra per coprire i buchi e i privati si riempiono le tasche.

Adesso, si ripropone lo stesso teatrino. La proposta di acquisto che il governo ritiene più idonea è quella del fondo finanziario americano Bedrock. Si tratta di una proposta svergognata che offre di acquistare gli impianti al costo di 1 euro e di tagliare 5mila posti di lavoro, mentre si chiedono allo Stato sussidi di diversi miliardi di euro per ammodernare i forni. Data la situazione, parlare di saccheggio è un eufemismo!

Tuttavia, la prospettiva più probabile è quella dello “spezzatino”, di cui il presidente della regione Liguria Bucci si è fatto promotore durante la sua passerella mediatica al presidio operaio a Genova. Già il piano dell’11 novembre prevedeva il ciclo corto dell’acciaio, cioè battere cassa vendendo i rotoli neri prodotti a Taranto direttamente sul mercato, senza farli passare dalle lavorazioni negli stabilimenti del nord, i cui lavoratori sarebbero stati messi in cassa integrazione da gennaio. Questo piano non sarebbe nient’altro che il preludio ad uno smembramento mascherato dell’ex Ilva, da svendere o chiudere a pezzetti secondo le richieste dei vari fondi speculativi interessati a cannibalizzarne le risorse. Lo “spezzatino” comporterebbe licenziamenti, chiusure e deindustrializzazione, con gli “investitori” che seguirebbero il modello collaudato del “prendi i soldi e scappa”, mentre i lavoratori verrebbero messi nella situazione peggiore possibile per difendere il posto di lavoro.

A tal proposito, è stato un errore madornale da parte dei sindacati interrompere i blocchi e lo sciopero in seguito alla convocazione di un tavolo al Ministero del Made in Italy per il 28 novembre. Questo tavolo include solo gli stabilimenti del nord, lasciando fuori Taranto, con l’obiettivo manifesto di dividere i lavoratori dei vari impianti e depotenziare la lotta collettiva. Accettando di incontrarsi separatamente al ministero, i sindacati si sono fatti complici a tutti gli effetti del progetto di “spezzatino” dell’ex Ilva. Solo mantenendo la mobilitazione a livello unitario, coinvolgendo tutti i lavoratori in tutti gli stabilimenti è possibile creare i rapporti di forza per una vittoria operaia. I lavoratori dell’ex Ilva pagheranno caro questo approccio corporativo e di svendita da parte della direzione sindacale.

La crisi dell’ex Ilva è la crisi del capitalismo italiano

La realtà è che la crisi dell’ex Ilva non è nient’altro che uno dei sintomi più drammatici della crisi profonda del capitalismo italiano ed europeo. In Italia, la produzione industriale è crollata dell’8,1% rispetto al 2021, quando si era nel pieno della pandemia, e la Germania sta perdendo 10mila posti di lavoro ogni mese. Stellantis ha prodotto il 36% in meno di auto rispetto all’anno scorso e la lista potrebbe continuare. L’industria siderurgica, che ha come sbocco l’industria metalmeccanica e l’edilizia, non può che essere colpita in pieno da questa crisi. Le acciaierie europee lavorano oggi al 65,4% della propria capacità produttiva, un crollo spaventoso rispetto al 78,4% del 2008, e sono uno dei settori più svantaggiati dall’aumento del costo dell’energia e dalla competizione cinese.

Di fronte a questa crisi, la borghesia sta assumendo un carattere sempre più parassitario. Incapace di sviluppare la produzione e di fare investimenti in tecnologia e produttività per rimanere competitivo sul mercato internazionale, il capitalismo europeo non potrà che appoggiarsi sempre di più sugli aiuti statali, mentre intensifica brutalmente lo sfruttamento della forza lavoro per mantenere alti i profitti. Il crollo degli investimenti è endemico e l’orizzonte dei capitalisti non va al di là della prospettiva del profitto a breve termine. Vedendo la tempesta che si avvicina, la scelta dalla borghesia è quella di andare all’incasso e scappare con il bottino, ma i lavoratori non hanno questa possibilità.

L’unica via che i lavoratori dell’ex Ilva possono percorrere se vogliono salvare tutti i posti di lavoro e il patrimonio industriale costruito in decenni di sacrifici da generazioni di operai è quella di lottare per la nazionalizzazione integrale dell’azienda sotto il controllo operaio. La nazionalizzazione nelle mani dei governi borghesi non farebbe che riproporre lo schema che vediamo da anni.

Solo se sono i lavoratori ad avere il controllo diretto sulla produzione è possibile portare avanti un piano razionale di sviluppo economico, tecnologico e industriale, che garantisca salari degni, sicurezza sul luogo di lavoro, occupazione, riduzione dell’orario e dei ritmi e una e una riconversione della produzione sostenibile dal punto di vista ecologico. Inoltre, la nazionalizzazione sotto il controllo operaio dell’ex Ilva porrebbe immediatamente la questione di una pianificazione razionale dell’economia nel suo complesso, a partire dalla nazionalizzazione di Stellantis e di tutti i settori strategici: banche, trasporti, energia, ecc. Solo sostituendo all’anarchia del mercato e al saccheggio capitalistico un’economia pianificata democraticamente sotto il controllo dei lavoratori e libera dal profitto di una minoranza di parassiti è possibile uscire dalla crisi senza fine di questo sistema marcio e obsoleto, che minaccia di trascinarci nel baratro.

 

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