Il problema non è il “populismo” ma la crisi di una linea sindacale
5 Dicembre 2017Ripetere “popolo” e “unità” è facile – Costruire il partito di classe è difficile
6 Dicembre 2017Nei mesi scorsi la nostra organizzazione ha partecipato, assieme ad altre, all’iniziativa “Fattore K” promossa dalla Rete dei comunisti. In attesa della ripresa delle iniziative (prevista per gennaio) pubblichiamo due testi inerenti all’iniziativa. Il primo è una proposta di lavoro avanzata da Mauro Casadio a nome della Rdc, il secondo una risposta di Claudio Bellotti con una serie di osservazioni critiche.
Crediamo utile pubblicare questi testi anche considerando che in questi giorni l’accelerazione del dibattito sulle scelte elettorali ha messo in luce in modo particolarmente crudo il problema dei rapporti fra la teoria e la pratica politica che costituiva uno dei punti controversi di questo scambio.
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FATTORE K – Una proposta di lavoro teorico
di Mauro Casadio
In seguito alla riunione tenuta venerdì 30 giugno cerco di fare alcune valutazioni ed una proposta di lavoro che possa essere discussa per Settembre. Innanzitutto dico una mia impressione emersa nella discussione fatta e che ha visto tutti i partecipanti dell’assemblea del 20 maggio confermando il percorso di discussione deciso in quella sede, ovvero di lavorare per tenere entro la fine dell’anno un altro appuntamento convocato unitariamente tra strutture e singoli militanti comunisti.
L’impressione che ho avuto è che abbiamo a che fare con una difficoltà obiettiva del modo di pensare dei comunisti in cui non si riesce a distinguere il livello dell’elaborazione teorica sulle prospettive dalla “curvatura” che l’intervento quotidiano e le differenti azioni politiche organizzate impongono; se questo è comprensibile come portato storico di una condizione che non esiste più, quella delle soggettività comuniste organiche, mi sembra che il perpetuarsi di quello schema di pensiero diventi inadeguato per interpretare ed affrontare i profondi mutamenti complessivi che sono nel frattempo intervenuti.
Se è vero che la teoria va messa al servizio delle ipotesi politiche rivoluzionarie va anche detto che tra queste c’è una relazione dialettica che è quella tra strategia e tattica, ovvero se la teoria deve considerare i tempi medio-lunghi questo non può essere fatto dalla politica che inevitabilmente deve fare i conti con le evoluzioni concrete che la situazione impone. Dunque l’elaborazione teorica ha una sua autonomia che non può essere schiacciata sulla contingenza ne sulle realtà organizzate preesistenti, d’altra parte è proprio questo tipo di pratica che ha portato i comunisti e la sinistra di classe, la sinistra politica è altra cosa, ad un pensiero politico sovrastrutturale che ha informato le menti di molti attivisti e militanti di questi ultimi decenni.
Questa autonomia, per quanto riguarda le valutazioni fatte come RdC, si è accentuata dopo la crisi del movimento comunista degli anni ’90 proprio perchè nella politica ha prevalso il tatticismo, forse necessario alla sopravvivenza delle realtà strutturate e questa non è certo la sede per dare giudizi sulle scelte collettive e individuali fatte, ma che nei tempi lunghi non ha tenuto alla verifica dei fatti moltiplicando la tendenza alla frammentazione che è sotto gli occhi di tutti. Di conseguenza questo respiro corto delle organizzazioni comuniste ha contribuito a produrre una autonomizzazione anche della rappresentanza politica dei settori di classe che hanno rivolto il loro interesse ed il loro voto a forze, di destra o ambigue come il M5S, che è in netta discontinuità con la storia precedente del movimento di classe.
Questa è una condizione ora storicamente data, non modificabile con il volontarismo, ma che deve essere affrontata per quello che è sapendo che è un percorso non breve e non direttamente finalizzabile ad esigenze politiche contingenti. D’altra parte questa condizione è anche una possibilità di riallacciare un filo di confronto sul merito tra comunisti proprio perchè non è direttamente collegabile alla politica e perchè deve fare i conti con gli sviluppi oggettivi che si manifesteranno nel passaggio storico che stiamo vivendo. Questo è lo spirito della proposta che abbiamo fatto su “Fattore K” che intende porre il nodo della qualità del pensiero comunista e della sinistra di classe ed un ambito unitario che non vuole essere unità direttamente finalizzata alla tattica politica.
Il passaggio storico in atto.
Nella discussione fatta il 30 giugno la necessità di analizzare i caratteri del passaggio storico è stato messo in evidenza come pure la questione dell’inchiesta che è stata vista come uno strumento basilare per produrre una moderna analisi di classe. Naturalmente sono due tappe possibili per il lavoro che abbiamo proposto e la prima, in ordine di tempo, può essere quella dell’analisi del passaggio storico che abbiamo di fronte in quanto cogliere gli elementi che lo costituiscono e definirli al meglio è necessario per capire come muoversi in un contesto nuovo; un contesto molto complesso che però presenta opportunità politiche ed è una condizione che, mettendoci di fronte a snodi analitici e teorici comuni, potrà agevolare il nostro confronto. Su questa prima tappa si possono proporre alcuni campi di analisi, ovviamente l’impostazione dell’incontro di fine anno non potrà avere l’obiettivo di individuare delle tesi nette ma quello di vaglio di ipotesi da impostare su domande che permettano l’approfondimento necessario e non scontino, almeno in prima battuta, una risposta definitiva.
1) Caratteri e tempi della crisi. Che siamo dentro una crisi sistemica è ormai coscienza di tutti a cominciare dalle classi dominanti che stanno cercando di contenerne gli effetti. Collegare l’evoluzione avuta nei decenni passati alle prospettive attuali ci può permettere di individuare i limiti che sta vivendo oggi il capitalismo. Cerco molto sinteticamente di tracciare una traiettoria analitica; il balzo scientifico e tecnologico e l’accumulo/sovrapproduzione finanziario prodotto negli anni ’80 ha trasformato il potenziale di crescita in realtà con la fine dell’URSS e l’affermazione della cosiddetta globalizzazione; questi presupposti hanno permesso un forte incremento di produttività ed una ripresa durata circa un ventennio con l’accesso ad un mercato del lavoro internazionale dove il costo della Forza Lavoro era estremamente basso e con l’apertura di nuovi mercati nella periferia produttiva che si sono aggiunti a quelli centrali sostanzialmente drogati dalla leva finanziaria.
Questo scenario, che ha permesso i processi di valorizzazione del capitale a livello internazionale, è oggi riproducibile? Ed eventualmente quali sono altri possibili ambiti in grado di riprodurre una crescita di quelle dimensioni? La risposta non può essere scontata cosi come le analisi catastrofiste non sono sufficienti per interpretare le prospettive della crisi. Oggi gli elementi che si manifestano sono quelli del limite dello sviluppo tecnologico che non sembra riesca ad individuare nuovi e consistenti spazi di crescita e comunque con il rischio esplicito della riduzione dell’occupazione e del reddito complessivo a disposizione delle classi subalterne. Sul piano del contenimento del costo della Forza Lavoro sembra che la tendenza si sia invertita dagli anni ’90 verso una equiparazione mondiale che vede convergere l’abbassamento in atto nei centri imperialisti ed un elevamento nelle ex periferie produttive, anche se permangono ambiti sebbene più limitati di una forza lavoro a basso costo. Infine anche i mercati di sbocco sono entrati in una fase regressiva dalla crisi finanziaria del 2007 che, seppure si manifestino periodicamente dei momenti di ripresa, complessivamente vedono una loro riduzione dovuta a molti fattori e non ultime le crisi sociali e militari prodotte negli ultimi anni in molte parti del mondo.
Tentare di analizzare ed individuare i caratteri ed i tempi non brevi di espressione della crisi, tanto da far parlare gli economisti borghesi di stagnazione secolare, è importante per definire anche le possibilità di una politica di classe, ma per fare questo diviene essenziale misurarsi con gli interrogativi che il perdurare della crisi pone.
2) Le forme politiche e militari della crisi. La crisi strutturale si sta evolvendo in crisi politica e militare all’interno ed all’esterno dei centri imperialisti degli USA, della UE e, diverso per condizione, del Giappone. Gli scenari che si potranno manifestare dall’evoluzione della situazione attuale non sono prevedibili negli esiti futuri ma possono essere ipotizzabili, e questo sforzo di interpretazione va fatto per adeguare una strategia antagonista ad una situazione in continua ed imprevedibile evoluzione per le stesse classi dominati.
Nella situazione attuale sta prevalendo la competizione tra centri imperialisti e la presidenza Trump ne è il fenomeno più evidente; anche la vicenda Brexit conferma questa tendenza che però non esclude necessariamente momenti di tregua o accordi specifici. Questo riguarda sia i centri imperialisti che le altre potenze economiche e militari che agiscono nello scenario internazionale creando una situazione di potenziale caos che potrebbe portare ad incidenti imprevedibili soprattutto di fronte a degli imperativi materiali che possono spingere a tentare forzature pericolose. Le vicende della Siria e della Corea del Nord vanno esattamente in questa direzione e mostrano una difficoltà di risoluzione tramite interventi militari.
Se, per quanto ci riguarda come RdC, questa pare essere la direzione prevalente sarebbe miope non considerare uno scenario diverso dove gli imperialismi possano concepire un loro accordo a discapito degli altri soggetti statuali che hanno contribuito in questi decenni a determinare una crescita che oggi non può più essere con loro condivisa. Stiamo parlando della Cina, della Russia ma anche delle petromonarchie Arabe che hanno perseguito in questi anni un loro obiettivo di indipendenza creando e appoggiando l’ISIS nella sua avventura di uno stato islamista.
Nella logica degli scenari va considerata anche la questione della geopolitica come chiave di lettura usata in funzione degli equilibri/squilibri internazionali in cui i soggetti predominanti sono gli Stati, i loro gruppi dirigenti e non vengono considerate le dinamiche di classe. Questo è un punto di vista che si ritrova frequentemente anche nei dibattiti delle forze di classe ed è bene capire se è solo uno strumento ideologico del “potere” oppure se possa essere una chiave di lettura utile a interpretare gli sviluppi delle contraddizioni interimperialiste e tra le grandi potenze.
3) La lotta di classe dall’alto. La lotta di classe non è una scelta ma è una necessità anche quando questa viene fatta dalle borghesie contro le classi subalterne, l’incrudimento dall’alto che c’è stato in questi anni va spiegato bene altrimenti sembra essere una sorta di malattia autoimmune del capitale che irrazionalmente distrugge le proprie basi nel mercato. Il punto di partenza per un’analisi approfondita è, almeno mi sembra dover essere, la legge del valore di Marx e la caduta tendenziale del saggio di profitto; questo processo è stato storicamente gestito mettendo in essere delle controtendenze di cui la principale è stata certamente quello dell’aumento del tasso di sfruttamento della forza lavoro, nelle forme dell’allungamento della giornata lavorativa, della riduzione del salario e dell’aumento della composizione organica di capitale, etc., ma a questa sono state aggiunte le rapine neocoloniali nei diversi periodi storici, l’uso della finanza e, come estrema ratio, la guerra come distruzione di capitale umano e materiale di cui la seconda guerra mondiale ne è l’esempio per eccellenza in quanto a dimensione.
Il punto su cui oggi riflettere è che le caratteristiche dello sviluppo raggiunto dopo la fase della piena globalizzazione o mondializzazione del Modo di Produzione Capitalistico (sviluppo economico e finanziario, politico degli Stati, militare e sull’armamento atomico) sta determinando un equilibrio nei rapporti forza internazionali che porta ad una situazione di stallo dove l’unica controtendenza immediatamente praticabile per la valorizzazione del capitale è quella dell’estorsione di plusvalore. La vicenda BRICS dimostra che la rapina neocoloniale oggi è più difficile o addirittura improponibile, l’uso “sfrenato” della leva finanziaria è ora reso complicato dalla crisi dei Subprime che ha mostrato il limite di questa controtendenza, ed infine una guerra oggi non può che implicare l’uso delle armi atomiche, di cui i capi di Stato ne parlano sempre più spesso e con chiarezza, cosa che rende una guerra generalizzata improbabile e per ora questa viene sostituita dalla moltiplicazione dei conflitti locali in funzione di volano dell’economia.
La lotta di classe dall’alto ha perciò delle conseguenze, se la presente chiave di lettura si rivelasse corretta, che pone seri problemi di interpretazione e di analisi per i comunisti e di tipo politico per la lotta sindacale e sociale che non può limitarsi a rimanere chiusa dentro una dimensione tradunionista. Questo è particolarmente valido per le classi lavoratrici dei paesi imperialisti, vedi la crisi dei ceti medi e l’incremento delle disuguaglianze sociali, che sono quelle che verranno più stressate e spremute per produrre plusvalore in quanto, allo stato attuale, sono quelle più indifese organizzativamente ed ideologicamente dopo l’abbandono del campo della lotta delle forze politiche storiche del movimento dei lavoratori che ha distrutto gli strumenti di difesa collettiva ed ogni tipo di identità di classe.
4) Modifica della produzione, disgregazione e ruolo della soggettività. Questo è un campo dove va riscoperto il nesso tra composizione sociale, organizzazione della classe, coscienza di questa di se e funzione strategica dell’azione politica delle soggettività organizzate. Per anni il concetto di organizzazione è stato demonizzato a sinistra indicando questa come elemento di distorsione della spontaneità del sociale; questa accusa in realtà non era del tutto errata se per organizzazione si intendevano quelle strutture politiche, sindacali e culturali che in questi ultimi decenni si sono impegnate a spendere a proprio vantaggio il capitale politico ed umano ereditato dal movimento operaio e dei lavoratori accumulato in lotte e rivoluzioni nell’arco dell’intero 900.
Ma è proprio questa condizione di disgregazione oggi più che mai ci dovrebbe portare a rivalutare la funzione politica dell’organizzazione intesa come costruzione di un tessuto connettivo interno alla classe reale e non esclusivamente come organizzazione/partito politico. La modifica produttiva, le delocalizzazioni, la moltiplicazione dei rapporti di lavoro, la polverizzazione sociale delle aree metropolitane evidenziano come una ricomposizione politica e sociale non può che essere il prodotto dell’agire di una soggettività progettuale su tutti i suoi momenti, da quello del conflitto a quello politico.
Questo elemento non può essere rimosso dalla nostra riflessione e può essere il “ponte” politico che ci aiuta ad individuare anche gli obiettivi da darci nella costruzione dell’inchiesta di classe che è stata discussa ma che va orientata politicamente per evitare una possibile deriva sociologica inutile e dannosa.
5) La finestra di “Fattore K” su Contropiano. nella discussione è emersa da parte di tutti l’importanza di una sede di dibattito pubblico quale quella di “Fattore K” che può divenire il filo rosso di un percorso di elaborazione teorica comune che non potrà avere tempi brevi. In questo senso va riconfermata la necessità di una gestione comune da decidere in una sorta di redazione che contribuisca a sollecitare la continuità e l’allargamento del confronto.
Quelli esposti sono alcuni ambiti di ricerca ed elaborazione tenendo conto della discussione fin qui fatta, l’intento è quello di fornire una “griglia” di questioni che andrà completata e concretizzata assieme a partire dal mese di settembre con un nuovo e più operativo incontro da definire.
Risposta a fattore K
di Claudio Bellotti
Cari compagni,
La nota inviata da Mauro Casadio (“Fattore K, una proposta di lavoro teorico”) chiama in causa punti teorici di grande importanza. Per questo motivo riteniamo utile esprimere una prima valutazione per iscritto fatta salva l’utilità di riprendere questi temi in un confronto diretto.
Veniamo subito al nodo centrale. È possibile separare teoria e pratica nel modo che ci propone Casadio? Tale separazione attraversa tutto il testo e ne costituisce il filo conduttore. Si parla ad esempio di “distinguere il livello dell’elaborazione teorica sulle prospettive dalla ‘curvatura’ che l’intervento quotidiano e le differenti azioni politiche organizzate impongono”. Noi crediamo che questo sia un errore basilare. Le “differenti azioni politiche”, la tattica, l’organizzazione discendono direttamente da una concezione teorica. Che la teoria sia “guida per l’azione” ci pare un assunto sufficientemente consolidato, a meno di non voler fare piazza pulita di tutta l’elaborazione del marxismo dalle Tesi su Feuerbach (1847) in giù.
Anche se le prospettive implicano sempre un approccio aperto e condizionale, questo non significa che esse vengano elaborate a prescindere dalla teoria. L’integrazione di nuovi fatti, nuovi fenomeni, nuove tendenze all’interno di una prospettiva politica, e anche il suo eventuale abbandono e rovesciamento in nome di una prospettiva differente, non possono avvenire in modo puramente empirico. Per essere più precisi, separare l’azione concreta dalla teoria marxista significa che l’azione stessa verrà condotta in base ad un’altra teoria, che questo avvenga coscientemente o meno. La questione dell’“ambito unitario” qui viene davvero capovolta. I momenti di unità tra forze di ispirazione teorica diverse possono e debbono essere ricercati innanzitutto sul piano dell’azione, laddove è possibile definire obiettivi comuni di portata più o meno ampia che permettano da un lato di fare avanzare il movimento reale e dall’altro anche una verifica pratica delle diverse impostazioni teoriche.
Ma se la teoria è consapevolmente separata dalla pratica politica e il “tatticismo” è “forse necessario alla sopravvivenza delle realtà strutturate”, abbiamo già un piede dentro l’autonomia del politico di trontiana memoria. Forse tutti e due.
Con questo non vogliamo negare che il confronto teorico sia indispensabile, ma affermare che possa partire da un “ambito unitario” rischia di generare grandi equivoci. Unitario può essere la scelta di temi o di priorità, la costruzione di un terreno per il confronto. Ma esso non sarà unitario, bensì basato sulla aperta sfida tra concezioni teoriche e pratiche differenti.
Lotta di classe, imperialismo, geopolitica
Il testo parla di prevalenza della competizione fra i centri imperialistici, e questo è un fatto indiscutibile che si manifesta sia sul piano politico che economico. Tuttavia la domanda che sorge leggendo il testo di Casadio è: quali sono i centri imperialistici? Al punto 2) si nominano Usa, Ue e Giappone. Tuttavia la Ue non è affatto un “centro” imperialistico (se vogliamo usare questa terminologia). La Ue non ha una politica estera e un esercito comuni. Nella Ue oggi prevalgono i conflitti tra i diversi interessi nazionali, non solo tra i paesi più forti e la periferia dell’Unione, ma anche tra i soci fondatori. Italia e Francia si scontrano nel Maghreb così come sulla proprietà di grandi aziente come Telecom o Stx. Francia e Germania si scontrano sulle politiche di austerità. Tutti lottano contro tutti sulla gestione dei flussi migratori e sulla sostenibilità del trattato di Schengen. Le prospettive di unione bancaria e unione fiscale hanno dimostrato di essere aria fritta. Quindi parlare di “centro” come se la Ue esprimesse in qualche modo una politica comune sulla scena mondiale è un errore.
Criticabili ci paiono anche le formulazioni utilizzate rispetto ai cosiddetti Brics e ad altri paesi che hanno un ruolo imperialista perlomeno su scala locale o regionale. Su questo il testo ci propone un diplomatismo che lascia perplessi. Si parla di “altri soggetti statuali che hanno contribuito in questi decenni a determinare una crescita che oggi non può più essere con loro condivisa” e si nominano Cina, Russia e le petromonarchie arabe.
Cosa sono questi “altri soggetti statuali”? Paesi imperialisti? Paesi coloniali che si sono emancipati? Paesi capitalisti? Paesi non capitalisti? Qui si introduce la “questione della geopolitica come chiave di lettura” nel tentativo di tenere assieme forze o tendenze politiche che su questi fenomeni hanno opinioni assai diverse, “piegando” quindi la “teoria” al “tatticismo”. Non si può fare il minimo comune denominatore tra l’analisi di classe e l’analisi geopolitica, tanto per motivi teorici come per motivi politici. Proporre una sede di confronto teorico (proposta che, lo ripetiamo, condividiamo) e partire con un testo che nei fatti evade dei punti teorici controversi con formule intermedie ci pare davvero una contraddizione stridente.
Ancora sui rapporti internazionali: la Russia, la Cina, le “petromonarchie del Golfo”… come è possibile accomunare questi tre soggetti sotto una categoria comune? A nostro giudizio le domande da porre nel dibattito sono: 1) Qual è la natura dello scontro tra Usa e Russia e quale posizione politica la classe operaia deve prendere al riguardo. 2) La politica economica cinese di investimenti massicci all’estero è un’esportazione di capitali che rientra nella classica definizione leninista dell’imperialismo? Noi pensiamo di sì (basti guardare il ruolo della Cina in Pakistan o in Africa centrale e America Latina). Il riarmo cinese è conseguenza di questa politica? La Cina si appresta a diventare la potenza egemone nel mondo capitalista?
I Brics non esistono come entità economica e politica accomunabile. Il Brasile è in una crisi economica profonda sulla quale si innesca una vera e propria crisi di regime con enormi potenzialità rivoluzionarie. La cooperazione tra Russia e Cina è una realtà imposta dall’aggressività degli Usa particolarmente in Asia negli ultimi due decenni circa, ma non esiste affatto un interesse comune di lungo termine fra i due paesi. Il Sudafrica è entrato in crisi economica ma soprattutto si sta definitivamente lacerando il patto tripartito (Anc, Cosatu, Partito comunista) che ha garantito la pace sociale dopo la caduta dell’apartheid. È una frattura su linee di classe di enorme importanza per il movimento operaio non solo in Sudafrica ma in tutto il mondo. Cina e India sono nuovamente in conflitto territoriale nel Buthan. Di quali “Brics” vogliamo parlare?
Si parla poi delle “petromonarchie arabe che hanno perseguito in questi anni un loro obiettivo di indipendenza creando e appoggiando l’Isis nella sua avventura di uno stato islamista”. Indipendenza di chi da chi? Non si sa. E questo stato islamista, cosa sarebbe? Un tentativo di unificazione araba? Un tentativo di rendersi indipendenti dagli Usa? È un obiettivo reale o fittizio? Progressista o reazionario?
Il “califfato”, lo “Stato islamico” sono etichette idologiche, ma si suppone che dei marxisti dovrebbero analizzare i fenomeni non per i nomi che si danno, ma per la loro base di classe, per come si inseriscono nello scontro di classe, nei conflitti nazionali e certo anche internazionali e interimperialistici, ma senza farsi confondere dai fumi ideologici.
L’Isis può essere stato il sogno del califfato nella testa di una parte dei suoi combattenti, quelli più fanatizzati (considerato che invece una buona fetta sono puri e semplici mercenari, o lo sono diventati), magari di alcuni suoi dirigenti, ma nella sostanza non è stata altro che una nuova etichetta apposta a una vecchia forza che da generazioni costituisce il vero centro della reazione non solo nel mondo arabo ma in tutto il mondo islamico, il fondamentalismo sunnita sorretto dalla dalla monarchia saudita. Una forza che da sempre è la punta avanzata della controrivoluzione nell’area (e non solo), in tempi recenti usata anche come pedina nello scontro con l’Iran, con Assad e in generale nella situazione completamente destabilizzata dell’intero Medio oriente fino al Maghreb.
Il cosiddetto Stato islamico non è altro che uno staterello effimero che per un breve periodo iniziale ha trovato in Iraq un parziale consenso a causa dell’indebolimento della minoranza sunnita, che dopo la caduta del regime di Saddam Hussein cercava forme di autodifesa contro il prevalere della componente sciita. Una delle tante pedine sulla complessa scacchiera mediorientale, quindi, ma niente di più.
Peraltro anche le “petromonarchie arabe” non sono state affatto una entità coesa, se consideriamo ed esempio che in Egitto il Qatar sosteneva i Fratelli musulmani mentre i sauditi erano più vicini all’esercito, conflitto che si è poi esteso fino a una completa rottura diplomatica tra i sauditi (a capo di un fronte che gode del sostegno a distanza degli Usa) e i qatarioti. Peraltro come è ben noto il fronte che sosteneva l’Isis comprendeva anche la Turchia, che non è un paese petrolifero, non è una monarchia e non è neppure un paese arabo.
Infine una parola sui compiti proposti al punto 4. La “rivalutazione politica della funzione dell’organizzazione”, proposito sacrosanto, viene immediatamente confusa con la specificazione che non si tratti esclusivamente di “organizzazione/partito politico” ma della “costruzione di un tessuto connettivo intorno alla classe reale”.
Ora di confusione voluta o meno su cosa sia un sindacato, cosa sia un partito, cosa sia la classe e sul rapporto tra composizione di classe e organizzazione se ne è fatta a sufficienza in mezzo secolo e più di operaismo, tanto nella vena più antagonista che in quella sfociata nel riformismo più minimalista.
Non ci spaventa che in generale ci sia confusione su questo punto, si tratta di un fenomeno internazionale conseguenza in primo luogo della crisi profonda delle organizzazioni riformiste trad izionali e del disgusto che suscitano fra le masse e in particolare nella gioventù. Questo fatto è correttamente segnalato anche dal testo di Casadio.
Tuttavia non possiamo razionalizzare questo in una teoria che riduca l’organizzazione a ipostasi della presunta “polverizzazione sociale”, delle delocalizzazioni, ecc. Né migliorano le cose i buoni propositi più o meno soggettivisti di “una ricomposizione politica e sociale come prodotto dell’agire di una soggettività progettuale su tutti i suoi momenti”. Che poi si consideri separatamente il momento del “conflitto” da “quello politico”, come se la politica non fosse lotta di classe, conferma in modo evidente questo errore.
Come vedete non abbiamo sfumato i termini della nostra critica. Pensiamo che prendere sul serio un appello come quello proposto dal compagno Casadio significhi precisamente evidenziare le radici teoriche di una analisi e una prassi. Crediamo che da un confronto aperto su questi punti possiamo avere tutti da guadagnare se sarà condotto con lo stesso rigore che oltre un secolo fa fece scrivere a Lenin “prima di unirci, per poterci unire dobbiamo prima delimitarci”.
Infine una proposta che chiediamo a tutti di discutere in vista dell’incontro proposto per dicembre. Se si mantiene la proposta iniziale di centrare il dibattito sul tema dell’imperialismo, crediamo utile inserirvi due approfondimenti (assolutamente pertinenti al tema), uno sulla natura dell’Ue, l’altro sulla questione nazionale oggi, con particolare riferimento alla questione catalana.
ottobre 2017