Manifesto contro la guerra
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Ci sono la Wartsila, l’ex GKN, la Whirlpool, la Jabil e tantissime altre, la lista continua ad allungarsi. Decine di migliaia di posti di lavoro che si stanno perdendo a causa di delocalizzazioni, privatizzazioni selvagge e crisi economica.
Dal governo che verrà non ci si può aspettare nulla se non le solite politiche di tutela degli interessi delle grandi aziende, promettendo reindustrializzazioni farlocche e nuovi imprenditori rapaci.
Senza andare troppo in dietro nel tempo basta guardare quanto è successo alla Whirlpool di Napoli, dove la coraggiosa lotta dei lavoratori che per anni si sono battuti contro la chiusura dando vita al presidio “Whirlpool Napoli non molla” è finita col licenziamento di 316 lavoratori e la promessa mai realizzata di reindustrializzare la zona. A giugno Whirlpool ha comunicato nuove chiusure e la minaccia di andarsene dall’Italia.
Alla Jabil di Marcianise (CE) vogliono licenziare 190 lavoratori, per “salvare” i rimanenti 250, dopo che negli anni scorsi l’azienda ha preso corposi finanziamenti pubblici senza mai rispettare l’impegno di riassorbire i lavoratori espulsi. Solo nella provincia di Caserta sono oltre 1.300 i posti in esubero nell’industria.
Ai lavoratori non è mancata certo la volontà di lottare. Ma serve anche una direzione sindacale adeguata, cosa che non hanno saputo esprimere i vertici sindacali. Serve chiarezza sugli obiettivi della lotta e gli strumenti per raggiungerli.
Basta false promesse!
Recentemente gli operai della Wartsila di Trieste, multinazionale finlandese che produce motori e turbine, sono stati protagonisti di una mobilitazione contro la chiusura e il licenziamento di 451 lavoratori, arrivando a raccogliere intorno a sé il sostegno di oltre 15mila persone in una grande manifestazione a Trieste. I portuali si sono rifiutati di caricare i macchinari destinati alla Daewoo e la nave è ripartita senza carico. La pressione della mobilitazione ha determinato la decisione del tribunale, pochi giorni dopo, di annullare i licenziamenti e costringere la multinazionale a riaprire la trattativa.
Esattamente come è accaduto un anno fa a Firenze dove i lavoratori della GKN hanno reagito alla chiusura improvvisa dello stabilimento e al licenziamento dei 420 lavoratori occupando la fabbrica, istituendo il presidio permanente e coinvolgendo la città di Firenze in una grande manifestazione con oltre 20mila persone. Come alla Wartsila, pochi giorni dopo il tribunale ordinò il ritiro della procedura di licenziamento.
Gli operai della GKN sono riusciti a trasformare la lotta in un caso politico, costringendo anche le istituzioni ad adoperarsi per trovare un nuovo proprietario.
Ed è proprio sulla questione del nuovo proprietario che ora la vertenza è a un nuovo passaggio decisivo. Da quando è stata acquisita prendendo il nome di QF a marzo, il nuovo proprietario, Borgomeo, ha portato sul tavolo di trattativa solo false promesse.
Nuovi investitori, fantomatici piani industriali, milioni d’investimento… ma in 9 mesi nulla si è concretizzato.
A inizio settembre i lavoratori hanno deciso di dire basta, dopo l’ennesima promessa di un piano industriale da attivare entro il 2026 con 340 lavoratori (contro i 370 dell’accordo inziale e i 420 in forze prima della chiusura) che prevede la riduzione degli investimenti dai 100 milioni promessi a marzo a 50, dei quali almeno 35 a carico dello Stato.
L’assemblea permanente dei lavoratori ex GKN non ha solo deciso di dire basta, ma ha anche detto che se lo Stato deve mettere i soldi, allora che la fabbrica sia pubblica, anche perché QF non è stata finora in grado di dare una sola garanzia di solidità e affidabilità.
Unire le lotte per il lavoro
Qui però si arriva al nocciolo del problema: se l’assemblea permanente ha da un lato giustamente dichiarato che Borgomeo non è la soluzione e che deve essere lo Stato a farsi carico della fabbrica, dall’altro non è chiaro in che forma questo dovrebbe avvenire.
Si parla di fabbrica pubblica, ma poi si usa il temine confuso di semi-nazionalizzazione. Contemporaneamente non si esclude in alternativa una forma di gestione dei lavoratori attraverso cooperativa o azionariato popolare, che però escluderebbe la proprietà dello Stato sulla fabbrica.
Una cooperativa potrebbe forse mantenere in vita lo stabilimento, ma significa, nelle condizioni del capitalismo, che i lavoratori devono applicare un auto-sfruttamento per “stare sul mercato”, sempre che il mercato si trovi.
L’unica reale alternativa per dare una prospettiva ai lavoratori è la nazionalizzazione sotto il loro controllo. Solo così si potrebbe parlare di produzione di utilità sociale, non legata al profitto, che permetterebbe di investire e ridistribuire nella collettività la ricchezza prodotta e di non disperdere patrimonio industriale, lavoratori e tecnologie che possono e devono produrre nell’interesse della collettività.
La massa critica per questa battaglia è potenzialmente presente. Se non si è ancora manifestata è solo ed esclusivamente perché le burocrazie sindacali hanno messo ogni cura nel tenere queste vertenze isolate, assecondando la melina di padroni e istituzioni che puntano a prendere i lavoratori per stanchezza.
Le iniziative del collettivo della GKN in questi mesi si sono rivolte in tutte le possibili direzioni, cercando “convergenze” con collettivi e associazioni di ogni genere: giusto cercare solidarietà e alleanze, ma non è stato affrontato il punto strategico: unificare le vertenze dei lavoratori.
Il primo passo necessario è rompere questa situazione. Una assemblea nazionale dei lavoratori delle aziende in crisi, con un serio piano di mobilitazione e una piattaforma unificante potrebbe aggregare un sostegno fra i lavoratori tale da rompere l’immobilismo sindacale e costringere la CGIL finalmente a fare la cosa giusta.
Su questo punto i compagni della GKN si sono fin qui sottratti, con una scelta che ci sentiamo di criticare, proprio per il rispetto che portiamo alla loro lotta.
Ma lo stesso sviluppo della vertenza, e l’aggravarsi delle crisi industriali in tutto il paese, rende più necessario di prima che si lavori in questa direzione. Questo è il contributo di riflessione che porteremo nella manifestazione del 22 ottobre e in tutte le vertenze per il lavoro.