
“Que se vayan todos” – Il malcontento sociale in Perù travolge la presidente golpista Boluarte
23 Ottobre 2025di Claudio Bellotti
Negli ultimi due anni lo slogan “Palestina libera dal fiume al mare” ha indubbiamente catturato l’immaginazione una parte consistente del movimento in solidarietà col popolo palestinese. A maggior ragione in quanto la classe dominante ha tacciato questa parola d’ordine di terrorismo e di antisemitismo, spingendosi addirittura in alcuni paesi ad approvare appositi provvedimenti di legge per equiparare il sostegno a questa parola d’ordine a un reato penale. Un’accusa tanto più ipocrita se si considera che oggi, concretamente, chi conduce massacri, segregazione, furto di terre e pulizia etnica “dal fiume al mare” è proprio la classe dominante sionista, che non fa mistero della sua intenzione di annettersi definitivamente l’intera Cisgiordania.
Un altro motivo della popolarità di questo slogan è che contiene una netta critica a tutte le ipotesi di spartizione e ai “piani di pace” con cui da decenni il popolo palestinese è stato ingannato col miraggio di un proprio Stato.
Tuttavia una parola d’ordine non può essere solo una suggestione o un’aspirazione per quanto fortemente sentita. Per comprendere la validità di ogni rivendicazione dobbiamo sempre analizzarne il contenuto concreto. Ossia: di quali interessi essa è espressione, quale prospettiva rappresenta e come si colloca nel contesto concreto della lotta.
Il contenuto concreto
Il movimento per l’autodeterminazione della Palestina e contro il sionismo si è fondato sul programma di uno Stato unico espressione della popolazione araba, nel quale gli ebrei possano vivere come minoranza nazionale (salvo le posizioni più oltranziste che originariamente rivendicavano semplicemente di “ricacciare gli ebrei in mare”). Accanto a questa posizione è successivamente emersa tra le forze palestinesi, dapprima in forma allusiva e successivamente in modo sempre più esplicito, l’ipotesi dei “due popoli, due Stati”, ossia della partizione, che era stata invece respinta nel 1947.
Abbiamo analizzato in altra sede la natura utopica e reazionaria della parola d’ordine dei “due Stati” (vedi ad es. il nostro opuscolo Rovesciare Netanyahu e lo Stato sionista). Qui vogliamo invece tornare sul significato della prima posizione, che poi è quella su cui storicamente si è fondato il movimento palestinese.
Concretamente, questa significa che i palestinesi devono condurre una guerra di liberazione nazionale fino a rovesciare lo Stato sionista per insediare al suo posto un proprio Stato.
Tuttavia questa strada si è dimostrata nella pratica più e più volte un vicolo cieco. Prima l’OLP nelle sue varie componenti, e poi anche Hamas hanno condotto la lotta armata contro Israele in tutte le possibili forme, dagli attentati terroristici alla guerriglia. Inoltre Israele ha sconfitto diverse coalizioni di Stati arabi in quattro guerre convenzionali: 1948, 1956, 1967, 1973. Nei primi anni ’90 con il cosiddetto “processo di pace” e gli accordi di Oslo e Madrid, la maggior parte dell’OLP e segnatamente al Fatah, ossia la sua componente principale, accettarono l’idea della spartizione con l’illusione che potesse portare ad uno Stato palestinese, sia pure su un territorio ridotto. La realtà ha dimostrato che per Israele il negoziato era solo una manovra diversiva e che non avrebbe mai accettato un vero Stato palestinese. Ne seguì un riallineamento di forze nel movimento palestinese, dove Hamas emerse come forza dominante (vincendo anche le uniche elezioni palestinesi mai tenute, quelle del 2006).
Mentre l’ANP diventava un’istituzione sempre più apertamente collaborazionista, il testimone della lotta armata passava nelle mani di Hamas (che in precedenza era stata invece usata da Israele come arma contro il movimento nazionale palestinese…) e, in misura minore della Jihad oltre che del FPLP (Fronte Popolare per la liberazione della Palestina, la formazione storica della sinistra palestinese). Erano queste infatti le forze che si erano opposte al processo di pace e su questa base, e sul conseguente discredito di Al Fatah e dell’ANP, hanno conquistato una posizione di forza nella lotta per l’autodeterminazione del popolo palestinese.
Il fallimento del nazionalismo borghese
Tuttavia pur cambiando gli schieramenti politici nel campo palestinese, non è cambiato il risultato. L’attacco del 7 ottobre 2023 e la successiva campagna di sterminio condotta da Israele hanno mostrato nel modo più tragico che la prospettiva dello scontro armato con un programma puramente nazionale porta un vicolo cieco.
Questo significa che il sionismo è imbattibile e che i palestinesi possono solo accettare di vivere sotto un regime coloniale come vorrebbe il “piano Trump”? No, nel modo più assoluto!
Il significato di queste drammatiche esperienze storiche è un altro. È il fallimento di ogni prospettiva puramente nazionalista della lotta palestinese. Da un punto di vista di classe, si tratta del fallimento del nazionalismo borghese e piccolo-borghese, riferito tanto alla borghesia palestinese che più in generale alla classe dominante di tutti i paesi arabi. La lotta palestinese è finora sconfitta perché è diretta da forze borghesi il cui unico orizzonte è quello nazionalista.
Lo definiamo borghese non per denigrarlo ma perché il suo programma non va oltre la rivendicazione democratica della costituzione di uno Stato palestinese, senza mettere in discussione i rapporti di classe, ossia il fatto che tale Stato sarebbe uno Stato capitalista dominato dalla borghesia araba.
Su queste basi, nella condizione concreta della Palestina, risulta impossibile scalfire la potenza militare israeliana ma soprattutto la sua base sociale. Se lo scontro è semplicemente di un nazionalismo contro un altro, arabi contro ebrei, la società israeliana si compatta attorno al suo Stato e, con il sostegno degli USA e degli altri imperialismi, il rapporto di forze rimane a suo favore.
Si potrebbe obiettare che storicamente anche dei movimenti nazionalisti borghesi o piccolo borghesi sono riusciti a creare degli Stati indipendenti e a liberare le proprie nazioni dal dominio coloniale. Ma la questione è concreta. Quando, per esempio, l’impero britannico accettò l’indipendenza dell’India o quando la Francia si ritirò dall’Algeria per la classe dominante inglese o francese riconoscere l’indipendenza era il male minore. Il costo militare, economico e politico del mantenimento degli imperi era ormai insostenibile e un accordo negoziato che cercasse di mantenere una influenza economica e politica sui nuovi Stati indipendenti era comunque una soluzione accettabile rispetto ad una guerra ad oltranza che non potevano più vincere.
Ma per la classe dominante sionista la questione si pone diversamente. Essa può solo combattere fino alle estreme conseguenze, non ha una soluzione subordinata. Non accetterà mai uno Stato palestinese indipendente al proprio fianco, se non nella forma di bantustan, di enclavi accerchiate, disarmate e sottoposte al suo dominio, in cui non sia possibile nessuna reale autodeterminazione per il popolo palestinese. Per la borghesia israeliana perdere lo Stato di Israele significa perdere le basi stesse del proprio potere. Il problema quindi non è l’ideologia sionista, il razzismo o il fondamentalismo religioso: queste non sono altro che le manifestazioni ideologiche di un dato di fatto materiale.
Diversamente le cose si pongono, o meglio potrebbero porsi, per la classe lavoratrice di Israele (che, non dimentichiamolo, è composta tanto da ebrei quanto da arabo-israeliani). Essa in realtà non trae alcun reale vantaggio materiale dall’oppressione nazionale a cui sono sottoposti i palestinesi. Al contrario, subisce le conseguenze economiche e politiche dello scontro nazionale, deve fornire i soldati che combattono una guerra semi permanente, vive ormai in uno stato di perenne insicurezza.
Tuttavia i lavoratori ebrei israeliani non saranno mai conquistati da un programma arabo nazionalista borghese. Vedono in questa prospettiva solo un dato: che in una ipotetica Palestina unificata si troverebbero nella condizione di una minoranza nazionale, e di fronte a questa prospettiva rimangono attaccati al carro della classe dominante sionista.
Solo un movimento di classe arabo può puntare ad aprire questa contraddizione. Una rivoluzione socialista in uno o più paesi arabi della regione, che rovesciasse le monarchie e le dittature, che espropriasse la grande borghesia e creasse dei governi operai, potrebbe porre rappresentare un punto d’attrazione anche per la classe lavoratrice israeliana. La prospettiva non sarebbe allora quella di passare dal dominio della borghesia sionista a quello della borghesia araba, che esprime regimi reazionari repellenti come la dittatura egiziana o le monarchie del Golfo, ma di affrontare il problema nazionale inserendosi in una società completamente diversa, nella quale il potere politico sarebbe in mano ai lavoratori le risorse economiche sarebbero controllate e gestite dalla classe lavoratrice, nell’interesse della maggioranza della popolazione.
Liberazione nazionale e programma di classe
Certo, non sarebbe certo un processo graduale: lo Stato sionista non evaporerebbe di fronte a una rivoluzione araba, ma cercherebbe di resistere con le armi, di svolgere il ruolo di guardia pretoriana della controrivoluzione nella regione. Ma la guerra di liberazione a quel punto non sarebbe una guerra puramente nazionale, sarebbe una guerra rivoluzionaria con un chiaro contenuto di classe e che potrebbe porre la soluzione della questione nazionale su un piano autenticamente democratico. Se per la borghesia infatti la questione nazionale si “risolve” sempre a vantaggio di una nazione e a svantaggio di un’altra, per la classe lavoratrice al potere si porrebbe invece nei termini di una convivenza egualitaria, nella quale nessuno avrebbe un reale interesse materiale all’oppressione di un’altra nazionalità.
Non siamo ingenui ed è chiaro che il peso di un’oppressione che dura ormai da diverse generazioni, con la sua lunga scia di sangue, di ingiustizie, e di odio seminato a piene mani dalla classe dominante, non svanisce da un giorno all’altro, neppure in una rivoluzione. Tuttavia una Palestina socialista, inserita in un contesto federale di Stati operai, sarebbe la base più avanzata per definire rapporti di convivenza pacifica tra ebrei e arabi, probabilmente assumendo essa stessa una forma federativa almeno in una prima fase.
Questa è la posizione che da sempre i comunisti hanno difeso sulla questione nazionale, anche nei contesti come i Balcani, o l’ex impero zarista, dove i conflitti nazionali parevano insolubili (e sotto il dominio della borghesia lo sono!): dei governi operai che espropriassero la borghesia e riconoscessero in forme federative i diritti di tutte le nazionalità a non essere oppresse o discriminate. Il tutto per facilitare il passaggio all’obiettivo finale, ossia, per usare l’espressione di Lenin, quello della “fusione delle nazioni”.
C’è poi da aggiungere che nel caso concreto della Palestina, per le dimensioni ridotte del territorio e per la sua collocazione, il contesto internazionale è più decisivo che mai. L’idea di uno scontro puramente nazionale armi alla mano, tra circa 8 milioni di ebrei israeliani e un numero simile di palestinesi (unendo quelli residenti in Israele e quelli dei territori occupati) non è certo una prospettiva progressista.
Il diritto all’autodeterminazione nazionale è un diritto democratico fondamentale, ma non dobbiamo mai dimenticare che assume un significato completamente diverso per la borghesia e per la classe lavoratrice. Per la borghesia lo Stato nazionale è lo strumento di difesa del proprio potere, del proprio mercato, e di soggiogamento dei propri concorrenti. Per la classe lavoratrice, il diritto all’autodeterminazione è solo uno strumento per rimuovere le differenze e gli attriti fra diversi popoli e nazioni, per porli su un piano di parità di diritti, non per cristallizzare in eterno gli Stati nazionali, tantomeno se etnicamente “puri”, ma per rendere possibile la piena integrazione e, appunto, “fusione” delle diverse nazioni e culture su un piano di eguaglianza.
Per questo un’ipotetica applicazione (ammesso che sia mai possibile) della parola d’ordine “dal fiume al mare” su basi capitaliste, non porterebbe a una soluzione duratura del conflitto. Aprirebbe inevitabilmente una questione nazionale per gli ebrei israeliani gettando il seme di nuovi scontri sanguinosi, oltre ovviamente a lasciare la massa dei palestinesi sotto il dominio della grande borghesia araba.
Per questi motivi riteniamo che la parola d’ordine che risponde nel modo non solo più compiuto, ma anche più realistico, alla questione dell’autodeterminazione del popolo palestinese non sia “Palestina libera dal fiume al mare” ma “per una Palestina socialista in una federazione socialista del Medio oriente” e l’unica che può rappresentare gli interessi storici della classe lavoratrice in Palestina e su scala internazionale.
