L’11 settembre, vent’anni dopo
11 Settembre 2021Mikis Theodorakis (1925-2021): vita e opera di un grande compositore di livello mondiale e militante democratico
15 Settembre 2021Whirlpool, Gkn, Timken, Gianetti Ruote, Elica, Blutec, Riello, la lista delle aziende che in questi mesi sono state chiuse per cessata attività o per delocalizzazione continua ad allungarsi.
Draghi, Bonomi e compagnia insistono col dire che non c’è alcuna emergenza occupazionale, che bisogna concentrarsi sulla crescita, ma nel frattempo sempre più aziende annunciano chiusure e cassa integrazione, ultima Stellantis che ha ridotto la produzione negli stabilimenti.
La “ripartenza” c’è e la misuriamo concretamente con l’impennata dei morti sul lavoro, 677 nei primi sette mesi dell’anno con un incremento del nove per cento rispetto al 2020. Per Confindustria la parola d’ordine è produrre freneticamente per recuperare quanto perso lo scorso anno. Ma la crisi economica e occupazionale, passato il fisiologico rimbalzo, tornerà a colpire più forte di prima.
La chiusura delle fabbriche e le delocalizzazioni sono una piaga che i lavoratori conoscono bene, sono decenni che le multinazionali, anche quelle italiane, aprono e chiudono a piacimento. Per molti è ancora vivo il ricordo dell’ondata di chiusure tra il 2009 e il 2012. Non si tratta di 4-5 aziende sfortunate a cui a questo giro è toccata la chiusura, come recita Bonomi, ma di un processo di ristrutturazione di cui stanno servendo solo l’antipasto.
Sgombriamo il campo dall’illusione che il governo possa fare una legge che impedisca le delocalizzazioni. Orlando, che un mese fa si era impegnato a promuovere un disegno di legge, sta per portare in consiglio dei ministri un testo che chiede alle multinazionali che licenziano di dare un preavviso di almeno sei mesi in modo che si possa aprire un tavolo di trattativa, per vedere se l’azienda ci può ripensare o trovare un nuovo acquirente. Non sono previste sanzioni, multe o disincentivi per chi se ne va, nessuna richiesta di restituzione di eventuali finanziamenti ricevuti in passato. La parola d’ordine è non spaventare gli investitori internazionali; Bonomi detta, Orlando scrive!
Due mobilitazioni in particolare, Whirlpool di Napoli e Gkn di Firenze, presidiando gli stabilimenti, appellandosi alla solidarietà di tutti i lavoratori e mettendo in campo una serie di iniziative di lotta stanno mostrando che le chiusure non sono qualcosa di ineluttabile. La difesa dell’occupazione, la continuità produttiva e il mantenimento del tessuto industriale, sono rivendicazioni che stanno catalizzando l’attenzione di un numero crescente di lavoratori, che va ben oltre l’industria.
Il fatto che si tratta di aziende tecnologicamente avanzate, che non vengono dismesse per mancanza di ordini o perché obsolete rende ancora più palese il ruolo parassitario di questo sistema.
Dopo gli scioperi spontanei del marzo del 2020, la classe lavoratrice sta tornando a far sentire la propria voce. Se pure è vero che non c’è ancora in campo un movimento esteso è pur sempre vero che sotto la superficie cova un’enorme rabbia che può esplodere da un momento all’altro.
I lavoratori delle aziende sotto attacco necessitano in primo luogo di una sede di confronto su come difendersi ed estendere la mobilitazione. È vitale dar vita a un coordinamento di lotta che lanci una grande assemblea nazionale dei lavoratori delle aziende in crisi, con un programma definito che veda al centro la parola d’ordine della nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori delle aziende che chiudono.
La nazionalizzazione è l’unica possibilità per tutelare il patrimonio industriale e i posti di lavoro, il controllo dei lavoratori è l’unica garanzia che la fabbrica non sia gestita secondo gli interessi dei privati, come invece si è visto nel caso dell’Ilva. Gli stessi operai della Gkn hanno spiegato che potrebbero riprendere la produzione in qualsiasi momento, del resto è risaputo che sono i lavoratori a far funzionare le aziende, non certo i manager.
Un’assemblea convocata delle fabbriche in lotta avrebbe il vantaggio di rappresentare direttamente i lavoratori, i delegati che li rappresentano e di definire in modo trasparente i rapporti con l’apparato sindacale.
L’apparato non ama che i lavoratori godano di troppa autonomia. I lavoratori possono prendere l’iniziativa davanti ai cancelli, organizzare la manifestazione, si può tollerare qualche “eccesso” come l’occupazione di un’autostrada (per far sfogare la rabbia) ma quando c’è da chiudere l’accordo, i dirigenti sindacali si mobilitano per disinnescare la lotta approfittando della stanchezza e delle difficoltà economiche. Da questo punto di vista la gestione centralizzata di una cassa di resistenza, su cui impegnare gli sforzi di tutti i solidali è un aspetto decisivo per il futuro della mobilitazione. Bisogna prepararsi a una lotta di lunga durata e sono necessarie risorse ingenti che possono essere raccolte facilmente nel movimento.
Porsi il problema di coordinare le lotte a livello nazionale attraverso un’assemblea democratica significa rifiutare una divisione dei compiti, con i lavoratori in piazza e i vertici sindacali al ministero a trattare, che ha condotto molte vertenze alla sconfitta. Significa costringere gli apparati a discutere alla luce del sole, prendere atto delle rivendicazioni dei lavoratori, obbligarli a sostenere la lotta, garantire che nessuno rimanga solo.
Le burocrazie sindacali vanno incalzate con la richiesta di uno sciopero generale a difesa del patrimonio industriale e contro le chiusure. Dobbiamo ispirarci al movimento delle fabbriche occupate dell’America Latina dove lo slogan principale era: “Fabrica cerrada, fabrica tomada” (Fabbrica chiusa, fabbrica presa).
Bisogna impedire che la passività prenda il sopravvento. Il contesto oggi è più favorevole rispetto al passato, ad esempio la crisi del 2009, quando una recessione profonda e il relativo crollo della produzione prese alla sprovvista i lavoratori, paralizzandone l’iniziativa. Oggi l’economia non è al palo, le politiche di austerità si sono attenuate e l’esperienza vissuta nel corso della pandemia ha contribuito ad elevare la coscienza, tutti fattori che rafforzano la classe lavoratrice.
La storia del movimento operaio insegna che le lotte più radicali, le forme di autoconvocazione e autorganizzazione sono il frutto dell’esplosione spontanea dei lavoratori, ma là dove vi è un’avanguardia cosciente e riconosciuta questa può svolgere un ruolo decisivo. Ma la coscienza non basta, bisogna avere la volontà di lottare fino alle ultime conseguenze e una fiducia incrollabile nella propria classe di riferimento.
Non si può esitare, bisogna essere audaci e bisogna esserlo ora.