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14 Aprile 2020In questi giorni si parla molto degli effetti economici della pandemia da Covid 19 e le prospettive non sono di certo brillanti. Ci avviamo sempre più verso una recessione economica senza precedenti con un calo della produzione inimmaginabile, paragonabile solo agli effetti di una guerra mondiale. Questa crisi economica avrà effetti dirompenti rispetto alla tenuta sociale, con milioni di disoccupati e l’aumento esponenziale della povertà in tutti gli angoli del mondo.
La globalizzazione che abbiamo conosciuto dalla caduta del muro di Berlino e il suo commercio mondiale verrà fortemente ridimensionato con la conseguenza di spingere i vari imperialismi verso politiche protezionistiche senza precedenti. Tutti gli indicatori economici già prima della pandemia ci indicavano questa tendenza, ma il Covid ha accelerato e ingigantito il processo.
Non è un caso che la WTO preveda un crollo di un terzo del commercio mondiale.
Questa crisi metterà a nudo tutti i settori dell’economia anche quelli che spesso non sono al centro del dibattito nei paesi più progrediti. In particolare l’agricoltura e la questione della materie prime agricole subiranno un contraccolpo senza paragoni, con la prospettiva di crisi alimentari importanti.
Già ora stiamo vedendo i primi effetti e la classe dominante è seriamente preoccupata da questa prospettiva, che accentua la possibilità di rivolte e rivoluzioni.
Protezionismo agroalimentare?
La pandemia ha provocato un blocco delle esportazioni e molte materie prime alimentari subiscono questo blocco con la conseguenza di una mancata sufficienza alimentare di molti paesi.
Ad esempio la Russia, uno dei principali granai del mondo, ha deciso di bloccare l’esportazione di molte varietà di cereali ed è pronta ad alzare altri muri. Il Kazakhstan, altro granaio, ha bloccato non solo l’export di grani, ma ha vietato l’esportazione di olio da semi, quella dello zucchero, delle patate e delle carote. Lo stesso hanno fatto la Serbia e l’Egitto quest’ultimo grande produttore di legumi. Basti ricordare in base ai dati Istat, che l’Egitto nel 2019 ha fornito all’Italia 5,8 milioni di euro di legumi, 60% fagioli e 40% fave.
Il Vietnam, grandissimo produttore di riso a livello mondiale ha deciso di sospendere nuovi contratti e anche per l’India ci sono stati grandi blocchi. Carestie alimentari potrebbero avvenire in ogni parte del mondo, al punto che la Fao ha lanciato un serio allarme per oltre 44 paesi.
Maximo Torero, capo economista della Fao ha dichiarato: “ Tutte le misure contro il libero scambio che molti stanno adottando per contenere il coronavirus si stanno rivelando controproducenti per la filiera alimentare”. Dobbiamo ricordare che uno dei motivi delle primavere arabe era l’aumento dei prezzi del pane.
Primi segnali di crisi
Queste misure protezionistiche e nazionalistiche minano la sufficienza alimentare e avranno effetti anche sulla politica dei prezzi con tendenze inflazionistiche per certe materie prime. Basti vedere il prezzo del grano in Italia che nel giro di due settimane dall’inizio della pandemia è salito di oltre il 10% anche se le prospettive di molti analisti sono di gran lunga peggiori. Gli effetti saranno multipli, da una lato vedremo la mancanza di materie prime, che a sua volta provocheranno una caduta della produzione di varie filiere industriali alimentari, con la prospettiva di una crisi generale anche nell’industria alimentare italiana, una di quelle che ha tenuto di più di fronte alla crisi del 2008.
Basti pensare che il report dell’Ismea sugli effetti del coronavirus e del lockdown parla già di crisi anche nei settori della carne da bovino e nei macelli, dove Confagricoltura stima un crollo di produzione del 20%. Oltre a questo c’è anche il problema legato alla mancanza di mangimi. Basti notare che il 1 aprile, sul Sole 24 ore, l’imprenditrice del settore suinicolo Giovanna Parmigiani, nonché presidente nazionale del settore suinicolo di Confagricoltura, lanciava l’allarme per la mancanza di mangimi e l’aumento dei loro prezzi del 5%, dovuto ai blocchi dai paesi dell’est. In parole povere, stanno aumentando a dismisura i costi di produzione per certe filiere alimentari che si basano solamente sul commercio estero.
Socializzare le perdite
Questa situazione ha portato ad un accordo in risposta dell’emergenza tra le principali associazioni padronali dell’industria agroalimentare italiana. Assozoo (che rappresenta l’industria mangimistica italiana, Assosementi, Origin Italia (associazione dei consorzi delle indicazioni geografiche) e le principali associazioni agricole italiane hanno firmato un accordo per favorire la ripresa della coltivazione di mais in Italia. Improvvisamente, di fronte all’emergenza si sono accorti del crollo delle superfici seminate di oltre il 50% negli ultimi anni, con una produzione che ha raggiunto i minimi storici e ha comportato il picco di importazione nel 2019 di oltre 6,4 milioni di tonnellate di mais.
Una vera è propria ammissione di colpe, dopo aver trasformato l’industria agroalimentare italiana in industria agroenergetica. Basti ricordare la trasformazione della pianura padana (vecchio granaio d’Italia) in una distesa di coltivazioni per il biogas e biometano, solo ed esclusivamente per la mole di incentivi e fondi europei che hanno permesso questo business degli ultimi anni. Nessuno si salva, compreso quelle associazioni ambientaliste come Legambiente che hanno permesso e hanno contribuito a questa speculazione dell’agroenergia. Profitti su profitti macinati negli ultimi anni grazie a soldi pubblici e a un commercio mondiale irrazionale.
Ma se l’industria agroenergetica e agroalimentare si è basata su fondi pubblici, l’intento del nuovo accordo firmato va sempre nella stessa direzione.
In parole povere, per far fronte alla crisi di emergenza e alla necessità di una ripresa delle coltivazioni, servono fondi pubblici. E infatti nell’accordo vien scritto e richiesto: “L’accordo quadro per il mais da granella di filiera italiana certificata, rappresenta un primo concreto impegno per promuovere una ripresa produttiva di mais in Italia, ma è fondamentale che la filiera non venga lasciata sola in un momento così difficile come quello che stiamo attraversando, a causa dell’emergenza coronavirus. È di fondamentale importanza, pertanto, che questo sforzo venga supportato da un intervento pubblico per il mais… affinchè vari con urgenza misure che incentivino la produzione maidicola… una misura questa indispensabile per consentire agli agricoltori italiani di compiere uno sforzo produttivo che consenta di recuperare quella necessaria capacità di autoapprovvigionamento di mais a garanzia e a beneficio di tutta la filiera agro-zootecnica-alimentare italiana”.
In questo accordo c’è la classica retorica padronale: socializzare le perdite per permettere nuovi profitti, con l’intervento diretto dello Stato.
L’autosufficienza alimentare e la situazione italiana
Il Consumo di suolo e l’industria agroenergetica hanno contribuito notevolmente alla perdita dell’autosufficienza italiana, ma non sono le uniche cause. Il commercio mondiale ha permesso negli ultimi anni una settorializzazione dell’intera industria agroalimentare italiana, diminuendo le coltivazioni di molti prodotti. Ad esempio, l’Italia è una grandissima produttrice di vino, la seconda potenza europea dopo la Francia, ma ovviamente non ci si può nutrire solo di vino.
Stando ai dati Ismea, per il settore dei cereali, il “Nostro bel Paese” non gode di grande autosufficienza. Siamo autosufficienti per il grano tenero per il 36%, per il frumento duro per il 62%, per il mais per il 50%, per l’orzo per il 68%.
Siamo autosufficienti nel settore latte e derivati per il 78%, per la carne bovina per il 52,7%, per la carne suina per il 61,7%, per gli ovicaprini per il 35,2%. per l’olio d’oliva per il 75%. Queste percentuali dipendono dal biennio, visto che nel 2016/2017 era del 42%, per i semi di soia siamo al 39% e per quelli di girasole al 57%.
C’è autosufficienza per il vino, gli ortaggi, la frutta, la carne avicola e gli agrumi, ma di certo ciò non basta per una dieta e il tutto dipende anche dal cambiamento climatico e dai suoi effetti.
La struttura industriale italiana
L’Italia non è stata esclusa dal processo di globalizzazione a livello mondiale e certi settori agroalimentari hanno fatto grandi profitti dalle esportazioni.
È del tutto impensabile riuscire a risolvere la questione dell’autosufficianza alimentare con la riconversione agricola di intere coltivazioni.
La riconversione ha bisogno di enormi fondi pubblici, tecnologia e sopratutto tempo. Non si può certo pensare di riconvertire l’intero settore in pochi mesi, anche per la composizione aziendale dell’industria agroalimentare italiana.
Il censimento decennale dell’agricoltura ci dice molto sulla composizione delle aziende.
Il 6° censimento del 2010 (l’ultimo disponibile in quanto è decennale), ci dice che in Italia si conta un milione e 621 mila aziende agricole con 12 milioni 865 mila ettari di superficie agricola utilizzata (Sau). La superficie media italiana utilizzata è di 7,9 ettari, mentre in Francia con 490 mila aziende la Sau media è di 55 ettari e in Germania con 300 mila aziende è di 56 ettari.
In Italia c’è un forte gap strutturale, tanto che il 67 % delle aziende ha una dimensione economica inferiore alle 10 mila euro. Più della metà di queste (il 36,4% del totale censito) autoconsuma totalmente la propria produzione.
L’11% delle aziende censite ha una dimensione economica tra le 10 e le 20 mila euro, pari al reddito di un lavoratore, il 22% rimanente è superiore alle 20 mila euro 355 mila aziende con 26,5 ettari di Sau per azienda. Questo 22% coltiva il 73,3 % di tutta la Sau. La frammentazione dell’agricoltura italiana non aiuta di certo la possibile riconversione dell’intero settore e la questione agraria diventa fondamentale per una prospettiva anticapitalista.
Quali soluzioni?
Cercare soluzioni all’interno del capitalismo italiano è pura illusione. La crisi economica può mettere a dura prova il nostro modello alimentare, creando veri e propri rischi, sia nell’aumento dei prezzi, sia nella sufficienza alimentare.
È sempre più ovvio l’importanza di un ragionamento sulla questione agricola anche in vista delle conseguenze di un grande altro problema: il cambiamento climatico che minerà ulteriormente la produzione agricola italiana.
Secondo i dati Istat, i cambiamenti climatici nell’ultimo decennio hanno condizionato fortemente la redditività del settore agricolo, con perdite di raccolti per calamità naturali. Ad esempio il vino nel 2017 ha subito una contrazione del 16%, il mais nel 2015 del 22,2%, l’olio nel 2016 del 39,5%,il frumento duro nel 2017 del 16,4%.
Sempre più il cambiamento climatico sarà un problema, tanto che le gelate di marzo hanno già creato enormi danni al settore ortofrutticolo italiano, uno dei pochi settori dove abbiamo l’autosufficienza.
Pensare di risolvere la questione con politiche nazionalistiche, autarchiche e le varie chimere del biologico non porterà da nessuna parte.
Occorre seriamente ragionare per una seria pianificazione razionale del settore agroalimentare italiano, sfruttando al massimo la scienza e la tecnica, a partire dalla tecnica dell’agricoltura fuori suolo. Purtroppo, la pianificazione non potrà mai esserci in una società capitalistica che si basa solo ed esclusivamente sulla massimizzazione del profitto.
Solo una gestione dei lavoratori in base alle necessità e possibilità, con la liberazione della scienza e della tecnica dalla classe dominante può gettare le basi per la questione. Ma anche in questo caso, il cambiamento climatico e la crisi generale economica, o una semplice pandemia, ci dimostrano la totale incompetenza del capitalismo mondiale e la necessità di una soluzione rivoluzionaria socialista e internazionalista.