Kashmir: una valle in rivolta
29 Settembre 2016Pensioni – Un accordo dalla parte delle banche
30 Settembre 2016di Alan Woods
Mercoledì 9 novembre, il “mondo libero” al risveglio ha scoperto di avere un nuovo leader. Donald Trump è stato eletto come quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America. L’onda d’urto di questa notizia, che ha contraddetto tutte le più fiduciose aspettative dei sondaggi, si è immediatamente diffusa in tutto il mondo.
L’establishment e i suoi partiti sono stati scossi fino al midollo. Hillary Clinton, il candidato preferito dell’establishment americano e internazionale, aveva detto che se Trump fosse stato eletto presidente non avrebbe più “riconosciuto questo paese”. Ma Hillary Clinton e il resto della sua classe non hanno mai riconosciuto la situazione reale che esiste negli Stati Uniti e che in realtà esiste in ogni altro paese del mondo.
L’elezione di Trump viene comunemente descritta come un terremoto politico. L’analogia è esatta. Sotto la superficie della società, c’è un malcontento che ribolle, rabbia, collera e frustrazione. Proprio come sotto la superficie della crosta terrestre ci sono forze inimmaginabili che cercano di trovare una via d’uscita, così nella società queste forze stanno cercando un’espressione, che non trovano nei partiti e leader esistenti.
Questo fenomeno non è limitato agli Stati Uniti. L’abbiamo già visto nel risultato del referendum britannico sulla Ue. Ma questa elezione è mille volte più importante della Brexit. Quello a cui stiamo assistendo è né più né meno che un importante punto di svolta nella storia mondiale. L’Economist l’ha paragonato alla caduta del muro di Berlino, commentando: “La storia è tornata, con una vendetta.”
L’atteggiamento della classe dominante
La classe dominante vede Trump come una minaccia, in parte perché è un cane sciolto difficile da controllare, ma soprattutto perché i suoi appelli demagogici alla classe operaia e le denunce nei confronti dell’establishment di Washington hanno creato pericolose illusioni e destato milioni di persone sulla base di una opposizione allo status quo. È per questo che le istituzioni hanno usato ogni mezzo possibile per bloccare la sua strada verso la Casa Bianca. Gli hanno gettato addosso di tutto, ma hanno fallito.
Gli strateghi della classe dominante stanno tardivamente aprendo gli occhi sulla realtà. Questa è stata una protesta contro la disuguaglianza che ha raggiunto livelli senza precedenti; contro la disoccupazione e la precarietà del lavoro; contro il dominio di una élite corrotta di individui super-ricchi che gestiscono Washington come un affare di famiglia; contro le dinastie politiche dei Bush e dei Clinton che hanno trasmesso il potere politico allo stesso modo in cui si lascia un’eredità in un testamento e hanno gestito il potere politico come fosse una loro proprietà personale. È stata soprattutto una protesta da parte di chi sente che nessuno lo ascolta o si preoccupa del suo destino.
Un’osservazione simile è stata fatta dal Financial Times, l’organo più rappresentativo della classe dominante britannica, in un articolo dal titolo “La vittoria di Donald Trump è un mandato per far saltare in aria Washington”:
“Ci vorrà un po’ per assimilare le implicazioni maggiori dell’elezione del Signor Trump. Tutti i sondaggisti del paese hanno sbagliato ad interpretare l’opinione pubblica americana. Con l’elezione di un uomo che gli elettori sapevano essere irrispettoso delle sottigliezze costituzionali statunitensi, l’America ha inviato a Washington l’equivalente di un attentatore suicida. Il mandato di Trump è di far saltare in aria il sistema. La sua previsione di una ‘Brexit decuplicata’ potrebbe dimostrarsi una sottovalutazione. Il Regno Unito potrà anche essersi lasciato andare alla deriva, ma le conseguenze della sua decisione sono in larga parte locali.
“Gli Stati Uniti, viceversa, sono sia il creatore che il garante dell’ordine globale postbellico. Trump ha corso con l’impegno esplicito ad allontanarsi da tale ordine. Come precisamente metterà in pratica il suo programma di ‘Prima l’America’ è a questo punto secondario. Il pubblico Usa ha mandato un segnale inequivocabile. Il resto del mondo agirà di conseguenza“.
Le ripercussioni internazionali
Donald Trump non sembra essere eccessivamente interessato al resto del mondo. Ma il resto del mondo è molto interessato a lui. L’elezione di Trump ha provocato costernazione, per non dire panico, nei governi di tutto il globo. In condizioni normali, un candidato vittorioso nelle elezioni presidenziali statunitensi si potrebbe aspettare le immediatamente congratulazioni dei leader politici stranieri. Ma questa elezione è stata accolta con un silenzio assordante, rotto solo da Marine Le Pen – che si è congratulata con Trump per la vittoria tre ore prima dell’annuncio dei risultati – seguita poco dopo da Vladimir Putin.
I titoli della stampa in Germania erano pieni di disperazione e pessimismo. Un giornale proclamava in termini apocalittici: “L’auto-distruzione dell’Occidente continua”. Il Ministro degli esteri tedesco ha detto senza mezzi termini che non era questo il risultato desiderato né dal governo che dalla popolazione tedeschi. Purtroppo però, non è il popolo tedesco, ma quello statunitense, che decide chi debba sedere nello Studio Ovale. Angela Merkel è stata costretta a un discorso di congratulazioni, che si è fatto notare per il suo tono gelido e formale.
In totale contrasto, la reazione di Mosca è stata di palese soddisfazione. I deputati della Duma hanno applaudito rumorosamente la notizia e Vladimir Putin non ha perso tempo a mandare le sue personali congratulazioni a Trump. Il motivo non è un segreto. In generale, la politica estera non sarà tra le priorità di Trump. L’unica cosa su cui si è espresso con estrema chiarezza è che vuole migliorare le relazioni con la Russia.
Putin ha espresso il desiderio che il nuovo inquilino della Casa Bianca prenda misure per migliorare le relazioni tra America e Russia, naturalmente salvaguardando gli interessi di entrambe le nazioni, ovvero dei banchieri e dei capitalisti di entrambe le nazioni. Che questo desiderio espresso da Trump si possa materializzare nella realtà è materia di speculazione, dal momento che gli interessi di “entrambe le nazioni” sono piuttosto contrapposti.
In ogni caso, nei prossimi mesi l’uomo del Cremlino cercherà sicuramente di approfittare dell’attuale subbuglio e confusione a Washington per ottenere vantaggi sulla scena mondiale, a cominciare da un’offensiva a tutto campo in Siria. Obama si lamenta di questo, ma non fa nulla. Trump finora non ha detto nulla.
America, Russia e Siria
Trump ha promesso di intensificare la lotta contro lo Stato Islamico in Siria. Ma questo significa un coordinamento più stretto tra gli Stati Uniti e la Russia, che è attualmente la forza dominante in quel paese. Quelli, tra cui alcuni a “sinistra”, che gridano continuamente “si deve fare qualcosa”, stanno chiedendo una no-fly zone “per scopi umanitari”. Ma questo è impossibile senza un serio impegno militare sul campo che solo gli Usa possono fornire.
Rivendicare l’intervento imperialista per risolvere i problemi del popolo siriano non solo è stupido, ma criminale. Queste persone hanno forse dimenticato che l’attuale caos in Medio Oriente è stato causato dalla criminale invasione dell’Iraq da parte dell’imperialismo americano e dei suoi alleati? Hanno già dimenticato i disastri che sono stati causati dagli interventi imperialisti in Afghanistan e in Libia? Non sono consapevoli che gli stessi imperialisti a cui stanno chiedendo di “salvare Aleppo” sono gli stessi che collaborano attivamente assieme ai loro alleati sauditi, nei bombardamenti di scuole e ospedali nello Yemen, massacrando i civili e affamando deliberatamente la popolazione come arma di guerra?
Ma lasciamo da parte questa follia. La verità è che le opzioni americane in Siria sono estremamente limitate. Ci sono solo due possibilità. La prima è un intervento militare su vasta scala, con truppe di terra, per cercare di rovesciare le posizioni. Questo si deve escludere sia per ragioni militari che politiche. La lezione dell’Iraq e dell’Afghanistan è che è molto facile essere coinvolti in una guerra in Medio Oriente, ma molto difficile poi uscirne. Dopo le sconfitte in Iraq e Afghanistan, l’opinione pubblica americana è decisamente poco entusiasta su nuove avventure all’estero.
La seconda opzione è quella di fare un accordo con la Russia. In realtà, questa opzione è già stata accettata, seppur con riluttanza, da parte dell’amministrazione Obama. Trump si limita a dire in pubblico ciò che nel privato è chiaro a tutte le persone serie. È la Russia a decidere ora in Siria. È quindi molto probabile che Donald Trump cercherà di arrivare ad un qualche tipo di accordo con Putin. L’uomo del Cremlino proporrà un accordo che gli lasci il controllo dell’Ucraina e gli garantisca che la Nato non si intrometta ulteriormente nelle ex repubbliche dell’Unione Sovietica o nelle ex sfere di influenza sovietica, tra cui la Siria.
In cambio, all’America potrebbe essere data mano libera sulle proprie sfere di influenza, tra cui l’America Latina. Questo avrebbe gravi conseguenze per Cuba e il Venezuela. Recentemente l’attenzione di Washington è stata focalizzata sul Medio Oriente e l’Estremo Oriente. Ma ora si rivolgerà nuovamente all’America Latina. Se mette in atto la sua promessa elettorale, Trump utilizzerà la maggioranza repubblicana in entrambe le camere del Congresso per sabotare la normalizzazione delle relazioni con Cuba portata avanti da Obama.
In Venezuela la situazione sta diventando critica, con l’opposizione controrivoluzionaria che sta approfittando della crisi economica, dell’iperinflazione, della scarsità di cibo e dell’estrema insicurezza per passare all’offensiva. Finora non sono riusciti a rovesciare il governo, ma sembra che le cose stiano arrivando al momento decisivo. Quanto più a lungo i dirigenti bolivariani esitano, mentre restano aggrappati al potere, tanto più disperata diventerà la situazione. La presidenza di Trump coinciderà con il momento maggiormente critico per il Venezuela.
Le misure di emergenza adottate dal governo venezuelano non saranno sufficienti per evitare un default sul proprio debito sovrano, probabilmente nei prossimi dodici mesi. La minaccia di bancarotta darà all’opposizione nuove opportunità per lanciare proteste di massa che possono finire nel sangue e nella violenza. L’intera situazione è in una spirale discendente che si può concludere solo con un confronto diretto tra le forze antagoniste. La vittoria di Trump darà senza dubbio vigore alle forze controrivoluzionarie che si potranno aspettare un maggior sostegno da parte di Washington per le loro azioni aggressive.
Ovunque si guardi, Washington deve affrontare situazioni turbolente, con esplosioni in arrivo da ogni parte. Ma per quanto Donald Trump voglia voltare le spalle al resto del mondo e chiudere la porta dell’America per concentrarsi sui problemi interni, le fiamme che sono divampate al di là dei confini Usa richiederanno la sua attenzione. Se non lo fa, quelle fiamme possono minacciare di bruciare la porta di casa, o anche la stessa casa.
Trump e la Nato
La vittoria di Trump ha fatto suonare il campanello d’allarme in paesi come la Polonia e gli Stati Baltici, che temono il nuovo atteggiamento perentorio della Russia su scala mondiale. Trump, che ha già espresso il suo scetticismo circa il ruolo della Nato, chiede che l’Europa, la Corea del Sud e il Giappone “paghino il dovuto”, cioè il conto per la difesa. Questo significa costringerli ad aumentare la spesa militare e quindi a ridurre ulteriormente gli standard di vita. Questa è la politica del “Prima l’America”, espressa in moneta sonante.
Naturalmente, in risposta ci sono state urla di protesta da parte degli “alleati” degli Usa. Gli europei temono che un ritiro americano nell’isolazionismo indebolirebbe seriamente la Nato, lasciando vulnerabili i paesi dell’Europa orientale in prima linea di fronte alla Russia, anche se, contrariamente alla propaganda allarmistica portata avanti da Polonia ed Estonia, la Russia non ha alcuna intenzione di cercare di riprenderli con la forza. Ciò che vuole Putin è poter controllare indisturbato il proprio cortile di casa.
Gli europei si sono lamentati delle azioni russe in Ucraina, tacendo il ruolo dell’occidente nel provocare per primo il caos in quella regione. Mosca vorrebbe raggiungere un accordo con gli americani e gli europei che gli lasci il controllo della regione. Trump ha fatto sapere di essere disposto a permettere che la Russia mantenga la Crimea. Una cosa che probabilmente è irreversibile e gli americani lo sanno.
L’Europa è in una posizione molto debole. I suoi leader parlano della creazione di un esercito europeo, ma ciò è fuori questione. Gli interessi nazionali di ogni Stato verranno prima di ogni altra cosa e sarebbe impossibile istituire un comando congiunto. L’Europa verrà ulteriormente indebolita dall’avvio dei negoziati per la Brexit e dalle elezioni in Germania e in Francia. Non c’è quindi alcuna possibilità che un fronte unito degli Stati occidentali possa esercitare pressioni su Mosca.
Di conseguenza, è molto probabile che l’amministrazione Trump metterà fine alle sanzioni contro la Russia, o che almeno cercherà di allentare la pressione per facilitare un accordo con il Cremlino. Trump farà pressioni per porre dei limiti alla espansione della Nato nei paesi dell’ex sfera sovietica e gli ucraini scopriranno presto quanto sia veritiera l’affermazione che “le nazioni non hanno amici, solo interessi”. Agli alleati europei di Washington questo non piacerà, ma dovranno ingoiare il boccone amaro e accettare la cosa.
Il “rapporto speciale” con la Gran Bretagna
Theresa May, il Primo Ministro conservatore britannico, ha espresso l’ardente speranza che il “rapporto speciale” della Gran Bretagna con gli Stati Uniti continui e sia coronato da un accordo commerciale al primo momento buono. Dal momento che a breve la Gran Bretagna potrebbe essere fuori dal mercato unico europeo, la prospettiva di un accordo commerciale bello sostanzioso con gli Usa gli sta naturalmente molto a cuore. Ma in fatto di commercio, l’organo più utile è la testa e non il cuore.
Queste illusioni si sono rapidamente e brutalmente infrante. La realtà del cosiddetto rapporto speciale tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti è stata immediatamente svelata quando il presidente eletto si è ricordato di telefonare al Primo Ministro britannico solo dopo aver chiamato i leader di altri nove paesi – tra cui l’Irlanda e l’Australia. Si è trattato di un affronto calcolato verso l’establishment britannico. Ma il peggio doveva ancora venire.
Boris Johnson, il Ministro degli Esteri britannico, mentre si trovava a New York nel periodo della campagna elettorale, ha fatto alcune osservazioni specifiche contro lo sfidante repubblicano (non credendo chiaramente che potesse vincere le elezioni). Oggi Boris urla ad alta voce la sua sconfinata ammirazione, il rispetto e l’affetto per il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Ora vede enormi opportunità per le imprese inglesi sotto la nuova amministrazione Trump e si augura che ci si dimentichi passato (in particolare, che il nuovo presidente si dimentichi le sue osservazioni offensive).
Ma Trump non è il tipo di uomo che dimentica cose del genere e le illusioni della May e di Johnson che la Gran Bretagna possa ottenere un buon accordo commerciale con l’America di Trump si sono sgonfiate come uno pneumatico che passa sopra un chiodo di 15 centimetri. Hanno trascurato un piccolo dettaglio: la politica di Trump è “Prima l’America”. Trump mira a “rendere grande l’America” e mira a farlo a scapito del resto del mondo. Questa è la vera pietra angolare della sua politica. La Gran Bretagna non può aspettarsi favori, “rapporto speciale” o meno.
Per girare il dito nella piaga rappresentata da quella telefonata tardiva, il Presidente eletto, tra tutti i politici del mondo, ha scelto di incontrare Nigel Farage, il leader del partito di destra britannico Ukip, un uomo che non è nemmeno membro del Parlamento britannico, per non parlare del governo. Con un sorriso a trentadue denti, Farage si è fatto fotografare insieme al suo eroe in un ascensore dorato, come un pappone di terza classe che ha inaspettatamente ricevuto un invito in Vaticano per un’udienza privata con il Papa.
Per non meno di un’ora, il Padrino di successo e il suo tirapiedi di provincia hanno avuto una conversazione più che gradevole. Non ci è concesso sapere i dettagli di questo intrigante incontro ma il signor Farage ne è uscito al settimo cielo. La sua mente era ovviamente un po’ confusa da questo incontro con sua Altezza, ma Nigel ha elegantemente informato il governo di Sua Maestà a Londra che, se la signora May lo desidera, potrà contare sui suoi servizi come intermediario con l’uomo alla Casa Bianca e organizzare i contatti con il suo entourage.
La gentile offerta di Farage è stata prima ricevuta con un silenzio di tomba dal numero 10 di Downing Street e in seguito da un fermo rifiuto. La signora May e i suoi consiglieri hanno potuto a stento nascondere la propria assoluta umiliazione per il fatto che il primo politico ad essere invitato a incontrare il Capo di Washington era quel piccolo orribile uomo dell’Ukip. Nulla avrebbe potuto essere progettato meglio per offendere i nobili Tory o per rendere più chiaro che la Gran Bretagna è ora vista dall’altra parte dell’Atlantico come la Piccola Inghilterra.
Le conseguenze economiche dell’elezione di Trump
I mercati non stanno ad aspettare e non hanno perso tempo nell’esprimere il loro shock al risultato elettorale. Immediatamente si sono avuti forti cali nelle borse di Asia ed Europa. Grandi quantità di denaro hanno abbandonato i mercati azionari alla ricerca di investimenti sicuri come l’oro, che ha registrato forti aumenti, lo yen giapponese e il franco svizzero.
In realtà, la politica economica di Trump non è nuova. Si tratta di un miscuglio di idee confuse e contraddittorie, in cui il finanziamento tramite deficit di tipo keynesiano si combina con la politica monetarista dei tagli fiscali. Dal punto di vista capitalistico, questo è analfabetismo economico. Uno stimolo fiscale combinato con un grande aumento degli investimenti pubblici nelle infrastrutture della più grande economia del mondo potrebbe rilanciare temporaneamente l’economia. Ma questo porta con sé anche i suoi problemi e pericoli.
Il taglio alle tasse a favore dei ricchi, unito all’enorme aumento della spesa per le infrastrutture porterà a un impennata del deficit. Secondo alcune stime, il rapporto debito/Pil aumenterebbe del 25 per cento entro il 2026. Alla fine, questa è una ricetta fatta e finita per una nuova crisi economica. Il verdetto dell’Economist è stato chiaro: “Dopo la sferzata iniziale, le politiche populiste crolleranno infine sotto le loro stesse contraddizioni.”
Tuttavia, è il protezionismo l’effettivo contenuto del suo programma economico. Trump è un isolazionista, come da una comprovata e antica tradizione americana. Quando dice prima l’America, intende proprio quello. Quando promette di rendere grande l’America, intende farlo a spese del resto del mondo.
L’appoggio di Trump al protezionismo minaccia l’intera struttura del sistema economico capitalista a livello globale. I politici e gli economisti di tutto il mondo vedono la cosa con orrore e giustamente avvertono che se il protezionismo venisse portato avanti, porterebbe non solo a una recessione ma ad una profonda crisi a livello globale. Invece di difendere i posti di lavoro, porterebbe ad una disoccupazione di massa a livelli che non si vedevano dagli anni ‘30. Dalla Seconda guerra mondiale, la vera forza motrice della crescita economica mondiale è stata l’espansione del commercio a livello globale. La grande depressione degli anni ‘30 fu il risultato di politiche protezionistiche, svalutazioni competitive e un approccio da rubamazzo nell’economia. La storia può ripetersi.
Trump minaccia di rottamare l’accordo nordamericano di libero scambio e di stracciare il Ttip tra gli Usa e l’Ue. Questo accordo era già in gravi difficoltà, ma con l’arrivo di Trump ora è annegato. La vittoria di Trump fa suonare la campana a morto anche dell’accordo transpacifico (Tpp), che era stato progettato per incrementare il Pil del Giappone del 2,7% entro il 2030 e l’economia giapponese è uno degli elementi chiave per l’Asia e per l’economia mondiale.
Quando è stato annunciato il risultato delle elezioni il peso messicano è crollato. Se Trump mantiene la promessa di uscire dal Nafta, una tale mossa potrebbe assestare un colpo mortale alle esportazioni messicane, facendo precipitare il paese in una profonda crisi, con conseguenze sociali e politiche esplosive. Trump ne ha anche per il Brasile, di cui gli Stati Uniti sono il secondo mercato estero, che viene visto come uno di quei paesi con i quali “rivedere” gli accordi commerciali.
Trump accusa la Cina di “violentare” l’America. In questo momento la Cina, la seconda economia del mondo, rappresenta circa la metà del deficit commerciale netto statunitense. Trump minaccia di colpire duramente le importazioni dalla Cina con tariffe doganali punitive, ad esempio il 45% sull’acciaio, cosa che danneggerebbe le esportazioni cinesi, soprattutto nel settore elettronico. Questo porterebbe inevitabilmente Pechino a rendere pan per focaccia con delle barriere commerciali che porterebbero infine ad una guerra commerciale a tutto campo con la Cina. Anche questo porterebbe ad una situazione simile a quella della Grande Depressione degli anni ‘30.
Anche se Trump evitasse una guerra commerciale aperta, ci sono mille modi per introdurre forme di protezionismo nascoste: far passare delle leggi per cui un prodotto può essere venduto sul mercato americano solo se una certa percentuale di esso è stato prodotto negli Stati Uniti, oppure con leggi sulla sicurezza e l’igiene, per “proteggere l’ambiente” e così via. Anche leggi di questo tipo porterebbero a delle ritorsioni. In ogni caso, l’effetto sarà quello di deprimere il commercio e la crescita mondiali, aumentando così tutte le contraddizioni su scala globale.
L’Europa è ancora più vulnerabile della Cina di fronte ai freddi venti del protezionismo che soffiano da oltre Atlantico. Circa il 14% dell’export della zona euro va verso l’America. Anche se è inferiore al 18% della Cina, l’America rappresenta circa il 40% della crescita dell’export dell’eurozona. Per questo il protezionismo americano rappresenta una minaccia persino maggiore per l’Europa che non per la Cina.
Dopo otto anni di recessione, da cui i capitalisti non sono riusciti a districarsi, l’economia mondiale rimane fragile. La moneta unica è estremamente precaria. Dopo anni di austerità e di calo del tenore di vita, non è stato risolto nulla. Obama ha visitato recentemente la Grecia per esprimere la sua “solidarietà”. Si dice che sarebbe disposto a contribuire al pagamento dei debiti di quel paese. Ma sarebbe sorprendente se l’isolazionista Trump pagasse un solo centesimo.
Il voto di giugno sulla Brexit è stato un primo avvertimento del sentimento contro l’establishment. Ma simili tendenze centrifughe sono presenti in Francia, in Germania, in Italia e in altri paesi. Le ripercussioni della vittoria di Trump si faranno sentire il 4 dicembre nel referendum italiano sulla riforma costituzionale, dove il Primo Ministro Matteo Renzi potrebbe trovarsi di fronte ad una rivolta simile.
Una sconfitta (del fronte del sì, Ndt) potrebbe significare la caduta di Renzi e contribuire a rafforzare i populisti del Movimento Cinque Stelle, che sono a favore dell’uscita dell’Italia dall’euro. Le implicazioni per il futuro della zona euro e anche per la stessa Ue sarebbero molto serie. Se, come sembra inevitabile, prenderanno piede le richieste per indire referendum sulla permanenza nella Ue, non sarà in pericolo solo il futuro della moneta unica, ma anche la stessa Unione europea.
Trump significa pericolo di fascismo?
Nell’immediato, il successo di Trump rappresenterà una spinta per i partiti anti-immigrazione di destra, come il Front national in Francia e il partito di Geert Wilders in Olanda. Marine Le Pen cercherà di eguagliare il suo successo ad aprile/maggio 2017, quando la Francia eleggerà il nuovo Presidente. Di conseguenza, ci possiamo aspettare la solita rumorosa campagna di varie fette della sinistra che grideranno al presunto “pericolo fascista”.
Il marxismo è una scienza e come ogni altra scienza utilizza una terminologia precisa per caratterizzare i fenomeni. Il fascismo è una forma di reazione molto specifica. Nel senso classico si tratta di un movimento di massa della piccola borghesia e del sottoproletariato che mira a distruggere completamente il movimento operaio, e lo può fare in virtù della sua base di massa.
Hitler non distrusse solo i partiti operai e i sindacati, ma chiuse perfino i circoli operai di scacchi. Sotto il dominio dei nazisti, una dittatura totalitaria sostituì la democrazia borghese. Il movimento operaio fu schiacciato e la classe operaia completamente atomizzata. I nazisti poterono farlo attraverso un esercito di spie e di informatori in ogni condominio.
Donald Trump è certamente un rabbioso reazionario, un bigotto razzista e un nemico giurato del movimento operaio. Ma non è Adolf Hitler o Mussolini. È un demagogo di destra, ma si basa sulle strutture della democrazia borghese. Il suo scopo non è di rovesciare il sistema o di “prosciugare la palude di Washington”, ma è quello di favorire se stesso, la sua famiglia e i suoi interessi commerciali. Questo si vedrà presto nella pratica.
Dobbiamo mantenere il senso delle proporzioni. Quelli che gridano continuamente al “fascismo” giocano un ruolo negativo, confondendo le persone e, in sostanza, disorientando le masse in un modo tale che quando ci sarà una reale minaccia di reazione, non saranno in grado di rispondere adeguatamente. È come la storia del bambino che grida “al lupo, al lupo” così spesso che quando il lupo arriva veramente, nessuno gli accorre in suo aiuto.
La falsa idea del “male minore” porta direttamente nella palude della collaborazione di classe, come abbiamo visto negli Stati Uniti, quando a sinistra alcuni hanno sostenuto la candidatura di Hillary Clinton, sulla base del fatto che lei rappresentasse il “male minore” rispetto al “fascista” Donald Trump. Ricordiamoci anche che la vittoria di Trump è stata preparata da Obama che otto anni fa raccolse un enorme sostegno con lo slogan del “cambiamento” senza poi portare alcun cambiamento.
Questo approccio del “male minore” è sbagliato nella teoria e disastroso nella pratica. Hillary Clinton e Donald Trump rappresentano esattamente gli stessi interessi di classe. Rappresentano il dominio delle banche e dei monopoli. Sono infatti le stampelle di destra e di sinistra dello stesso sistema. Ricordiamoci anche che è stata Hillary Clinton a non battere Trump. In realtà, la sua campagna era destinata al fallimento proprio perché molti, correttamente, pensavano che fosse una cattiva scelta quanto l’altro. Molti hanno detto che hanno votato per Trump perché hanno pensato che fosse lui “il male minore”!
La natura reazionaria del programma di Trump è chiara e non ha bisogno di essere ulteriormente spiegata qui. Con Camera e Senato controllati dai repubblicani, Trump farà passare leggi che limitano i diritti civili. Ha detto che si batterà per nominare giudici che rovescino le sentenze per la parità dei diritti matrimoniali e per l’accesso all’aborto per le donne. Ridurrà o toglierà l’accesso all’assistenza sanitaria per milioni di poveri. Tutto questo rappresenta un programma reazionario di destra che va contrastato con ogni mezzo.
Naturalmente è necessario condurre una lotta seria contro Trump, la Le Pen e gli altri reazionari. Ma l’unica forza nella società che può condurre una tale lotta è la classe operaia. Ciò che serve è l’unità d’azione dei sindacati e dei partiti operai per combattere la reazione in tutte le sue forme. Ma ciò che non è ammissibile è sostenere l’unità di tutte le presunte “forze progressiste” per “difendere la democrazia”, includendo i partiti e i politici borghesi. Questa è una ricetta sicura per la sconfitta. Le elezioni americane ne sono state la più chiara conferma.
E ora?
“L’America non ha votato per cambiare un partito ma per cambiare regime” (The Economist).
Il reale significato del risultato elettorale è che il centro politico si sta sgretolando davanti a noi. La politica americana si sta fortemente polarizzando a destra e a sinistra. Questo è quello che più allarma la classe dominante e i suoi strateghi. Naturalmente, essendo Trump un miliardario magnate dell’immobiliare, è parte integrante del sistema capitalista e non rappresenta una vera minaccia. Ma le forze che ha scatenato rappresentano effettivamente una minaccia.
Per generazioni il capitalismo americano si è basato politicamente su due pilastri principali: i repubblicani e i democratici. Da tempo immemore il potere politico passava dall’uno all’altro senza che si potesse notare alcuna sostanziale differenza. Per dirla con le parole dello scrittore americano Gore Vidal: “negli Stati Uniti abbiamo un unico partito, il Partito della proprietà privata, con due ali destre”. Ora questa rassicurante situazione è stata sconvolta.
È significativo che in queste elezioni, per la prima volta, i politici statunitensi abbiano cominciato a realizzare l’esistenza della classe operaia. La stessa espressione “classe operaia” era proprio scomparsa dal vocabolario politico americano. Fino ad oggi si parlava solo di “classe media”. Ma la situazione di milioni di elettori negli Stati della cintura industriale del Nord del paese, alienati e impoveriti, ha obbligato questi politici a porre la propria attenzione sull’esistenza di quella classe che produce tutto ma non possiede nulla. Un allarmato commentatore politico ha osservato con preoccupazione che: “c’è un sacco di rabbia là fuori”.
Il miliardario Trump, da sapiente demagogo, è riuscito a entrare in sintonia con lo stato d’animo di rivolta che si stava diffondendo in particolare negli Stati industriali depressi come il Michigan, il Wisconsin e l’Ohio. Si è posto come il loro campione o il loro “difensore”, come sottolineato in precedenza. In realtà, Trump rappresenta solo se stesso. Ma facendo appello a questa massa di operai scontenti sta adottando una strategia che è molto pericolosa per la classe dominante americana e che rimpiangerà per tutta la vita.
Siamo in un periodo di profonda crisi del capitalismo, caratterizzato a livello internazionale da violente oscillazioni dell’opinione pubblica sia a destra che a sinistra. Le masse sono alla ricerca di una via d’uscita dalla crisi, così guardano prima da una parte poi dall’altra. Otto anni fa Obama ne ha beneficiato alzando la bandiera del “cambiamento”, ottenendo una straordinaria risposta. Ma le speranze di un cambiamento sotto Obama sono state disattese.
È questo che ha provocato una forte reazione e uno spostamento verso destra che, tuttavia, presenta molti elementi contraddittori. Nell’ultimo discorso pre-elettorale, Trump ha deliberatamente fatto appello alla classe operaia americana, perché facesse sentire finalmente la propria voce. Ha fatto appello agli “americani dimenticati”, ai milioni di disoccupati, disillusi e privati dei propri diritti, nella cintura industriale e nelle altre aree depresse devastate dalla crisi del capitalismo.
Questo messaggio non è caduto nel vuoto. Stati come il Wisconsin che, tradizionalmente votavano per i democratici, adesso sono passati ai repubblicani o, più correttamente, a Donald Trump. Questo esprime la disperazione che sentono i milioni che sono stati dimenticati, le vittime della crisi del capitalismo. Molti dei sostenitori di Trump erano stati impressionati dal messaggio socialista di Sanders e avrebbero votato per lui, ma mai per Hillary Clinton, una rappresentante politica dell’establishment che difende tutto ciò che la maggior parte degli americani detesta.
Il Presidente Trump scoprirà presto che una grande vittoria porta con sé grandi responsabilità. Il problema per Trump è che ora deve mantenere le promesse. Non ha più alcuna scusa per non farlo. Non potrà dare la colpa all’ostruzionismo di un Congresso controllato dai democratici. Sarà sottoposto a forti pressioni perché mantenga le sue promesse in tempi rapidi.
Il problema che Trump si troverà ad affrontare è che la classe dominante può controllare i politici e i presidenti in molti modi e ha nelle proprie mani leve sufficienti per assicurarsi che Trump non sfugga al suo controllo. Sulla carta, Trump ha un enorme potere. Non solo i repubblicani controllano la Casa Bianca, ma controllano anche la Camera e il Senato. Sono in una posizione molto più forte di quella in cui era Obama otto anni fa.
Il Presidente uscente ha previsto, con una certa malizia, che Trump dovrà adattare le sue promesse elettorali più stravaganti alla realtà del potere. È questa la fervida speranza dell’establishment americano e internazionale, se questa si concretizzerà o meno possiamo solo specularlo. Le prime indicazioni indicano già che Trump sta facendo marcia indietro rispetto alla sua demagogia elettorale.
Solo ieri minacciava di incarcerare Hillary Clinton; dopo l’elezione l’ha elogiata per la sua campagna coraggiosa e l’ha ringraziata per tutto quello che ha dato al popolo americano. Ha promesso di espellere undici milioni di immigrati illegali, ma ora dice che la cifra è più vicina a 2-3 milioni. Il famoso muro che sembrava volesse costruire lungo il Rio Grande si rivela essere più simile a un recinto. Anche sull’Obamacare, dice che non sarà proprio abolito ma solo “riformato” (anche se questo probabilmente significa la stessa cosa).
La proposta di Trump di cancellare gli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici ha provocato una protesta generalizzata. Ma a prescindere dell’effetto sull’ambiente, non porterebbe i risultati economici che si aspetta. La promessa di rilanciare l’industria del carbone americana è completamente vuota dal momento che è improbabile che qualcuno farà gli investimenti necessari. Inoltre Trump, in quanto rappresentante dei grandi industriali, probabilmente non potrà nemmeno portare avanti misure che danneggino il redditizio business delle fonti energetiche non fossili che negli ultimi anni è fiorito in America.
Trump ha detto: “Questa non è stata una campagna, ma un grande movimento”. Ma questo movimento lo ha spinto al governo e il governo, come sappiamo, non è per niente un movimento, quanto un’astuta proposta commerciale. La promessa più importante, ovvero il “prosciugamento della palude di Washington”, è stata immediatamente smentita dalla scelta dei suoi collaboratori, visto che include un buon numero di alligatori politici che hanno trascorso tutta la vita a sguazzare allegramente in tale palude. Naturalmente, non ha scordato i suoi familiari facendogli occupare posti importanti nella sua squadra, mentre continuano a dirigere le sue redditizie aziende.
Nel XIX secolo commercianti americani giravano le città del Midwest portando dentro a carri coperti valigette piene di una medicina. Questo farmaco, comunemente noto come olio di serpente, avrebbe dovuto curare tutti i mali. In mancanza di adeguate cure mediche, molte persone compravano l’olio di serpente e dopo averlo utilizzato aspettavano con impazienza un risultato rapido ed efficace. Ma dal momento che questo miracoloso farmaco consisteva prevalentemente di acqua colorata, le loro speranze andavano presto deluse. A seconda di quali altri fantasiosi ingredienti venivano aggiunti all’acqua colorata, o la situazione dei malati non migliorava o peggiorava considerevolmente.
L’indignazione che ne seguiva, era proporzionale alle aspettative che la precedevano. Molte volte, i venditori ambulanti venivano cosparsi di catrame e piume e cacciati dalle città. Donald Trump ha venduto il marchio Trump a un elettorato alla ricerca disperata di un cambiamento e ansioso di credere all’impossibile. Ma ben presto scopriranno che la merce che gli è stata venduta non funziona.
Alla fine Trump si rivelerà nient’altro che l’ennesimo presidente conservatore di destra che difende gli interessi delle grandi aziende. Già gli opinionisti politici prevedono che il Presidente Trump sarà un animale molto diverso dal Trump della campagna elettorale. Questo produrrà tra gli elettori repubblicani le stesse disillusioni di quelle che c’erano state tra chi in precedenza aveva riposto le sue speranze in Obama.
L’Economist vede il fallimento di Trump e la conclusione che ne trae è significativa: “Il pericolo che comporta la rabbia popolare è però che la disillusione verso Trump vada semplicemente ad aggiungersi al malcontento che in precedenza l’ha fatto diventare presidente. Se così fosse, il suo fallimento aprirebbe la strada a qualcuno ancora più determinato a far crollare il sistema” (Enfasi nostra).
Questo processo richiederà tempo. Le speranze esagerate di una parte considerevole della società americana nella nuova amministrazione potranno durare per un certo periodo. Come diceva il poeta Alexander Pope: “la speranza sgorga eterna nel petto umano”. Ma poco alla volta gli eventi la faranno esaurire, producendo una potente reazione. In politica, come nella meccanica, ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Lentamente ma inesorabilmente la ruota girerà. Si aprirà la strada per uno spostamento a sinistra ancora più grande in futuro.
Molti di quelli che hanno votato per Trump erano rimasti impressionati dal messaggio socialista di Bernie Sanders e dal suo appello per una “rivoluzione politica contro la classe dei miliardari”. Avrebbero votato per lui, ma non per Hillary Clinton. Ma Sanders è stato escluso per gli intrighi della macchina del Partito democratico. Il fatto che in seguito abbia appoggiato Hillary Clinton (come “male minore”) ha deluso i suoi sostenitori che non hanno votato o hanno votato per i verdi o addirittura per Trump.
Trump ha vinto perché ha adottato un atteggiamento di sfida verso l’establishment repubblicano. Se Bernie Sanders avesse tenuto un tale atteggiamento intransigente nei confronti dell’establishment del Partito democratico, ora sarebbe in una posizione molto forte. Ma ciò avrebbe significato rompere con i democratici. Che è poi l’unica strada percorribile.
Siamo entrati in un periodo di enorme turbolenza, caos e incertezza su scala mondiale. Le elezioni statunitensi sono solo un sintomo di questo. Il vecchio ordine vacilla e sta andando verso un precipizio. Le masse si stanno risvegliando alla vita politica. Nelle fasi iniziali ci sarà inevitabilmente confusione. Le masse non imparano dai libri rivoluzionari. Possono solo imparare dall’esperienza e sarà un’esperienza molto dolorosa. Ma impareranno. Le masse americane stanno prendendo le misure. I nuovi strati di lavoratori e giovani sono freschi e non sono contaminati da generazioni di dirigenti riformisti e stalinisti. Sono aperti alle idee rivoluzionarie e senza ombra di dubbio la campagna di Sanders lo ha dimostrato.
Questo processo richiederà tempo. Ci saranno molti alti e bassi: periodi di grandi lotte saranno seguiti da sconfitte, delusioni e anche dalla reazione. Non dimentichiamo che anche in Russia nel 1917, alla Rivoluzione di febbraio è seguita la vittoria della reazione kornilovista nelle giornate di luglio. Ma ciò, a sua volta, ha solo preparato la nuova e vittoriosa ascesa che ha portato alla Rivoluzione d’Ottobre. Prima o poi questo movimento troverà la sua espressione in un vero e proprio movimento verso il cambiamento sociale: cioè verso la rivoluzione socialista. Si stanno preparando grandi eventi. Che gioia vivere e combattere in tempi come questi!
Londra, 18 novembre 2016