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Cooperative sociali e sfruttamento: il punto di vista di una lavoratrice

Pubblichiamo un’intervista ad una lavoratrice del settore delle cooperative sociali che si occupano di assistenza socio-sanitaria domiciliare e nelle residenze sanitarie, un importante contributo verso “Libere di lottare!”, il convegno sulla condizione femminile che si terrà il 6-7 marzo.

Per partecipare, registrati qui:

Rivoluzione: Qual è la tua situazione lavorativa?

Samira: Dal 2007 sono impiegata presso una delle più grandi cooperative “sociali” della provincia di Modena, conta più di 3mila dipendenti, come operatrice nel settore socio-assistenziale. Sono inquadrata come OSS e ho lavorato soprattutto nell’assistenza domiciliare. Sindacalmente, sono da molti anni iscritta alla Cgil.

Rivoluzione: Quali sono le condizioni di lavoro prevalenti nel tuo settore?

Samira: Il salario di base è piuttosto basso. Con qualche scatto di anzianità, si può arrivare attorno ai 1200 euro per 38 ore di lavoro settimanali spalmate su sei giorni: un salario decisamente basso. È uno sfruttamento legalizzato da contratti nazionali firmati anche dalle direzioni dei principali sindacati. Abbiamo soltanto 17 giorni continuativi di ferie annue ed alcune grandi cooperative “sociali” includono in quel numero di giorni anche le domeniche – con periodi così brevi di stacco, molte di noi riescono a tornare nel proprio paese di origine soltanto ogni 3 o 4 anni.

In più, da alcuni anni l’orario di lavoro giornaliero può essere spezzettato tra le 7,30 e le 19,30, complicando ancora di più la vita, soprattutto se si hanno figli piccoli. Per lavorare sei ore, può capitare di stare fuori casa per quasi tutta la giornata. Io sono anche madre e questa flessibilità oraria accresce le difficoltà nell’incastrare tempi di lavoro e tempi di vita. Queste condizioni colpiscono non casualmente un settore che è composto al 95% da manodopera femminile, in gran parte immigrate dal Maghreb, dall’Africa Sub-sahariana e dall’Europa dell’Est. In pratica, siamo un settore molto ricattabile.

Rivoluzione: È cambiato qualcosa da quando, nel 2007, hai iniziato a lavorare in questo settore?

Samira: In gran parte, i cambiamenti sono stati in peggio, a partire dalla flessibilità nell’orario di lavoro giornaliero e dei riposi che a volte possono arrivarti dopo 11-12 giorni consecutivi di lavoro. Ho notato anche che, dopo la crisi economica del 2007-2008, le condizioni hanno subito un brusco peggioramento. E non solo perché, da qualche anno, per raggiungere la nostra qualifica è necessario acquisire un titolo il cui percorso di formazione può arrivare a costare anche alcune migliaia di euro – io l’ho potuto seguire gratuitamente e così dovrebbe essere, per tutti.

In Emilia-Romagna, regione che vanta di essere all’avanguardia nei servizi sociali, questo peggioramento ha avuto come strumento la legge regionale 514/2009 sul cosiddetto accreditamento. In nome della lotta agli sprechi e di un miglioramento della qualità del servizio da offrire al cittadino, il tempo di lavoro in cui fornire le nostre prestazioni è stato compresso all’osso. Ci vogliono trasformare in una catena di montaggio. Se, per esempio, una mattina dobbiamo alzare un paziente ricoverato in una casa di riposo, abbiamo tempi contingentati di 10/15 minuti per ogni “ospite” – nell’assistenza domiciliare i tempi, per ora, possono essere più estesi. Ma un vero servizio assistenziale di qualità dovrebbe basarsi su una cura personalizzata e non su coefficienti astratti.

In un numero crescente di servizi, poi, la lavoratrice che presta assistenza domiciliare è costantemente “controllata” dai capi tramite telefonini dotati di GPS ed un meccanismo di timbratura effettuato direttamente dalla casa dell’utente. In pratica, questo significa che non possiamo più prenderci neanche una breve pausa tra un servizio e l’altro, per rifiatare dopo prestazioni che possono essere anche molto faticose dal punto di vista fisico.

Rivoluzione: Che cosa ci puoi dire di più preciso su questo punto?

Samira: Molte lavoratrici soffrono di tendiniti o di problemi, anche gravi, alla schiena. In questi anni, per esempio, i miei problemi di schiena si sono aggravati ma non ho avuto, al momento, alcun riconoscimento di questa patologia come relazionata alla mia professione. La nostra fatica, peraltro, è moltiplicata dai tagli ai finanziamenti alla sanità pubblica. Pochi sanno che, se non gli viene riconosciuta l’invalidità al 100%, un paziente in assistenza domiciliare non ha diritto a ricevere gratuitamente dallo Stato ausili di primaria importanza come il sollevatore, il letto ospedaliero o il materasso d’aria che aiuta a prevenire l’insorgere di piaghe. Le famiglie che possono li acquistano, quelle più povere restano senza. Oltre ad un fondamentale diritto alla salute negato, questo costringe le lavoratrici ad uno sforzo fisico doppiamente pesante.

Rivoluzione: Negli ultimi dodici mesi, con l’insorgere della pandemia da Covid-19, qual è stata la tua esperienza?

Samira: All’inizio, siamo andate a lavorare come fossimo “carne da macello”: i nostri dispositivi di protezione individuale erano costituiti da mascherine di carta, un camice mono-uso per l’intero giorno di servizio ed un bagno condiviso con altri dipendenti come spogliatoio. In quell’occasione, però, ci siamo fatte sentire ed abbiamo ottenuto, abbastanza rapidamente, mascherine chirurgiche ed un camice mono-uso per ogni singola prestazione. Inoltre, in quello che era all’epoca il mio settore geografico di lavoro (l’area della città di Modena è divisa in cinque poli, suddivisi tra le due principali cooperative del settore, Domus e Gulliver), eravamo riuscite ad ottenere anche uno spogliatoio per poterci vestire e cambiare in sicurezza. Avere alzato la testa, unite, su alcuni nostri diritti elementari ha pagato. Ma restano molte cose che non vanno.

Rivoluzione: Qual è stato, in quell’occasione, il ruolo dei sindacati?

Samira: A prendere l’iniziativa siamo state noi lavoratrici, alcune di noi, mentre gli apparati sindacali si fanno vedere molto raramente. Anche per questo ci sono poche iscrizioni al sindacato e prevale la paura dei capi, quelli che ti possono trasferire di servizio e renderti la vita ancora più difficile se non ti sei mostrato docile ai loro ordini. Ma i problemi per noi restano e non abbiamo altre soluzioni all’infuori della lotta in prima persona. Ed in questo dobbiamo anche unirci per trasformare il sindacato in uno strumento dei lavoratori, che sia sempre e in prima linea il portavoce delle nostre rivendicazioni per una vita degna.

 

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