Rivoluzione n° 42-43
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19 Aprile 2018L’editoriale del nuovo numero di Rivoluzione
14 aprile: Usa, Gran Bretagna e Francia lanciano nuovi bombardamenti sulla Siria mentre si incrociano minacce di ritorsioni tra Usa, Russia, Francia e gli altri paesi che da sette anni ormai intervengono nella guerra civile siriana.
Con scarsa fantasia si torna ad accusare il regime di Assad di avere usato armi chimiche, la stessa accusa rivolta all’Iraq nel 2003 e alla Siria nel 2013-14 senza uno straccio di prove. Anzi, per maggiore simmetria ci si racconta che mentre Assad usa il cloro a Douma, i servizi segreti russi avrebbero usato il gas nervino in Gran Bretagna (attentato all’ex agente dei servizi britannici Skripal), evidentemente al solo scopo di fornire alle cancellerie occidentali e ai media a loro asserviti una bella storia sensazionalistica sul nuovo “asse del male” che associa Mosca e Damasco.
Il punto è che Assad, con il sostegno di Russia e Iran e facendo uso di una brutalità che non necessita di storie di fantasia per essere condannata, ha in larga parte vinto la guerra civile siriana. L’Isis è sconfitta, le altre forze fondamentaliste sono in ritirata (e il regime intelligentemente ha offerto una via d’uscita ai combattenti dell’opposizione in modo da dividerli), i loro protettori di un tempo (sauditi, qatarioti, turchi) hanno altre priorità.
Ma la guerra civile siriana è anche uno dei crocevia dello scontro che si combatte senza esclusione di colpi per stabilire le nuove gerarchie del potere mondiale.
Per capirne le basi non bisogna soffermarsi sulla propaganda o sulle caratteristiche individuali dei leader politici, sul teatro di ombre cinesi che si recita nella diplomazia e sui mezzi di comunicazione. Bisogna cercarne le radici nei processi economici in corso da decenni e che nei loro passaggi qualitativi creano questi terremoti politici.
Il declino degli Usa
Uno dei motivi cruciali di queste convulsioni è la crisi degli Usa come potenza egemone a livello mondiale.
Per circa tre decenni il mondo capitalista ha visto una enorme espansione del commercio mondiale guidata dagli Usa che attraverso i vari organismi internazionali (Fondo monetario, Wto, ecc.) imponevano la linea liberista: abbassamento o azzeramento delle barriere doganali, libera circolazione dei capitali, privatizzazione sistematica delle aziende statali e dei servizi pubblici, deregolamentazione del mercato del lavoro.
Secondo i dogmi liberali, il libero commercio significa benessere economico per tutti i partecipanti e, di conseguenza, “democrazia” diffusa. Ma oggi vediamo come tre decenni circa di liberismo abbiano condotto agli effetti opposti.
Invece del benessere diffuso c’è stata la più grande crisi della storia del capitalismo e l’abisso tra ricchi e poveri non è mai stato così profondo.
Invece del pacifico libero commercio vediamo l’inizio di una spirale protezionistica con dazi doganali, sanzioni e ritorsioni reciproche tra i vari blocchi commerciali.
Invece della “democrazia” abbiamo una crisi profonda dei partiti liberali (di destra o di sinistra, compresi quelli socialisti) che hanno governato questi processi e la crescita di movimenti di contestazione catalogati come “populismo”.
Da tre decenni la bilancia commerciale Usa è in deficit. Il picco negativo (-715 miliardi di dollari) si raggiunse poco prima della crisi del 2008; dopo un calo dovuto alla crisi, 2017 ha visto di nuovo un deficit di 588 miliardi. Parallelamente la finanza pubblica Usa ha visto l’accumularsi di un debito pubblico di oltre 20mila miliardi: il 108 per cento del Pil, quando ancora nel 2001 era del 53 per cento.
Con la supremazia economica entra in crisi anche quella politica. Washington non controlla più il mondo come in passato e la serie infinita di guerre in cui si è impegnata in questi decenni a partire dall’invasione dell’Afghanistan ha solo peggiorato la situazione. La guerra in Siria è stata da questo punto di vista lo spartiacque. Per la prima volta dopo il crollo dell’Urss l’imperialismo Usa ha dovuto ritornare sui propri passi. L’intervento diretto della Russia e dell’Iran ha impedito il rovesciamento di Assad e una frantumazione del paese analoga a quella della Libia.
La Russia, pur non essendo una potenza globale come lo sono gli Usa, ha forza sufficiente per dare una sponda, anche militare, quei governi che entrano nel mirino di Washington, permettendo loro di resistere, sempre che naturalmente questo si accordi con gli interessi di Mosca. Analogamente il crescente potere economico cinese rende disponibili capitali per investimenti che erodono il monopolio del dollaro. Il progetto della “nuova via della seta” lanciato dalla Cina coinvolge circa 60 paesi con costruzioni di strade, porti, ferrovie, infrastrutture di ogni genere, finanziati da Pechino. L’unico precedente paragonabile è il Piano Marshall che gli Usa misero in atto dopo la Seconda guerra mondiale per strutturare la propria egemonia sull’Europa occidentale.
Le misure protezionistiche di Trump vanno quindi al di là della sola esigenza di riequilibrare il commercio statunitense e di rilanciare la produzione industriale all’interno dei confini nazionali. Sono anche un attacco diretto allo Stato cinese, un tentativo di indebolire la sua capacità di agire in modo indipendente sullo scenario mondiale.
Analogo discorso vale per le sanzioni imposte alla Russia a partire dal 2014 come ritorsione per l’annessione della Crimea e per il conflitto in Ucraina. Queste sanzioni, di recente rafforzate dopo il caso Skripal, colpiscono sia l’apparato statale che quello economico, in particolare nel settore delle materie prime.
Il ruolo degli Stati nazionali
Nella fase della globalizzazione imperante molti a sinistra teorizzavano la fine degli Stati nazionali, sostenendo che il capitale fosse ormai diventato apolide e sovranazionale. Gli sviluppi degli anni recenti però smentiscono clamorosamente questa tesi: il ruolo dello Stato rimane centrale e ad esso la borghesia si deve appoggiare in modo sempre più evidente, che si tratti di usare soldi pubblici per salvare banche e grandi imprese, di conquistare mercati esteri e zone d’influenza o di difendere il proprio mercato interno per estrometterne i concorrenti.
La posizione dell’Unione europea è particolarmente debole proprio per la debolezza degli Stati che la compongono. Il protezionismo è una politica onerosa da sostenere, ma un conto è se a praticarla è una nazione di dimensioni continentali come gli Usa, con un enorme mercato interno. Altro conto se sono paesi di dimensioni medio-piccole come le nazioni europee, pesantemente legati al commercio estero e, nel caso della Germania (ma anche dell’Italia), dotati di una struttura industriale fortemente orientata alle esportazioni.
Questa necessità vitale mantiene, per ora, unita l’Ue come mercato unico, ma oltre a questo livello minimo non esiste e non può esistere un interesse generale comune dei paesi europei, che sono divisi su tutte le questioni fondamentali.
In Siria, Maghreb e Africa occidentale la Francia è interventista, la Germania no, mentre l’Italia lo è ma in concorrenza con la Francia. La Germania vorrebbe la distensione con la Russia, così come la chiedono le aziende italiane penalizzate dalle sanzioni, mentre i paesi dell’Europa orientale sono completamente allineati alle posizioni oltranziste di Washington e Londra. Questi esempi si potrebbero moltiplicare a piacere.
Dopo l’elezione di Macron e la riconferma della Merkel si è fatto un gran parlare sulle “riforme” e il “rilancio” che Francia e Germania avrebbero portato a un’Unione europea in crisi profonda, ma sono tutte chiacchiere. Con la crisi economica mondiale il “sogno europeo” è diventato un incubo per le masse che ad ogni elezione puniscono sistematicamente gli imbonitori che lo ripropongono sempre più stancamente.
Dopo la vittoria del nazionalista Orban nelle elezioni ungheresi, l’organo di Confindustria commentava così: “La forza eversiva del messaggio [nazionalista e anti-Ue – ndr] acquista una forza di attrazione e influenza culturale che supera le frontiere dell’Est per corroborare piccoli e grandi nazionalismi che crescono dovunque nell’Unione: dall’Austria all’Olanda, dalla Scandinavia alla Germania passando per Francia e Italia. ‘Di questo passo le europee del 2019 potrebbero sancire il trionfo delle forze anti-Ue’ (…)
È sanabile l’incomunicabilità Est-Ovest? Per la Germania di Angela Merkel deve esserlo: ‘Mi sta a cuore il futuro dell’Europa, che significa Unione a 27, non Europa dell’euro o altri gruppi’ ha chiarito di recente a Varsavia. Ennesimo colpo nello stomaco per il volontarismo riformista di Emmanuel Macron, che si va spegnendo per assenza di seguaci e scarse sintonie con Berlino.” (Il Sole 24 ore, 10 aprile 2018).
La sfida per il movimento operaio
Il mondo capitalista non ha più una gerarchia indiscussa e un ordine condiviso e accettato (più o meno di buon grado) da tutti. Sempre di più i conflitti non si regolano col negoziato, con le “regole internazionali”, con la “democrazia”, bensì con le prove di forza.
In questo i dirigenti riformisti vedono solo sciagure, vedono solo nazionalismo, egoismo, razzismo, regressione e si abbandonano a piagnistei indecorosi.
Per noi la questione si pone in termini assai differenti. Il caos mondiale nel quale il sistema capitalista sta precipitando non può essere curato con prediche e appelli alla ragionevolezza. Le piaghe della guerra, della disoccupazione, dello sfruttamento, dell’emigrazione di massa si diffondono perché questo è un sistema malato che si dibatte per sopravvivere a se stesso. Il movimento operaio ha il dovere di sfruttare a proprio vantaggio le convulsioni di questa crisi per porsi come punto di riferimento rivoluzionario per tutti gli sfruttati che ne subiscono le conseguenze.
In conclusione:
1) Le diverse borghesie nazionali devono fare sempre più appello alle masse per sostenerle nei loro conflitti con i concorrenti esteri. Oggi questi appelli hanno un contenuto reazionario, ma il messaggio che arriva a centinaia di milioni di persone è assai più profondo. Il potere costituito, il potere ufficiale, dice che bisogna combattere per i propri interessi senza curarsi delle regole democratiche e della “correttezza politica”. Oggi questo messaggio viene usato in senso reazionario e demagogico, ma domani quelle stesse masse lo rivolgeranno contro i propri governi e la propria classe dominante.
2) La divisione sempre più profonda che attraversa la borghesia a livello mondiale è un fattore rivoluzionario di prima grandezza. Significa che la classe dominante troverà difficoltà maggiori ad opporre un fronte comune di fronte ai movimenti di massa e ai processi rivoluzionari che si apriranno nella prossima fase.
3) Infine il ruolo sempre più centrale degli Stati rende nuovamente chiaro l’obiettivo di una lotta per il potere. Per decenni ci siamo sentiti dire dai riformisti che i governi nazionali non potevano più nulla di fronte al capitale multinazionale, che perdevano di importanza e che il terreno di lotta si trasferiva su un non meglio precisato livello “più alto”. Nella sostanza questa teoria giustificava la totale passività dei dirigenti riformisti, soprattutto dei sindacati, e l’accettazione supina di tutte le controriforme e gli attacchi alla classe lavoratrice, nella speranza che prima o poi si materializzasse una globalizzazione “buona” che restituisse un po’ di benessere a chi si vedeva tagliato il salario, i diritti, le pensioni e i servizi sociali.
Oggi invece appare evidente che se la borghesia usa in modo aperto e “brutale” il proprio potere statale, allora l’obiettivo della lotta per il potere politico mantiene tutta la sua centralità e anzi diventa vitale per la classe operaia se non vuole restare eternamente vittima e strumento impotente di interessi ad essa ostili.
Su questi tre assi conduciamo in tutto il mondo la lotta per un riarmo politico e ideologico del movimento operaio che lo tragga fuori dalle secche di un riformismo morto e ormai imputridito e lo ponga all’altezza della sfida.
16 aprile 2018