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Il processo costituente del nuovo soggetto della sinistra nasce segnato da tutti gli errori che hanno condotto la sinistra italiana a una crisi ormai quasi decennale. Nessuna lezione è stata appresa, nessun serio bilancio è stato tratto. Si tratta di un processo che avanza spinto unicamente dalla forza delle circostanze esterne, in primo luogo dall’offensiva senza soste del governo Renzi e di Confindustria, che tuttavia non si propone altro che la pura sopravvivenza elettorale delle forze che vanno a comporlo (Sel e le diverse scissioni dal Pd).
Le premesse politiche e teoriche dell’operazione sono chiaramente leggibili, al di là delle formulazioni più o meno retoriche.
1) L’europeismo “di sinistra”, ossia la riproposizione della mistificazione secondo la quale sarebbe possibile su basi capitaliste una Europa “sociale”, democratica, di pace, ecc. L’illusione che la lotta sia per la riforma dell’Unione europea. La stessa illusione che ha portato il Prc alla sconfitta nelle coalizioni di centrosinistra e che solo pochi mesi fa ha condotto Syriza alla capitolazione di fronte alla troika.
2) L’interclassismo e la collaborazione di classe. Nel migliore dei casi l’asse programmatico si definisce antiliberista, il che concretamente significa aderire al riformismo neo-keynesiano (Piketty, Stigliz, ecc.).
3) La riproposizione in prospettiva di alleanze di centrosinistra sotto nuova forma. La rottura col Pd è considerata insanabile nella misura in cui Renzi ha conquistato definitivamente il partito. Tuttavia continua la ricerca di settori di “borghesia illuminata” (cattolica o meno) con i quali si tenta di reincarnare l’eredità dell’Ulivo.
Non solo non è stata tratta alcuna lezione dalle vicende del Prc e della sinistra negli anni ’90 e 2000. Altrettanta cecità e sordità emerge nei riguardo agli avvenimenti greci e agli altri punti chiave della sinistra in Europa. La sconfitta di Tsipras è stata letta come una conseguenza di “rapporti di forza sfavorevoli”, dell’ostinazione della Merkel o di Draghi, della pusillanimità di Hollande o del servilismo di Renzi, ecc. ma nessuna risposta è stata data alla semplice domanda: se i rapporti di forza sono sfavorevoli (ammesso e non concesso che sia così), come è possibile mutarli?
La successiva riconferma elettorale di Syriza peraltro ha seppellito istantaneamente quel poco di dibattito autocritico che si era aperto dopo la capitolazione di luglio. Si considera sufficiente che in altri paesi europei si formino governi di orientamento affine per mutare i rapporti di forza sfavorevoli? È quindi una questione di percentuali elettorali? E da quando in qua le elezioni di per se stesse possono mutare i rapporti di classe nella società?
La realtà è che in Grecia abbiamo visto in forma concentrata e drammatica la ripetizione di una parabola che si è ripetuta decine di volte nella storia del movimento operaio: quella di una sinistra che si trova a conquistare il governo ma che si dimostra del tutto incapace prendere il potere, ossia di attaccare e distruggere il reale potere che governa la nostra società, che non si trova nei parlamenti e neppure nei consigli dei ministri, ma nei rapporti di proprietà e nelle relazioni di classe su scala nazionale e internazionale.
La tragedia greca potrebbe ripetersi a stretto giro anche in Portogallo. Si denuncia giustamente il presidente della repubblica di quel paese e il comportamento scandaloso e antidemocratico di tutti coloro che in Europa negano il diritto alla sinistra di governare nonostante il democratico verdetto delle urne. Si tace tuttavia sul fatto che prima ancora che una chiara prospettiva di governo si sia delineata, le forze della sinistra portoghese (Pcp, Bloco) abbiano dovuto dare garanzie di non volere mettere in discussione né l’adesione all’Europa capitalista, né quella alla Nato. Per l’ennesima volta la marcia di avvicinamento alle cariche governative comporta in primo luogo la moderazione dei programmi politici quando non addirittura una vera e propria abiura di punti fondanti.
La capitolazione di Tsipras è stata anche una cartina al tornasole per l’insieme delle forze della sinistra europea. Al momento della verità nessuna di queste ha dimostrato di fare propria la prospettiva della rottura rivoluzionaria. Tutti i proclami si sono sciolti come neve al sole nel giro di pochi giorni lasciando sul campo solo il “realismo” consistente nel chinare il capo di fronte all’avversario. Le voci dissonanti ad oggi si orientano o verso ipotesi nazionaliste (uscita dall’euro non come passaggio inevitabile in una transizione rivoluzionaria ma come “riconquista della sovranità nazionale” all’interno del capitalismo) oppure verso forme di unione monetaria più flessibili (“piano B” di Lafontaine, Melenchon, Fassina, Varoufakis).
Le basi su cui si tenta di rifondare la sinistra italiana si possono riassumere in una frase: la lotta di classe, questa sconosciuta.
Il problema di una forza politica di classe nel nostro paese non solo non trova soluzione in questo progetto, ma ad oggi neppure un ambito nel quale possa essere posto in modo efficace.
Si fanno anche grandi proclami sulla natura democratica del progetto, sul protagonismo dal basso e sulla partecipazione. Ma queste sono parole, la realtà è che data che esso nasce da un compromesso ai minimi tra forze che sono comunque differenti e anche concorrenziali fra loro, non la democrazia reale e il dibattito aperto ma la ricerca del “minimo comune denominatore” ne sarà la norma di funzionamento principale.
In questa palude si propone di andare a dissolvere il Prc. Una scelta che conclude un percorso tortuoso, che lungo gli anni attraverso tutti i vari tentativi (federazione della sinistra, cambiare si può, rivoluzione civile, l’altra Europa) ha costantemente gravitato verso l’esito liquidatorio, sempre giustificato con l’eterno ritornello: “non ci sono alternative, non si può fare altro.”
La consultazione che si propone di attuare fra gli iscritti non è altro che l’ennesima manovra per porre quel che resta della base militante di fronte a un fatto compiuto. La consultazione non è altro che un modo per evitare un dibattito congressuale rinviandolo fino a quando le scelte fondamentali saranno già state assunte e di fatto irrevocabili.
La richiesta di un congresso è del tutto fondata da un punto di vista democratico. Ma nessun congresso può rianimare un’organizzazione che ha ormai smarrito il senso politico della propria esistenza dopo anni in cui il gruppo dirigente ha consapevolmente lavorato a spoliticizzare l’attività militante di base riservando a se stesso le combinazioni elettorali e politiche, affidate alle manovre di vertice con le altre forze politiche.
Una Sel allargata a destra: questo è il soggetto al quale si intende devolvere le scelte elettorali e programmatiche, di fatto il profilo politico del Prc. Parlare dell’esistenza di un partito comunista, di un Prc che continuerebbe a svolgere un ruolo imprescindibile nella lotta contro il capitalismo diventa, in questo contesto, uno scherzo di cattivo gusto.
Si tratta di una scelta largamente annunciata dalla quale non solo ci dissociamo, ma che intendiamo combattere apertamente. Non lo faremo in una consultazione fittizia né in un dibattito interno ormai estenuato e completamente dissociato dalla realtà del conflitto di classe. Lo faremo in campo aperto, sul terreno reale della lotta di classe, del conflitto politico e della lotta per l’egemonia del programma rivoluzionario.
Il partito di classe non può nascere in Italia se non come parte di una ripresa reale del movimento dei lavoratori e dei giovani, su scala di massa: una ripresa per la quale esisterebbero tutte le condizioni, che ha avuto le sue anticipazioni nella lotta contro il Jobs Act e contro la Buona scuola, ma che non ha ancora saputo rompere il freno burocratico (sindacale e politico) che lo ha portato su un binario morto.
In assenza di tale movimento, ciò che nasce non è che una caricatura del partito di classe, una forza nella quale quei legami con la classe lavoratrice che pure esistono sono del tutto sommersi dalla zavorra riformista. La sfida non è quindi “costruire la sinistra”, bensì contendere l’egemonia a questa sinistra, oggi prevalentemente con un lavoro di chiarificazione e costruzione di una fascia di quadri e di militanti capaci di radicarsi nel movimento operaio e giovanile, domani nei movimenti di massa che inevitabilmente si manifesteranno.
Che questo compito comporti anche momenti di unità d’azione, di confronto politico, ecc. è assolutamente chiaro. Ma questo compito non può essere affrontato che sulla base di una chiarezza teorica e programmatica e di una assoluta indipendenza politica e organizzativa: precisamente ciò che con le scelte odierne il Prc si appresta a dismettere definitivamente e che per parte nostra intendiamo rilanciare e rafforzare.
Claudio Bellotti, Irene Forno, Gemma Giusti, Jacopo Renda