Sindacati di base divisi allo sciopero
24 Ottobre 2017Giustizia per Santiago Maldonado!
25 Ottobre 2017Intervistiamo Vidal Aragonés, consigliere comunale di Cornellà de Llobregat (città operaia dell’hinterland di Barcellona. NdT) per Cornellà en Comù-Crida per Cornellà, avvocato del lavoro che collabora con differenti sindacati di classe tra i più combattivi, in particolare i portuali; professore di diritto del lavoro alla UAB (Università autonoma di Barcellona), uno dei difensori più conseguenti dell’indipendenza catalana da un punto di vista marxista.
Vidal interverrà anche alla Notte rossa della Rivoluzione, sabato prossimo, 28 ottobre, a Napoli.
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Abbiamo letto e studiato con molto interesse il tuo articolo su Andrés Nin e la questione nazionale catalana, dove illustri lo sviluppo del suo pensiero profondo e non dogmatico su questo tema. Abbiamo anche letto gli scritti di Trotskij sulla Catalogna del 1931 e 1934. Trotskij era molto critico rispetto alle concessioni che il Boc (Blocco operaio e contadino) faceva al nazionalismo. Quali erano le divergenze tra Nin e Trotskij su questa questione concreta?
Trotskij in modo molto chiaro si diresse a Nin, soprattutto nel 1931, dicendogli che non c’erano le basi per unirsi al Boc, se non rinunciando a una politica di indipendenza di classe, in quanto il Boc si presentava come un’organizzazione separatista che seppure ispirata dal marxismo, se ne poneva al di fuori della tradizione.
Trotskij insisteva sul fatto che i marxisti sono i più convinti sostenitori del diritto all’autodeterminazione e della liberazione nazionale dei popoli oppressi, senza mai abbandonare una politica di indipendenza di classe.
Quella che nel ’31, appariva come una critica al Boc più che a Nin, nel ’34 si trasforma in una critica ad entrambi e soprattutto all’Alianza Obrera, un organismo in cui il Boc aveva una grande influenza. Si trattava di una critica che prima di ogni altra cosa insisteva sul fatto che non si poteva avere una posizione subalterna nei confronti della piccola borghesia di Esquerra (Esquerra repubblicana de Catalunya, il partito della piccola borghesia radicale che tutt’oggi esiste in Catalogna. NdT), ma piuttosto bisognava mostrarsi agli occhi delle masse catalane come i difensori più conseguenti dell’indipendenza della Catalogna. Sottolineava pertanto che non era possibile avanzare sul piano nazionale e democratico se non difendendo l’indipendenza.
Naturalmente difendere l’indipendenza non significava rinunciare in nessun modo all’unità internazionale e neanche a un partito dei lavoratori a livello statale.
Trotskij chiarisce che se di fronte alle masse non ci si mostra come i più grandi difensori del diritto all’autodeterminazione e persino dell’indipendenza, sarebbe stato impossibile vincere la battaglia in Catalogna. Ma allo stesso tempo insiste con Nin, che senza un’egemonia politica del proletariato in Catalogna, la rivoluzione spagnola sarebbe stata sconfitta.
È importante vedere come in seguito il Poum (Partido obrero de unificacion marxista), fondato nel 1935, non giocherà questo ruolo di difesa pratica dell’indipendenza catalana, rifiutandosi di guidarla(…)
Venendo ai giorni nostri, sviluppi la tua attività militante a Cornellà, uno dei nuclei del cinturone rosso di Barcellona, e ti definisci un cornellanenc di origine castigliana. Si parla molto della divisione su linee nazionali e linguistiche della classe operaia che vive in Catalogna. Sembra abbastanza chiaro che la lotta per l’autodeterminazione ha avuto un seguito più limitato nei quartieri operai di lingua spagnola di Barcellona e Tarragona, come si vede dalle cifre di partecipazione al referendum. Il Pp, Ciudadanos e il re stanno facendo grandi sforzi per mobilitare un movimento espanyolista in Catalogna dirigendosi a questi settori.
Qual è il tuo punto di vista da Cornellà? Come è possibile combattere le tendenze alla divisione nel seno della classe operaia, ampliando la base sociale della repubblica?
È importante chiarire che il movimento per l’emancipazione nazionale che esiste oggi in Catalogna non ha un carattere etnico. Ha un carattere nettamente progressista e non ha al suo interno elementi sciovinisti.
Problema a parte è che la direzione politica è in una fase di passaggio da Convergencia e Anc (Assemblea nazionale costituente. NdT) verso Esquerra e Omnium, pertanto svolta a sinistra e può andare ancora più a sinistra nei prossimi mesi.
Rispetto alla classe operaia, in primo luogo bisogna bandire ogni discorso che dice che la classe lavoratrice non ha partecipato al movimento. È falso. Questa posizione è indifendibile se si considera che hanno partecipato al referendum, votando Sì, oltre due milioni di persone e che lo stesso numero ha partecipato alle manifestazioni che ogni anno si tengono l’11 settembre. Il movimento esiste solo se le classi popolari, vale a dire, la piccola borghesia e la classe lavoratrice partecipano al movimento. Altra cosa, come si è detto, è capire chi ha la direzione politica, dove tuttavia le cose sono in cambiamento.
D’altra parte, questo sì, dire che la classe lavoratrice sta partecipando a questo movimento non significa che sia la maggioranza a partecipare. Senza dubbio per legami storici, familiari, culturali, linguistici (senza elementi etnicisti), ci sono lavoratori che hanno una posizione di non separazione dallo stato spagnolo.
È anche certo che c’è una maggioranza della classe lavoratrice che non si colloca né a favore, né contro l’indipendenza, ma disgraziatamente non si uniscono ancora al movimento perché non vedono da nessuno dei due fronti politici una soluzione ai loro problemi quotidiani. Difatto la posizione di neutralità è quella maggioritaria nella classe lavoratrice.
Siamo stati sorpresi dal fatto che nell’ultimo periodo settori crescenti del proletariato di lingua spagnola abbiano cominciato a dare il loro sostegno, non solo per il diritto al voto, ma per il sostegno al Sì, come l’opzione più democratica e più progressista.
Questo non significa che chiudiamo gli occhi di fronte a un settore (sicuramente più ampio) che non partecipa al movimento di emancipazione nazionale e al fatto che ci sia addirittura un settore che si schiera contro. Dipende dai quartieri.
Nelle città di medie dimensioni dove l’immigrazione si è integrata maggiormente con la classe operaia catalana, il processo per l’indipendenza ha un sostegno maggiore.
Malgrado ciò, il problema è che nella misura in cui la direzione politica è ancora in mano alla destra, questo ci impedisce di avvicinare nuovi settori della classe lavoratrice.
Se avanzassimo la parola d’ordine del “processo costituente” e in questo processo in modo molto chiaro si scommette sulla rottura del regime del ’78, ma anche per il recupero e la conquista dei diritti sociali, sarebbe il miglior modo per avvicinare più lavoratori al “processo”. Se questo non avverrà difficilmente ci sarà una vera rottura e l’indipendenza della Catalogna.
Ti abbiamo sentito intervenire al comizio della campagna della Cup a l’Hospitalet de Llobregat, dove è intervenuta anche Marta Sibina di En Comù Catalunya (l’organizzazione di Ada Colau, sindaca di Barcellona. NdT).
Lo stesso giorno, Albano Dante, di Podem, interveniva a un atto della campagna della Cup a Vic. Queste settimane si è vista una forte tendenza positiva all’unità tra la Cup e il mondo di Podem e di En Comù, sulla base di una lotta per l’autodeterminazione, la conclusione del cosiddetto “processo” e la lotta contro la repressione. Come rafforzare questa unità?
I compagni e le compagne che come me non appartengono nè a En Comù, né a Podem hanno accolto con forte simpatia il fatto che Podem Catalunya (a differenza di En Comù e di Podemos a livello nazionale) sta difendendo una posizione apertamente autodeterminista.
Lo fanno su linee classiche, di difesa del diritto di autodeterminazione, capendo che questo svolge un ruolo progressista, per cui non si difende il diritto in astratto ma la sua applicazione concreta che può servire ad avanzare anche sul piano sociale.
Come rafforzare il movimento? Sicuramente con la partecipazione della base. Se la centralità delle nostre parole d’ordine non è un appello all’indipendenza astratta, ma a una repubblica dal carattere sociale, una repubblica che recuperi diritti, che avanzi socialmente, da un punto di vista di classe e internazionalista.
Con queste parole d’ordine, questo programma e soprattutto lavorando giorno dopo giorno, spalla a spalla con questi compagni e compagne possiamo attrarre il settore più avanzato.
Nelle ultime settimane abbiamo visto l’esplosione del movimento dei Comitati di difesa (della Repubblica. NdT), come gli organi più avanzati della lotta di massa, che in molte località hanno attratto molta gente e che si sono occupati dell’organizzazione logistica del referendum. Quali sono i compiti di questo movimento, soprattutto se si tiene conto delle vacillazioni e delle debolezze della Generalitat, colpita dallo Stato e dalle sue divisioni interne?
I CdR sono senza dubbio il settore più rivoluzionario del movimento di emancipazione nazionale. Non ce ne sono due uguali. Alcuni sono composti fondamentalmente da compagni della Cup, ma anche da Omnium e della Anc, che coincidono su un punto programmatico chiaro e su chiare pratiche di rottura.
In altri CdR trovi compagni dell’anarco-sindacalismo, libertari e autodeterministi non indipendentisti.
Il primo compito è la sicurezza e l’autodifesa. Non dobbiamo perdere di vista che in questo momento abbiamo una realtà dove da un lato abbiamo la Polizia nazionale, la Guardia civile e altri corpi di polizia che occupano il territorio catalano e agiscono con ordini di servizio, fermi ed arresti. C’è una questione di sicurezza da non sottovalutare per i compagni e le compagne che partecipano al movimento di liberazione nazionale.
Il secondo è quello di generare una dinamica di crescita del movimento nei quartieri e nella classe lavoratrice, senza dubbio questo è possibile facendo crescere il movimento nella classe lavoratrice e tra i settori orientati più a sinistra.
Infine dobbiamo avere il polso della situazione perché si vinca nelle città e nei quartieri. Questo è possibile attraverso due elementi: stare permanentemente nelle strade organizzando assemblee e rispondendo alle azioni repressive facendo un appello a quei settori progressisti che ancora non difendono il diritto all’autodeterminazione. Dall’altra parte, bisogna migliorare il nostro coordinamento. Non possiamo organizzarci solo a livello di quartiere e di città, è necessario coordinare i Comitati di difesa della Repubblica a livello di tutta la Catalogna.
Un fatto molto positivo degli ultimi giorni è l’intervento della classe operaia organizzata, con lo sciopero del 3 ottobre, ma anche il servizio d’ordine organizzato dai pompieri, la partecipazione degli insegnanti, dei conduttori di autobus, dei contadini e la mobilitazione più spettacolare: il boicottaggio dei portuali alle navi che ospitavano la polizia.
Come attivista e avvocato del lavoro sei stato impegnato nella difesa legale dei lavoratori portuali. Come vedi l’ambiente nel movimento operaio e concretamente nei porti? Le due centrali sindacali, Ugt e Comisiones Obreras hanno vacillato non poco sullo sciopero del 3 ottobre e hanno avuto un atteggiamento ambiguo. Cosa c’è dietro questi movimenti?
Da circa 15 anni sono un avvocato del Collettivo Ronda e seguo i portuali di Barcellona e quelli del resto dello Stato attraverso l’organizzazione Coordinadora. Sul piano internazionale seguo anche un settore di portuali legati al sindacato internazionale Dockers’ Council.
Senza alcun dubbio le portuali e i portuali di Barcellona hanno dimostrato di avere a cuore la difesa dei diritti civili. Nella migliore tradizione dei portuali hanno fatto un appello allo sciopero generale e già dalla settimana precedente avevano lanciato il boicottaggio dei rifornimenti alle navi che ospitavano nel porto di Barcellona e di Tarragona le forze repressive dello stato.
Non hanno fatto un appello all’indipendenza, ma alla difesa dei diritti democratici, il che corrisponde alle caratteristiche di un sindacato di classe, nonostante per anni siano stati accusati da voci maligne di essere un sindacato corporativo.
Il sindacato dei portuali a livello statale invece ha fatto un comunicato di condanna sui fatti del 1° ottobre, difendendo un’apertura al dialogo.
La posizione di Comisiones Obreras e Ugt è stata quella di accogliere le indicazioni del Tavolo della democrazia, come avevano richiesto l’Anc e Omnium, accettando le loro indicazioni che il 3 ottobre non fosse visto come la data di uno sciopero generale ma di “una fermata nazionale”.
Dopo la repressione dell’1 ottobre, i vertici di Comisiones e Ugt hanno dovuto dare il loro sostegno alla convocazione del 3 ottobre, che fino a quel momento era una data proposta solo dai sindacati alternativi e di base (Cgt, Iac, Cos e I-Csc), ma con la loro ambiguità hanno depotenziato lo sciopero generale riducendolo in alcune realtà a pochi minuti di fermata, parlando di una “fermata nazionale patriottica”.
Lo hanno fatto non perché si sono trasformati in “patrioti della Catalogna” ma per frenare il sindacalismo alternativo e apparire agli occhi dell’oligarchia come uomini d’ordine. Si tratta di una mia valutazione, che in tutta onestà non posso suffragare con dati.
Ciò detto lo sciopero generale è stato il più grande in Catalogna dalla fine della dittatura.