Il M5S e le elezioni comunali a Roma: la fine di un’epoca
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7 Ottobre 2021Nel corso delle elezioni del Bundestag tedesco e del parlamento statale di Berlino, ai berlinesi è stato chiesto anche di votare sul referendum “Deutsche Wohnen & Co. enteignen“ (DWE – Espropriare Deutsche Wohnen & Co), il quale richiedeva che gruppi immobiliari orientati al profitto che possiedono più di 3000 appartamenti a Berlino, come Deutsche Wohnen, venissero collettivizzati e che se ne trasferissero gli appartamenti a un’istituzione di diritto pubblico che li gestisse democraticamente con l’aiuto degli inquilini stessi. L’indennizzo dovrebbe essere ben al di sotto del valore di mercato ed essere finanziato da un prestito rimborsato tramite affitti futuri.
Nel 2003 il sindaco SPD Klaus Wowereit rispose alla domanda su cosa rendesse la sua città così speciale definendo Berlino “povera ma attraente”. Intendeva dire, cioè: è un luogo pieno di degrado e disoccupazione, è l’ex città del muro, ma se vuoi vivere qui, se vuoi vivere il luogo pienamente, non ti serve molto denaro.
Diciotto anni dopo la situazione è cambiata. Anno dopo anno gli affitti continuano costantemente ad aumentare e la spirale della gentrificazione gira sempre più velocemente. Quartieri e distretti che erano abitati principalmente da lavoratori, impiegati ed immigrati ora ospitano gli uffici berlinesi di aziende internazionali come Amazon o Google. Simbolico il caso di Prenzlauer Berg: era uno dei principali quartieri dei lavoratori durante la DDR; si è trasformato poi – dopo la riunificazione – nel parco giochi degli studenti di Berlino e, successivamente, nella base d’appoggio per l’emergente scena techno berlinese. Ad oggi, sono presenti qui appartamenti per famiglie, coppie e single. Il processo di gentrificazione (a Berlino come altrove) vira cioè verso uno spostamento dell’area residenziale presso la zona più periferica della città.
In passato, le misure del Senato “rosso-rosso-verde“ (costituito dall’SPD, dai Verdi e da Die LINKE), introdotte quantomeno per rallentare il rincaro degli affitti, non hanno comportato un sostanziale cambiamento, poiché – in caso di affitti ingiustificatamente alti – spettava ai locatari far valutare i terreni per eventuali riduzioni. Ma logica voleva che, una volta trovato finalmente un appartamento a Berlino, si ingoiasse la pillola del prezzo eccessivo per evitare complicazioni con il padrone di casa e si evitasse il rischio di essere cacciati per eventuali proteste. Altre misure, come la cosidetta Milieuschutz (protezione dalla messa in vendita da parte dei proprietari), sono state applicate soltanto nei singoli quartieri più colpiti dalla gentrificazione e mai in tutta la città (nelle zone in questione, la conversione di appartamenti in affitto in condomini ha iniziato a richiedere l’approvazione del comune e il comune ad avere diritto di prelazione sugli edifici residenziali in procinto di essere venduti).
Nel febbraio 2020 è entrato in vigore infine un “Rent cap”. Con effetto retroattivo a giugno 2019, tutti gli aumenti di canone affittuario sono stati vietati e tutti i nuovi canoni sono stati soggetti a una soglia massima a seconda dell’anno di costruzione e delle dotazioni della casa. Da novembre, i proprietari hanno dovuto abbassare di propria iniziativa gli affitti che superavano questo limite, onde evitare il rischio di multe. Ciò ha comportato una significativa riduzione degli affitti in circa 340.000 appartamenti a Berlino.
Ma dopo una denuncia da parte dei membri del Bundestag della CDU conservatrice e dell’FDP liberale davanti alla Corte costituzionale federale, il tetto all’affitto è stato dichiarato incostituzionale da quest’ultima. Il motivo non era il contenuto effettivo della legge, ma che esisteva già un freno al prezzo degli affitti a livello nazionale e che il Senato di Berlino avrebbe dunque “superato i suoi poteri“ all’interno della Repubblica federale. Per cui gli affitti sono aumentati nuovamente e gli inquilini hanno dovuto a posteriori rimborsare la differenza rispetto al vecchio affitto, che nella maggior parte dei casi ammontava a diverse migliaia di euro. Parliamo della primavera del 2021: in una pandemia mondiale che imperversava da un anno, quest’obbligo di rimborso se ne infischiava dei berlinesi costretti a lavorare a orario ridotto, per non parlare di chi aveva del tutto perduto l’occupazione.
La sera dell’annuncio del verdetto, 15.000 berlinesi si sono radunati per una combattiva manifestazione spontanea ad Hermannplatz.
Allora è stata la rabbia per l’annullamento della soglia, per l’onnipresente repressione e per quella classe dominante sempre difesa e rappresentata dalla Corte costituzionale federale che ha spinto le persone in piazza.
DWE ha preso parte attiva a tale protesta, approfittando del disappunto dei cittadini per presentare le sue istanze e per raccogliere un enorme numero di firme. E poiché l’iniziativa invoca come fondamento della sua richiesta uno specifico articolo della Legge fondamentale – l’articolo 15 consente la collettivizzare dietro compenso statale – l’associazione con la DDR e con l’economia pianificata, che è abitudine frequente nella propaganda della borghesia tedesca, perde la sua efficacia.
DWE, come movimento, è emerso a partire da iniziative in tal senso di specifici quartieri di Berlino. Dal 2010 circa cittadini e piccole realtà locali hanno iniziato a organizzarsi soprattutto a Kreuzberg, dove la gentrificazione era maggiormente evidente. Ciò ha portato a iniziative come Kotti & Co. e Bizim Kiez, che sono nate per esempio a partire dalla chiusura di un negozio di frutta e verdura. Negli anni sono nate iniziative simili – molto organizzate, ma di solito a livello prettamente locale – a Kreuzberg, Friedrichshain e Neukölln in particolare, che hanno coperto soltanto il raggio di poche strade. A partire da ognuna di queste, però, è nata con il tempo una rete comune.
Anche DWE è un movimento strutturato in modo simile. Nei singoli distretti sono presenti organizzazioni “di quartiere“ che si incontrano regolarmente per le attività locali, e soltanto ogni due settimane prendono parte a una riunione cittadina unificata: a partire da questi due tipi di raggruppamenti, viene eletto ogni anno un macro-gruppo coordinatore. Ma il movimento – a livello cittadino – si dirama anche in sette differenti gruppi di lavoro incentrati su temi come le pubbliche relazioni, le campagne elettorali, la creazione di nuove squadre di quartiere, la traduzione dei materiali in altre lingue, ecc. È stato fondamentale offrire materiali e manifesti elettorali anche in turco , arabo e russo, poiché gli immigrati sono tra le categorie principalmente colpite dalla gentrificazione e dal rincaro degli affitti.
Le associazioni distrettuali berlinesi dei maggiori sindacati tedeschi sostengono tutte l’iniziativa (Ver.di, IG Metall, GEW) e hanno chiesto ai propri iscritti di votare “sì”. Ciò nonostante, il DGB, la confederazione generale, non ha esplicitato il suo sostegno (ma la sua organizzazione giovanile berlinese sì) e in generale nessuna rappresentanza sindacale ha fatto grandi apparizioni durante la campagna elettorale per il referendum.
L’iniziativa ha ricevuto comunque moltissimo sostegno, soprattutto sotto forma di collaborazione individuale da parte dei membri di iniziative di quartiere e di vari gruppi di sinistra berlinesi che sono già attivi nel campo delle politiche affittuarie.
Il partito Die LINKE ha accolto le richieste di esproprio del movimento al punto tale da inserirle nella propria campagna elettorale. Molti membri del partito, d’altronde, sono attivi all’interno dell’iniziativa; tali elementi hanno organizzato piccole campagne parallele per il “sì“ al referendum anche durante la più grossa campagna per le elezioni federali. Sugli stessi manifesti elettorali, i migliori tra i candidati del partito indossavano i giubbotti viola e gialli del movimento DWE.
I Verdi, nonostante abbiano votato a favore del referendum alla loro conferenza del partito di Stato, sono divisi. La candidata di punta Bettina Jarasch ha detto che avrebbe votato “sì“, ma più come un voto di protesta “simbolico“ contro gli affitti effettivamente troppo alti che come una assenso alla collettivizzazione sistemica dei grandi gruppi immobiliari.
L’SPD è quantomeno sincero e continua ad assecondare l’opposizione liberal-conservatrice e l’industria immobiliare. La candidata di punta dell’SPD, futura sindaca berlinese Franziska Giffey, ha mostrato chiaramente in campagna elettorale di non essere interessata a proseguire la coalizione rosso-rosso-verde, strizzando così l’occhio all’elettorato conservatore: riferendosi alle sue vicissitudini personali durante la DDR socialista (frequentava la quinta elementare quando cadeva il muro), ha dichiarato che la collettivizzazione avrebbe rappresentato il “confine rosso” che non avrebbe voluto oltrepassare. Ha dichiarato poi che, però, avrebbe almeno rispettato il risultato del referendum. Menomale.
L’associazione giovanile SPD di Berlino (Jusos), fino a gennaio di quest’anno ancora guidata da Kevin Kühnert (che nel 2019 – quando gli è stato chiesto quale fosse la sua idea di “socialismo democratico“ – ha parlato di nazionalizzare la BMW e concedere a ogni persona un massimo di un appartamento di proprietà) si è espressa in favore del referendum.
Kühnert, invece, essendo ora arrivato ai vertici del partito, ha accettato pacificamente la proprietà privata non di due, ma di ben 3.000 appartamenti e ha espresso dissenso rispetto alla posizione degli Jusos berlinesi.
Il 56,4% dei berlinesi ha votato “sì“ al referendum. In 10 dei 12 distretti di Berlino ha votato “sì“ la maggioranza degli aventi diritto. L’iniziativa ha ottenuto i più alti indici di gradimento in particolare nei distretti giovanili, studenteschi e dei migranti (Friedrichshain, Kreuzberg, Neukölln) e negli ex quartieri di Berlino Est (Pankow, Lichtenberg).
In termini assoluti 1.030.000 berlinesi hanno votato “sì“ al referendum, mentre l’SPD – il partito più forte – ha ottenuto nella città soltanto 390.000 consensi.
C’è da sottolineare tra l’altro che quasi un terzo dei residenti a Berlino non può effettivamente votare perché non è in possesso della cittadinanza tedesca. Questa lamentela è stata affrontata animatamente dalla stessa DWE durante la campagna elettorale: il referendum finale è stato preceduto infatti da due fasi di raccolta firme, durante le quali l’iniziativa ha consentito la firma anche ai non cittadini. Ci si è resi conto in questo modo che delle quasi 350.000 firme raccolte, il 30% è stato dichiarato nullo, o (in minima parte) per errori formali, o (in massima parte) perché il firmatario non aveva la cittadinanza.
Premesso ciò, la strada tra il travolgente “sì” e l’esproprio effettivo delle aziende è ancora parecchio lunga (avvilente, considerato che i cittadini di Berlino hanno votato per una risoluzione pratica ai loro problemi reali, non per esprimere un’opinione sterile durante un referendum legislativo). L’attuazione o meno della proposta dipende dalla composizione del prossimo Senato. Spetta a tale organo elaborare una legge finalizzata a regolare l’eventuale collettivizzazione: c’è ancora dunque molto spazio di manovra per il futuro Senato e sembra decisamente improbabile che un governo guidato da Giffey possa basarsi fedelmente sulla precisa proposta legislativa formulata dall’iniziativa. Troppo allettante sembra invece un rinvio verso l’ignoto della messa in pratica, giustificabile con le eventuali infinite discussioni sull’ammontare del risarcimento e sulla conformità costituzionale della legge da elaborare.
Al momento non è ancora chiaro come si comporrà il futuro Senato di Berlino. Giffey non sembra essere interessata a una continuazione della coalizione rosso-rosso-verde, le sue vele sembrano direzionate verso una Coalizione Tedesca, cioè un governo congiunto con CDU e FDP.
Non è chiaro se riuscirà a ignorare la base SPD di Berlino: questa settimana quattro associazioni distrettuali hanno insistito perché si proseguisse una coalizione rosso-rosso-verde.
Il referendum ha reso chiara la volontà della maggioranza dei lavoratori e giovani berlinesi, ma solo la lotta potrà garantire il diritto a una casa e a un affitto equo per tutti!